La Corte europea dei diritti dell’uomo affossa la prescrizione (ma solo quella?) in tema di occupazione acquisitiva-note volanti a Corte dir.uomo 5 giugno 2012, Immobiliare Cerro c.Italia-.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo la saga di decisioni volte a sanzionare l’an debeatur rispetto alla violazione dell’art.1 Prot.n.1 annesso alla CEDU con riguardo alle vicende delle c.d. espropriazioni indirette[1] sta passando alla quantificazione degli “indennizzi” spettanti ai proprietari che hanno nel tempo ottenuto le pronunzie di accertamento della violazione.
La sentenza resa il 5 giugno 2012 nel procedimento Immobiliare Cerro c.Italia (ric.n. 35683/03) [2]http://www.giurcost.org/casi_scelti/CEDU/CEDU05-06-12-35638.htm – non presenta, a prima lettura, tratti di rilevante novità, quanto all’ambito risarcitorio,  rispetto al leading case rappresentato da Corte dir. uomo 22 dicembre 2009,Guiso Gallisay c.Italia[3]  che ha ridimensionato in modo consistente le aspettative del proprietario illecitamente privato del dominio, escludendo la risarcibilità del valore dei manufatti edificati sull’area trasformata.
Il lettore, in effetti, leggendo la sentenza appena ricordata, vi scorge soltanto un vago riferimento ad una decisione della Corte di appello di Milano che nel 2006 aveva liquidato delle somme alla società a titolo di indennità di occupazione legittima.


Nulla si apprende della vicenda complessiva se non attraverso il rinvio per relationem alla sentenza resa dalla stessa Corte europea nel medesimo procedimento e tra le stesse parti il 23 febbraio 2006.
Come già ci era capitato di ricordare tale decisione occupava, nel florilegio delle pronunzie di condanna rese dalla Corte europea in tema di occupazione acquisitiva, un posto assai particolare.
Essa era infatti intervenuta nell’ambito di un procedimento definito  da una delle tre sentenze delle Sezioni Unite civili della Cassazione che, nel 2003- e precisamente  Cass.S.U.n.6853/2003-, all’indomani delle sentenze Carbonara e Ventura e Belvedere Alberghiera c.Italia del maggio 2000- rese dalla Corte dei diritti umani – avevano mandato “assolto” l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ritenendolo pienamente compatibile con il parametro convenzionale proprio per  i caratteri di diversità  del caso concreto rispetto a quello oggetto della sentenza Carbonara – Ventura.
Proprio Cass. S.U. n.6853/2003, nel decidere la causa proposta dalla società proprietaria contro l’espropriante che aveva illecitamente occupato un fondo irreversibilmente trasformandolo, aveva confermato la piena compatibilità dell’occupazione acquisitiva con l’art.1 Prot.n.1 annesso alla CEDU sulla base di quanto già prima aveva sostenuto Cass.S.U.5902/2003, ritenendo corretto l’operato dei giudici di merito che avevano escluso il diritto al risarcimento del danno correlato alla perdita della proprietà connessa all’irreversibile trasformazione del bene in ragione del decorso del termine di prescrizione.
In quella circostanza, Cass.S.U. n.6853/2003 aveva esplicitamente affrontato il capitolo prescrizione, ritenendo parimenti corretto che l’azione risarcitoria fosse sottoposta, nel caso di occupazione acquisitiva, al termine quinquennale.
Ciò perché nel sistema processuale interno chiunque intende far valere un diritto in giudizio deve proporre domanda al giudice competente e, peraltro, anche chi subisce un esproprio rituale, se non ritiene di accettare l’indennità determinata in sede amministrativa, ha l’onere di proporre l’opposizione alla stima in sede giudiziale.
Nulla, in altri termini, consentiva di distinguere, secondo le Sezioni Unite, l’illecito aquiliano per il quale l’ordinamento interno prevede in via generale il termine quinquennale da quello perpetrato in danno del proprietario vittima di un’occupazione acquisitiva.
Infatti, la prescrizione quinquennale – prevista dall’art.2947, primo comma, cod. civ. -era istituto di applicazione generale fondato su un’esigenza di certezza che determina l’estinzione del diritto per inerzia del titolare.
In più, nessun dubbio poteva ormai sussistere in ordine alla decorrenza del termine di prescrizione in parte qua, avendo la giurisprudenza di legittimità ripetutamente affermato che lo stesso comincia a decorrere dalla data di scadenza dell’occupazione legittima, se l’opera pubblica è realizzata nel corso di tale occupazione, oppure dal momento dell’irreversibile trasformazione del fondo (coincidente con la modifica dello stato anteriore del bene), se essa è avvenuta dopo quella scadenza (o in assenza di decreto di occupazione di urgenza ma sempre nell’ambito di valida dichiarazione di pubblica utilità dell’opera).
Infine, notavano le Sezioni Unite, la prescrizione non poteva essere rilevabile d’ufficio, ma doveva essere opposta dalla parte che vi ha interesse e dunque dall’ente occupante e poteva essere interrotta con un semplice atto che valga a costituire in mora il debitore.
Il distinguishing  operato dalle Sezioni Unite rispetto alla sentenza  Carbonara e Ventura  si fondava sul fatto che mentre nella vicenda appena ricordata l’occupazione appropriativa si era realizzata il 28 ottobre 1972, quando ancora la giurisprudenza aveva dato luogo a pronunzie discordanti in punto di prescrizione, non così poteva dirsi per la vicenda dell’Immobiliare Cerro, posto che l’irreversibile trasformazione si era realizzata il 4 febbraio 1979 ed il 26 febbraio 1983, quando  era stata pubblicata la storica  sentenza delle Sezioni Unite n. 1464 che aveva sancito il termine di prescrizione di cinque anni,  il termine anzidetto era ancora in corso  “e sarebbe venuto a scadere circa un anno dopo la pubblicazione della sentenza stessa”.Ciò rendeva “precisa e prevedibile l’applicabilità della disciplina legale della prescrizione, prevista dal codice civile” anche perché il proprietario si sarebbe potuto limitare ad un semplice atto di messa in mora per interrompere il corso della prescrizione medesima. Il sistema, secondo le Sezioni Unite,  “prevedeva e prevede adeguati meccanismi risarcitori, sia perché, con riferimento al caso di specie, la perdita del diritto al risarcimento è derivata da un’inerzia della parte che ha portato alla (prevedibile) applicazione della disciplina legale della prescrizione”, sia perché l’ordinamento – contemplando un meccanismo semplice ed accessibile a tutti per interrompere il corso della prescrizione – consentiva una tutela efficace con un minimum di diligenza esigibile da chiunque.
Il passaggio a Strasburgo ha quindi visto il ribaltamento della posizione definita presso i giudici interni, visto che secondo  la Corte europea dei diritti dell’uomo  nel caso concreto l’applicazione del termine quinquennale di prescrizione aveva avuto come effetto quello di privare il proprietario dell’intero pregiudizio subito,  così  polverizzando  nei fatti gli argomenti esposti da Cass.S.U. n.6853/2003 (e, tra questi, quelli volti a giustificare il sistema della prescrizione quinquennale) per giustificare  l’insussistenza del diritto al valore venale del bene reclamato dal proprietario.
La sentenza della CtEDU che ha definito il giudizio sul quantum  del 5 giugno 2012 si chiude, così, con una condanna dello Stato italiano che si è attestata, pur con le incertezze che la valutazione equitativa che la Corte predilige per comprensibili ragioni, su un importo di poco inferiore a quello determinato dalla perizia svolta nel procedimento interno, rivalutato e maggiorato di interessi. Sicchè a fronte di una somma di circa 261.600 euro quantificata ab origine, si è passati ad euro 2.452.000, ai quali vanno ad aggiungersi gli importi dovuti a titolo di imposta, i danni morali-euro 15.000- patiti dalla società[4] e le spese.
Non è qui il caso di soffermarsi sulle conseguenze economiche della sentenza.
Merita semmai una fulminea riflessione lo scollamento che si era creato in via sistematica fra le istanze nazionali e la tutela proprietaria, al quale ha posto rimedio, sempre in via sistemica, la Corte dei diritti umani con una serie di pronunzie che hanno sconvolto il panorama normativo interno, determinando un effetto domino che, muovendo dalla “scoperta” quasi occasionale  del valore della CEDU nell’oridnamento nazionale, ormai acclarato –grazie all’iniziativa di singoli proprietari-  dalle provvidenziali sentenze gemelle della Corte costituzionale (348 e 349 del 2007), è andato ben oltre il tema specifico dell’occupazione acquisitiva- inciso progressivamente, anche a livello normativo, prima dall’art.43 t.u.e e, più recentemente, dall’art.42 bis dello stesso testo unico espropriazione che ha risposto alla declaratoria di incostituzionalità della prima disposizione pronunziata da Corte cost. n.293/2010- arrivando a coinvolgere pervasivamente sempre nuovi settori del diritto nazionale sostanziale e processuale- civile, penale ed amministrativo- attraverso un movimento in perenne e continuo divenire che vede la  Corte costituzion
ale spesso rincorrere il giudice europeo dalle cui meglio la Consulta riesce comunque spesso a svincolarsi grazia ad un’interpretazione lata del margine di apprezzamento che pure Strasburgo riconosce alle autorità nazionali nel processo di attuazione dei diritti di matrice convenzionale.
Il che, in definitiva, è utile rammentare anche solo per attenuare un sentimento più o meno espresso,  che pure continua perennemente a serpeggiare, di sfavore verso le Corti sovranazionali e per ribadire, ancora una volta, che la strada maestra da seguire è quella del dialogo alla pari, franco ed aperto fra Carte e Corti secondo i percorsi che la dottrina più avveduta[5] non ha mancato di tracciare quando afferma che la composizione fra diversi livelli di tutela dei diritti fondamentali passa attraverso la <<… mutua, fattiva cooperazione, del “dialogo” appunto, una volta però rettamente inteso e linearmente e fruttuosamente praticato>>[6].


[1] Per chi avesse tempo e voglia di approfondire l’argomento ci si permette di rinviare a Conti, Tiro a segno di Strasburgo sull’occupazione acquisitiva:stavolta tocca alle Sezioni Unite Cass.S.U.6853/2003, in www.esproprionline.it

[2] la sentenza è coeva ad altre due decisioni rese nella stessa data dalla medesima Corte europea nei procedimenti recanti i nn. n. 63238/00 (La Rosa e Alba c.Italia) e 63633/00 (Colazzo c.Italia) sempre con riguardo alla procedura di liquidazione dell’equa soddisfazione ai sensi dell’art.41 CEDU.

[3] decisione sulla quale ci siamo lungamente intrattenuti in Conti, Diritto di proprietà e CEDU. Itinerari giurisprudenziali europei.Viaggio tra Carte e Corti alla ricerca di un nuovo statuto proprietario,Roma, 2012,117 ss., anche in versione ebook per i tipi di exeo editore-www.exeo.it-, 2012.

[4] sul tema del danno non patrimoniale da lesione del diritto di proprietà v. sempre Conti, Diritto di proprietà e CEDU, cit., 217 ss.

[5] Ruggeri, Tutela dei diritti fondamentali, squilibri nei rapporti tra giudici comuni, Corte costituzionale e Corti europee, ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, in http://www.giurcost.org/studi/Ruggeri12.pdf, 12 ss.;id., Il rinvio pregiudiziale alla Corte dell’Unione: risorsa o problema? (Nota minima su una questione controversa), in www.diritticomparati.it;

[6] Ruggeri, Prospettiva prescrittiva e prospettiva descrittiva nello studio dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU (oscillazioni e aporie di una costruzione giurisprudenziale e modi del suo possibile rifacimento, al servizio dei diritti fondamentali), in corso di pubblicazione, pp. 2 e 3.