Il writ of certiorari della Corte Suprema sulla costituzionalità del divieto di matrimoni same-sex a livello statale

Lo scorso ottobre, all’inizio di questo term, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva rifiutato di pronunciarsi sulla questione se le coppie omosessuali avessero o meno un diritto costituzionale al matrimonio (valido sia a livello federale che a livello statale), negando l’emissione di un writ of certiorari per riesaminare le sentenze di tre corti di appello che avevano dichiarato l’incostituzionalità del divieto del matrimonio tra persone omosessuali in alcuni stati. Com’è noto, la decisione se emettere o meno il writ of certiorari è discrezionale e non motivata. Molti commentatori hanno interpretato la scelta della corte come l’esito di una valutazione prudenziale (nel senso delle passive virtues di Bickel), alla luce di un percorso di ampliamento graduale ma progressivo delle tutele avviato con le sentenze del 2013. Allora, infatti, la corte aveva bensì affermato, in Windsor v. United States, l’illegittimità, per violazione della equal protection clause, della normativa federale che limitava la definizione di matrimonio alle coppie eterosessuali, ma aveva anche dichiarato inammissibile, in Hollingsworth v. Perry, la questione sull’incostituzionalità del divieto di matrimonio tra persone omosessuali in California, dove era stato introdotto con un emendamento costituzionale. Nel 2013, solo 9 stati e il District of Columbia riconoscevano il matrimonio same-sex.

Dopo Windsor, diverse corti federali e statali hanno emesso sentenze in favore delle coppie omosessuali, portando a 19 il numero degli stati che consentivano il loro matrimonio. Con la scelta di ottobre di “non decidere”, la corte si è sottratta alla critica di voler imporre, in quanto supremo giudice federale, una disciplina uniforme in tutti gli stati, in un momento in cui nella maggioranza di essi era ancora vigente il divieto di matrimonio same-sex. Al contempo, la corte ha evitato l’eventualità che si creasse un pesante precedente contrario a tale matrimonio. Questo atteggiamento è stato condiviso anche dalla giudice Ginsburg, che è non solo la principale protagonista della Corte in tema di antidiscrimination law, ma anche l’attivista in tema di diritti delle donne che (non del tutto a ragione) aveva rimproverato a Roe v. Wade di aver riconosciuto un po’ troppo frettolosamente, rispetto ad una società non pienamente matura, il diritto delle donne di interrompere la gravidanza.

L’effetto indiretto della decisione di ottobre, tuttavia, non è stato meno importante di quello di una sentenza nel merito. Il rifiuto del writ da parte della Corte Suprema si è infatti tradotto in una sostanziale conferma delle pronunce delle corti di appello e ciò ha fatto sì che, data la regola del precedente, queste costituissero la fonte del diritto applicabile non solo negli stati la cui legislazione era stata oggetto dei rispettivi procedimenti, ma anche in tutti gli altri stati sui quali quelle corti di appello avevano giurisdizione. Il risultato pratico è stato quello di elevare da 19 a 24, e poi ancora a 30 il numero degli stati in cui poteva essere celebrato il matrimonio same-sex. Il trend è proseguito con una decisione della corte d’appello del Ninth Circuit, redatta dal giudice Posner, che ha consentito di portare la soglia degli stati a 35. L’unica decisione in controtendenza è stata emessa dalla corte d’appello del Sixth Circuit, che a novembre scorso ha confermato il divieto di matrimonio same-sex in Kentucky, Michigan, Ohio e Tennessee.

Alla luce di questi sviluppi si comprende come pochi giorni fa la Corte Suprema, investita di una richiesta di emettere il writ of certorari per rivedere la decisione del Sixth Circuit e posta dinanzi ad una divisione negli indirizzi giurisprudenziali delle corti di appello, l’abbia finalmente concesso (Obergefell v. Hodges, Tanco v. Haslam, De Boer v. Snyder, Bourke v. Beshar). Il certiorari ha ora ad oggetto le seguenti questioni: se il XIV emendamento richieda ad uno stato di rilasciare un certificato di matrimonio a persone omosessuali, e se il XIV emendamento imponga ad uno stato di riconoscere un matrimonio siffatto, qualora questo sia stato celebrato fuori dai confini dello stato.

La sentenza della Corte Suprema è attesa per la fine di questo term. L’orientamento dei giudici negli ultimi anni lascia pensare che essi continueranno ad essere divisi, che Kennedy giocherà ancora un ruolo importante e che la maggioranza valorizzerà il filone giurisprudenziale Romer-Lawrence-Windsor, con il riferimento (fino ad oggi non sufficientemente approfondito da parte di Kennedy) al binomio liberty-dignity e il contestuale ancoraggio alla equal protection clause. È molto probabile, inoltre, che la stessa maggioranza attribuirà un peso decisivo al rapido mutamento di sentire della società americana e all’incorporazione di tale mutamento nel diritto della gran parte degli stati. In questo modo, la Corte potrà conciliare il suo ruolo di interprete più qualificato della costituzione con la consapevolezza del delicato equilibrio tra la sua funzione contromaggioritaria e la legittimazione che le deriva da un consenso sociale più vasto e articolato, in una materia in cui gli aspetti sostanziali e quelli istituzionali sono difficilmente scindibili. Ma rispetto alla decisione di ottobre, una sentenza nel merito della Corte (probabilmente affiancata da una o più opinioni dissenzienti), avrà l’innegabile vantaggio di offrire alla sfera pubblica un reasoning esplicito, capace di alimentare il già ricco constitutional discourse che si sta dispiegando all’interno della comunità accademica e della società pluralistica su questo argomento.

Sarà peraltro interessante verificare se, una volta pronunciata la sentenza, ci saranno da parte dei movimenti conservatori e del partito repubblicano reazioni e backlashes simili a quelli che hanno seguito Roe v. Wade e le altre sentenze in materia di aborto, o se invece tali soggetti preferiranno considerare la questione “chiusa”, almeno provvisoriamente, dalla Corte, per evitare di dover mediare spinte contrapposte provenienti dalla propria base elettorale. La questione dei matrimoni gay, infatti, sembra essere attualmente negli Stati Uniti meno divisiva rispetto a quella dell’aborto. Si tratta di implicazioni non del tutto ininfluenti per la sfera istituzionale, dal momento che un tema siffatto potrebbe incidere sulla selezione del prossimo candidato repubblicano alla presidenza e sulla eventuale nomina di giudici costituzionali.

Email Subscription

Privacy Preference Center