La “qualifica” di rifugiato e le politiche anti-terrorismo. Nuovi sviluppi per il diritto d’asilo UE con il caso Lounani.

La crescente preoccupazione dettata dalle minacce terroristiche e i cruenti episodi avvenuti in diversi territori degli Stati Membri, pongono sotto i riflettori la possibile (e non sempre certa) relazione che intercorre tra i flussi migratori e l’eventuale presenza di soggetti appartenenti a gruppi di natura eversiva tra coloro che richiedono una forma di protezione internazionale. Proprio per tali questioni, il quadro normativo europeo si interseca tra quanto stabilito dalla legislazione in materia di anti-terrorismo (a partire dalla Decisione Quadro 2002/475/GAI) e quanto previsto dal più esteso corpus del cosiddetto diritto d’asilo Ue. Il vero punto d’incontro risiede nella Direttiva 2004/83/CE, all’art. 12(2)(c), quando si determina che un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato se «si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite». Il suddetto enunciato, che rientra nell’ambito di attuazione dell’art. 1D della Convenzione di Ginevra, si applica alle persone che istigano o concorrono alla commissione dei reati o degli atti in questione. Perciò, lo status di rifugiato e la qualifica di “terrorista” sono legalmente incompatibili tra loro. Tuttavia, è necessario sempre verificare quando un determinato soggetto può considerarsi tale, alla luce della cd. Direttiva Qualifiche.

Questo è il tema di fondo affrontato dalla CGUE nella causa C-573/14, incentrata sulle vicende del Sig. Mostafa Lounani: cittadino di nazionalità marocchina, è giunto in territorio europeo nel 1991 e ha presentato un’istanza per ricevere la protezione internazionale in Germania, dove ha ricevuto un primo diniego. Si è, quindi, trasferito in Belgio nel 1997, dove ha soggiornato illegalmente fino al 2010, quando è stato condannato dal Tribunal correctionnel de Bruxelles per l’appartenenza al Gruppo Islamico dei Combattenti Marocchini (GICM), un’organizzazione annoverata tra quelle con finalità terroristiche dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Sebbene abbia ricoperto numerosi ruoli all’interno di questo movimento, il soggetto non è mai stato condannato per atti terroristici diretti. Persino le persone che il Sig. Lounani avrebbe aiutato a raggiungere i territori iracheni grazie al GICM, non sono mai state chiaramente coinvolte in precisi atti di natura eversiva. Temendo la persecuzione nel proprio Paese in seguito alla condanna ricevuta, Lounani ha comunque presentato una domanda di asilo presso le autorità belghe. Questa seconda istanza è stata, in primo luogo, rigettata sulla base dell’art. 12(2)(c) della Direttiva Qualifiche ma successivamente ritenuta ammissibile, con ben due pronunce, da parte della Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri. Quest’ultima ha, infatti, ritenuto che le azioni imputate al sig. Lounani non fossero veri e propri reati terroristici, poiché il Tribunale penale di Bruxelles aveva emesso una condanna solo per la sua appartenenza a un determinato gruppo, non riconoscendo alcuna relazione del soggetto con uno specifico atto sovversivo. D’altronde, prosegue la Commissione, i comportamenti contestati non raggiungevano in nessun caso il grado di gravità richiesto per poter essere qualificati come “contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite” (ex Direttiva 2004/83/CE) e, quindi, non erano da considerarsi come ostativi al riconoscimento dello status di rifugiato. In ultima istanza, il Conseil d’État ha deciso interrogare, con rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia circa la possibilità di negare il titolo di rifugiato per «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite» ad un soggetto che abbia subito una condanna penale per mera partecipazione alle attività di un gruppo ritenuto terroristico, senza però avere alcuna responsabilità individuale nel compimento di tali atti.

L’Alto Tribunale europeo, nella sua decisione, rileva l’effettiva estraneità del sig. Lounani ad azioni con finalità terroristiche, sia per ciò che riguarda la commissione diretta, così come per l’istigazione. Tuttavia, i giudici di Lussemburgo decidono di affrontare con maggiore enfasi le questioni già evidenziate in precedenza dall’Avvocato Generale, stabilendo che la clausola di cui all’art. 12(2)(c) della Direttiva Qualifiche non può limitarsi solo a coloro che si rendono autori in prima persona di atti terroristici ma deve necessariamente estendersi ad «attività di reclutamento, organizzazione, trasporto o equipaggiamento in favore di individui che si recano in uno Stato diverso dal loro Stato di residenza o di cui hanno la cittadinanza allo scopo, segnatamente, di commettere, organizzare o preparare atti di terrorismo». Pertanto, la cd. clausola di esclusione contenuta nella normativa derivata è pienamente applicabile al caso in questione, suffragata anche dalla presenza di documenti internazionali che segnalano «grave preoccupazione per la minaccia terribile e crescente costituita dai combattenti terroristi stranieri» [Risoluzione ONU 2178 (2014)]. Sembrerebbe, quindi, che la condizione per cui tali atti debbano raggiungere un certo livello di serietà non possa costituire la base per la concessione al sig. Lounani dello status di rifugiato. La Corte, perciò, si rifà a quanto già stabilito con le sentenze riunite C-57/09 e C-101/09 emesse nel caso B&D, ribadendo che la constatazione, della sussistenza di fondati motivi per ritenere che una persona abbia commesso un reato è subordinata ad una valutazione “caso per caso”. Ciò nonostante, il fatto che la condanna del ricorrente sia divenuta definitiva assume particolare importanza nell’ambito della suddetta valutazione individuale, che l’autorità competente è tenuta ad effettuare.

La decisione in esame si inserisce, quindi, nel solco originario tracciato dalle decisioni nei casi HT (C-373/13) e B&D (C-57/09 e C-101/09), trovando in quest’ultima la base argomentativa più ragionevole per supportare l’estensione della cd. clausola di esclusione dallo status di rifugiato. Ciò che, con ogni probabilità, appare sacrificato è l’intento di mantenere separato l’evolversi di due ambiti legislativi: da un lato, la disciplina (comune?) di contrasto al terrorismo, che risente non solo di necessità evidenti ma anche di istanze preventive; dall’altro lato, l’implementazione del tanto agognato sistema europeo d’asilo che, per certi versi, passa proprio da una più nitida qualificazione del soggetto. Il vero elemento di novità di questa sentenza risiede proprio nella manifesta intenzione da parte dell’Alto Tribunale europeo di allineare il diritto dell’UE in materia di asilo alla vis più espansiva del cd. diritto globale dell’anti-terrorismo, per colpire non solo gli atti di violenza diretta, bensì adottare un approccio tenace e preventivo verso la soppressione e l’interruzione di azioni “periferiche”, finalizzate all’organizzazione e al finanziamento di gruppi eversivi. Questo atteggiamento, nel caso di specie, ha influenzato l’applicazione della clausola di esclusione. Certamente, l’inevitabile utilizzo delle risoluzioni ONU per collegare questa peculiare branca del diritto penale UE alla concessione di un titolo di protezione internazionale, non allontana la necessaria cautela che il giudice interno deve utilizzare nell’affrontare tali questioni, in un’epoca di crescente chiusura delle comunità nazionali e di un conseguente aumento delle tensioni pubbliche sui temi dell’immigrazione. In definitiva, si tratta di una visione che rischia di ridisegnare la dialettica tra due esigenze, la sicurezza e la protezione, che a tratti sembrano «l’un contro l’altro armate».