Anche la Corte Suprema del Regno Unito si pronuncia a favore della libertà di coscienza dei pasticceri obiettori

Il 10 ottobre scorso la Supreme Court del Regno Unito ha emesso la propria decisione nella controversia Lee v. Ashers Baking Company Ltd. [2018 UKSC 49]; il collegio giudicante (Hale, Mance, Kerr, Hodge, Black), ribaltando la sentenza della Court of Appeal di Belfast e quella del giudice di primo grado, si è pronunciato all’unanimità.
Questi, brevemente, i fatti di causa: nel 2014, Gareth Lee, attivista della comunità LGBT di Belfast, si rivolgeva alla pasticceria Ashers Baking Company per il confezionamento di una torta destinata ad un evento antiomofobia organizzato dall’associazione in cui Lee prestava la sua opera; trattandosi di un evento volto a porre l’attenzione sul matrimonio same-sex, o meglio, sulla necessità della sua introduzione – l’Irlanda del Nord è attualmente l’unica enclave tra Regno Unito e Irlanda in cui tale matrimonio non è consentito – la torta avrebbe dovuto recare la scritta “Support Gay Marriage”.
In ragione delle profonde convinzioni religiose dei titolari della Ashers Baking Company, contrarie alle unioni omosessuali, Lee si vedeva negare il soddisfacimento della propria richiesta; di conseguenza, affiancato e supportato dalla Equality Commission for Northern Ireland, agiva in giudizio, contestando il comportamento della Ashers Baking, ritenuto discriminatorio sulla base di tre parametri cioè, al contempo, l’orientamento sessuale, le opinioni politiche e le convinzioni religiose. Come già accennato, i giudici sia di primo che di secondo grado avevano determinato la soccombenza della Ashers Baking, condannandola anche al risarcimento del danno nei confronti di Gareth Lee.
È bene richiamare, a questo punto, la cornice normativa all’interno della quale si sono mossi, attraverso i vari gradi di giudizio, i giudici inglesi: da un lato, Gareth Lee assumeva la violazione, da parte dei titolari della pasticceria, della normativa antidiscriminatoria vigente per l’Irlanda del Nord, vale a dire le Sexual Orientation Regulations (SORs), emanate sulla base dell’Equality Act del Parlamento di Westminster, che vietano le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale nell’accesso a beni e servizi, e il Fair Employment and Treatment Order (FETO), order in Council che, sempre in tema di accesso a beni e servizi, proibisce le discriminazioni basate sul credo religioso o sulle opinioni politiche. La difesa della Ashers Baking si appellava invece alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (incorporata nell’ordinamento britannico dallo Human Rights Act del 1998) e riposava, in particolare, sugli articoli 9 e 10, che tutelano rispettivamente, anche nel loro aspetto negativo, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e la libertà di espressione.
Tuttavia la Supreme Court non ha avuto bisogno di valutare concretamente la compatibilità delle normative antidiscriminatorie rispetto alle norme convenzionali appena richiamate, effettuando una sorta di bilanciamento; la Corte si è infatti sostanzialmente limitata ad affermare l’insussistenza di qualsivoglia atteggiamento discriminatorio da parte della Ashers Baking, e ciò a prescindere dal parametro considerato.
Il fulcro del ragionamento della Corte si ravvisa principalmente nello spostamento dell’attenzione dai soggetti del rapporto all’oggetto, vale a dire, più che la torta in quanto tale, il messaggio di sostegno nei confronti dell’istituzione delle nozze gay che la torta stessa avrebbe dovuto recare, secondo le intenzioni del committente (“The objection was to the message, not the messenger”; e ancora: “The less favourable treatment was afforded to the message not to the man”). “Firmare” la propria creazione di pasticceria destinata a quello specifico evento avrebbe significato anche sottoscrivere quel determinato messaggio e, a fronte di ciò, la Supreme Court britannica afferma in maniera categorica che i titolari della Ashers Baking avessero pieno diritto di rifiutarsi di fornire il bene richiesto, non potendo la loro libertà di espressione, di religione e di coscienza essere coartate al punto da costringerli a sottoscrivere uno slogan profondamente e radicalmente confliggente con le loro più intime convinzioni religiose.
La questione, a ben vedere, non è nuova e l’alternativa tra soggetti e messaggio riproposta dal caso nordirlandese si era già palesata nel caso Masterpiece Cakeshop [584 U.S. _ 2018] (su cui si veda  C. De Santis, https://www.diritticomparati.it/la-mia-religione-non-lo-permette-la-corte-suprema-usa-fonda-il-diritto-allobiezione-di-coscienza-nei-confronti-del-matrimonio-sex/), deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel giugno scorso; è la stessa Supreme Court inglese a richiamare, come una sorta di argomento ad adiuvandum, la pronuncia americana.
Correttamente, peraltro, la Corte inglese sembra accostare la propria decisione, più che al caso effettivamente deciso dai giudici di Washington, alle decisioni della Colorado Civil Rights Commission, richiamate in Masterpiece Cakeshop, che si erano espresse a favore della libertà di coscienza di tre pasticceri i quali si erano rifiutati di confezionare torte recanti messaggi denigratori e di odio nei confronti della comunità omosessuale e del matrimonio same-sex.
A parere di chi scrive, nel caso del Masterpiece Cakeshop, dal momento che la torta richiesta era effettivamente un dolce nuziale certamente destinato ad un matrimonio gay, ma totalmente privo di qualsiasi iscrizione in grado di assumere una valenza religiosa o politica, appariva alquanto problematico sostenere che la torta stessa potesse veicolare un qualunque messaggio o slogan politico cui il pasticciere avrebbe rischiato, contro le sue intenzioni e la sua fede religiosa, di essere associato. Diversamente, negli altri casi verificatisi in Colorado e anche nel caso della pasticceria di Belfast, può effettivamente intravedersi un profilo di frizione e di attrito tra il messaggio, sia esso di odio o di supporto, recato dal dolce tramite le iscrizioni e la decorazione, e le convinzioni politiche o religiose dell’artefice della creazione dolciaria, che, non condividendo le idee del committente, potrebbe non aver altro modo per dissociarsi da esse che quello di rifiutarsi di fornire il bene richiesto.
Tuttavia, sia la pronuncia americana che quella dei giudici britannici lasciano aperto un interrogativo piuttosto difficile da sciogliere: se cioè, nel verificare se sussista o meno una condotta discriminatoria, questo spostamento del terreno di riflessione dai soggetti all’oggetto, al messaggio sia davvero opportuno e non rischi invece di risultare fuorviante. Entrambe le sentenze pongono l’accento sul fatto che il bene richiesto, con quelle caratteristiche, sarebbe stato negato a qualsiasi cliente, a prescindere dal suo orientamento sessuale, mentre qualunque cliente omosessuale che avesse richiesto un bene diverso sarebbe stato servito in condizioni di totale parità rispetto ad un eterosessuale.
In maniera alquanto tortuosa, per non dire contraddittoria, la Supreme Court del Regno Unito giunge ad affermare che, in tema di discriminazioni, contano e devono essere tenute in considerazione esclusivamente le condizioni personali (sesso, colore della pelle, orientamento sessuale, etc.) e le convinzioni politiche o di fede del soggetto passivo della condotta discriminatoria, trascurando o sottovalutando il dato ineliminabile che, se di discriminazione si tratta, essa può sussistere esclusivamente in una dimensione relazionale, come scontro o antitesi di opposti modi di essere, di vivere, di pensare che evidentemente, da parte del soggetto attivo, sono visti come inconciliabili e radicalmente alternativi e, pertanto, impossibilitati a coesistere.
È abbastanza certo, comunque, che quello nordirlandese non sarà l’ultimo caso capace di attirare l’attenzione della dottrina costituzionalistica su questo tema; sarà interessante vedere, però, se Corti di altri ordinamenti inscriveranno le loro decisioni nel solco tracciato da Masterpiece Cakeshop e da Ashers Baking o se invece determineranno un’inversione di tendenza.