Ancora una decisione d’incostituzionalità accertata ma non dichiarata (nota minima a Corte cost. n. 279 del 2013, in tema di sovraffollamento carcerario)

Una limpida testimonianza di fecondo “dialogo” tra Corte EDU e Corte costituzionale appare essere la pronunzia cui si dirigono queste succinte notazioni. Nessuna divergenza sostanziale di punti di vista è dato registrare tra i due giudici, a riprova del fatto che Convenzione e Costituzione possono andare a braccetto e di pari passo offrire tutela ad alcuni tra i più pressanti bisogni elementari degli esseri umani (qui, soggetti particolarmente esposti, quali appunto sono i detenuti). Peccato che l’ammissione del torto subito, in un bene indisponibile qual è la dignità, non si accompagni al giusto, doveroso ristoro; e questo per la ragione – ci viene detto oggi dalla Consulta – che molti possono essere i modi coi quali ripristinare il rispetto della legalità costituzionale violata e, con esso, delle persone sottoposte a restrizione della libertà personale, un rispetto sistematicamente venuto meno per effetto di una situazione di sovraffollamento carcerario non oltre modo tollerabile. La Corte, nondimeno, non si limita a dichiarare l’inammissibilità della questione, così come – volendo – avrebbe potuto fare, ma si fa premura di elencare, sia pure in via meramente esemplificativa, quali rimedi potrebbero essere introdotti al fine di porre termine ad un fenomeno universalmente deprecato (o, quanto meno – dovrebbe forse, con maggiore cautela, dirsi – di arginarlo in una certa, non disprezzabile misura). Tra i quali rimedi va invero annoverato anche quello della sospensione della esecuzione della pena auspicato dalle autorità remittenti, visto però quale extrema ratio; e ciò, per la ragione che l’obiettivo di non imporre ai detenuti trattamenti disumani e degradanti va raggiunto congiuntamente all’altro di non pregiudicare la finalità rieducativa della pena. Solo che, stante la pluralità delle soluzioni praticabili, si rivelano per ciò solo non fattibili le classiche, di crisafulliana memoria, “rime obbligate”. Di qui l’impossibilità di dare il “seguito” auspicato alle istanze rappresentate negli atti di rimessione. Insomma, come si segnala nel titolo posto in testa a queste note, una illegittimità costituzionale che è, sì, accertata ma che non può esser dichiarata.


Al piano tecnico, la decisione non è – a me pare – censurabile, per quanto, qui come altrove, il conseguimento dell’obiettivo avuto di mira dal giudice costituzionale avrebbe potuto aversi anche a mezzo di altre e maggiormente incisive tecniche decisorie, alternative e però, allo stesso tempo, convergenti con quella prescelta, e segnatamente a mezzo di un’additiva di principio che, al pari della pronunzia d’inammissibilità (specie se accompagnata da un monito severo, quale quello sibillinamente enunciato nella chiusa della decisione qui annotata), si consegna essa pure al legislatore perché vi dia l’opportuno, necessario svolgimento (così come, ancora da ultimo, s’è fatto proprio con la decisione immediatamente precedente a quella ora in esame, con la quale è stato ribaltato un precedente orientamento di segno opposto). Certo, non eguali – come si sa – sono gli effetti rispettivamente discendenti da una sentenza caducatoria e da una che, di contro, è (e resta) di rigetto. Al fondo, per il giudice costituzionale si tratta di scegliere fino a che punto intenda spingere il piede sull’acceleratore della macchina preposta alla produzione delle leggi; ma, si tratta, appunto, di una mera “graduazione” di interventi tutti volti alla ricucitura di un tessuto legislativo ormai a brandelli, al fine della sua complessiva armonizzazione rispetto al quadro costituzionale (e… convenzionale).

Qui, però, c’è un fatto nuovo rispetto all’id quod plerumque accidit, al piano delle esperienze delle addizioni normative per mano della Consulta. Ed è che l’aggiunta, ancora prima che essere giuridicamente preclusa (per rispetto – come suole, sia pure con una certa approssimazione teorica, dirsi – della “discrezionalità” del legislatore), lo era (ed è) materialmente; e, a conti fatti, temo che possa rivelarsi tale per lo stesso… legislatore. Intendo dire che, mentre di solito basta una nuova disciplina positiva (nel senso patrocinato dalla Corte) per porre finalmente riparo ad una riscontrata violazione della Carta (così, infatti, nel caso deciso con la sent. n. 278, sopra richiamata), qui l’intervento del legislatore, comunque necessario, non sarebbe ad ogni buon conto sufficiente, dal momento che l’intervento stesso ha da appuntarsi anche (e, forse, soprattutto) sulle strutture, traducendosi in primo luogo nella costruzione di nuovi istituti carcerari fatti a misura d’uomo, idonei ad ospitare persone che – quali che siano le colpe di cui si sono macchiate – sono pur sempre titolari del primo e più importante dei diritti fondamentali, quello alla piena salvaguardia della propria dignità. Un intervento, quello di quest’ultima specie, che vedo francamente come assai problematico in tempi di spending review, quanto meno entro il termine (un anno) oggettivamente ristretto fissato dalla Corte EDU in Torreggiani. Eppure, proprio perché è in gioco la dignità di esseri umani, che già di per sé soffrono per la privazione della libertà, è fuori discussione che a siffatti interventi debba urgentemente farsi luogo con precedenza rispetto ad altri obiettivi pur meritevoli di ogni considerazione.

Al di là dei profili tecnici, ad ogni buon conto, i tratti maggiormente salienti della decisione in esame sono, a mia opinione, quattro.

Il primo è dato dagli estesi, continui, riferimenti fatti alla pronunzia sopra richiamata della Corte EDU. Credo che in nessun’altra dell’ormai nutrito drappello di pronunzie relative alla CEDU emesse dalla Consulta si attinga, così come in questa, a piene mani all’indirizzo della giurisprudenza europea, fatto oggetto di analitica, puntuale descrizione e sostanziale ricezione da parte della giurisprudenza nazionale che da esso trae alimento e giustificazione. Praticamente – potrebbe dirsi – una sorta di “novazione della fonte”. A conti fatti, l’intera parte motiva è assorbita dai riferimenti suddetti, con ciò il giudice costituzionale dando mostra di trovarsi perfettamente in asse rispetto all’altro giudice, esso pure “costituzionale” (ancorché solo in senso materiale), avente sede a Strasburgo. Nessuna “copertura” è qui offerta – come invece non di rado si ha – al legislatore e nessun “alibi” può, perciò, far uscire quest’ultimo assolto dal severo giudizio a suo carico emesso dal giudice costituzionale (e, prima ancora, con uguale durezza, da quello convenzionale). Ne dà inequivoca, tangibile testimonianza proprio la già rammentata, minacciosa chiusura della decisione.

Quanto a quest’ultima – ed è qui il secondo tratto –, essa sta tutta qui sotto i nostri occhi a confermare ancora una volta, per tabulas, per un verso, quella fungibilità delle tecniche decisorie (e, segnatamente, delle dichiarazioni d’inammissibilità con monito e delle additive di principio), di cui un momento fa si diceva, e, per un altro verso, il “tasso” di politicità in rilevante misura riscontrabile nella pronunzia qui annotata, particolarmente sensibile ed attenta allo stato delle cose qual è, invero di arduo superamento nella presente congiuntura politico-economica e, nondimeno, appunto bisognoso di essere, in un modo o nell’altro, urgentemente rimosso.

Il terzo tratto, che poi – se ci si pensa – è null’altro che il naturale complemento del primo, è dato dalla sicura dimostrazione qui data della possibilità di caricare di sempre nuovi significati gli enunciati costituzionali (persino laddove espressivi di principi fondamentali), per effetto delle suggestioni semantiche provenienti ab extra (e, segnatamente, appunto dalla Convenzione e dal suo giudice “naturale”). E, invero, le formidabili potenzialità racchiuse nei disposti di cui agli artt. 2 e 3, specie nel loro fare “sistema” con l’art. 27, sono qui sollecitate a dare il meglio di sé rifacendosi alle indicazioni date dalla CEDU, per il modo con cui vive grazie alla giurisprudenza della Corte che ne è istituzionalmente garante.

Quale migliore riprova di questa potrebbe aversi della capacità dell’un indirizzo giurisprudenziale di poter fecondare gli altri, assicurandone l’ottimale, complessiva rigenerazione?

È proprio per ciò che, per il tramite del “diritto vivente”, la Costituzione si pone – a me pare – quale un’autentica “intercostituzione”, che in sé accoglie i frutti generosamente offerti da altre Carte, fatte oggetto di originale rielaborazione, dalle quali dunque la legge fondamentale della Repubblica si tiene nei suoi non di rado sofferti svolgimenti ed alle quali pure però dà il proprio solido appoggio, in un caso e nell’altro senza mai abdicare alla propria identità culturale e positiva.

Il quarto ed ultimo tratto è dato dalla conferma che, ancora una volta, oggi ci viene data di come le norme costituzionali sulla normazione facciano (e debbano fare), nel vivo dell’esperienza, tutt’uno con le norme di valore della Carta, disponendosi docili al loro servizio. L’art. 117, I c., si dimostra – qui come altrove – un mero strumento in vista della salvaguardia, la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto, dei valori di libertà ed eguaglianza: la coppia assiologica fondamentale dell’ordinamento nella quale si specchia ed a mezzo della quale si realizza e tutela la dignità della persona umana, l’autentico valore – si è tentato in altri luoghi di mostrare – “supercostituzionale” dell’ordinamento, la cui essenza si coglie e compiutamente apprezza anche al piano delle relazioni interordinamentali.

Peccato – si diceva – che l’esito del giudizio non si spinga oltre la mera, pur vigorosa, dichiarazione del bisogno vitale di dare, in un modo o nell’altro, comunque pronto ed adeguato appagamento a siffatto valore, senza tuttavia riuscire a darlo in concreto. Ma di questo, in tutta franchezza, non credo che stavolta se ne possa proprio fare una colpa al giudice delle leggi.