«Andreotti, ilumínanos». La Spagna verso le elezioni del 10-N

Per la seconda volta nella storia della Democracia spagnola, una legislatura interrompe il proprio cammino senza essere riuscita a dare vita ad un esecutivo. La mancata investitura di un Presidente del Governo nei due mesi che hanno fatto seguito al rigetto della candidatura di Pedro Sánchez ha determinato infatti l’attivazione della “ghigliottina” contenuta nell’art. 99, c. 5 della Costituzione e la convocazione di nuove elezioni per il prossimo 10 novembre.
Il fallimento della XIII legislatura deve essere peraltro analizzato all’interno di un quadro di trasformazioni più ampio, segnato dalla transizione dal tradizionale bipartitismo ad un incerto multipolarismo la cui unica cifra di lettura per il momento sembrerebbe essere il caos.
Si tenga conto che dalla seconda alla decima legislatura, il funzionamento del parlamentarismo spagnolo aveva segnalato l’alternarsi di due sole possibili formule di governo: esecutivi espressione del partito di maggioranza assoluta al Congresso (Felipe Gonzáles tra il 1982 ed il 1993; José María Aznar tra il 2000 ed il 2004; Mariano Rajoy tra il 2011 ed il 2015) e Governi, anche in questo caso “monocolore”, i quali collaboravano in sede parlamentare con forze politiche minori (Felipe Gonzáles tra 1993 ed il 2006; José María Aznar tra il 1996 ed il 2000; Luis Rodriguez Zapatero tra il 2004 ed il 2011). Questo rassicurante assetto politico-istituzionale – che per anni ha indotto la dottrina italiana ad individuare nella Spagna un «modello di successo» – è stato tuttavia messo duramente alla prova dalle ultime tre tornate elettorali. Queste ultime hanno registrato un sensibile arretramento dei due partiti tradizionalmente egemoni (popolari e socialisti) e l’emergere di due nuove forze politiche (Ciudadanos, Podemos), alle quali dal 2019 si è aggiunta anche Vox.
Dopo le elezioni del 20 dicembre 2015 ed il doppio rigetto dell’investitura di un Governo Sánchez sostenuto dal PSOE e da Ciudadanos è stato per la prima volta attivato lo scioglimento automatico previsto dall’art. 99, c. 5 della Costituzione. Successivamente alle elezioni del 26 giugno 2016, un secondo scioglimento automatico è stato evitato in extremis grazie all’astensione dei socialisti all’investitura del popolare Mariano Rajoy. Il fragile governo di minoranza di Rajoy – grazie anche ad un inedito intervento della Corona su una questione politicamente divisiva – ha avuto tuttavia la forza di impedire la “desconexión catalana”. Dopo il referendum del 1° ottobre 2017 dichiarato illegale dal Tribunale costituzionale, il Senato ha infatti autorizzato il Governo Rajoy a procedere al “commissariamento” della Generalitat ai sensi dell’art. 155 della Costituzione.
Peraltro, anche sfruttando il clamore mediatico di alcuni scandali giudiziari, il 1° giugno 2018, il Congresso dei deputati ha approvato la mozione di censura costruttiva presentata dal PSOE, sancendo l’avvicendamento fra Rajoy e Sánchez. Sulla carta, l’introduzione della moción de censura constructiva nella Costituzione del 1978 avrebbe dovuto consentire all’ordinamento spagnolo di raggiungere quello che nella classificazione di Lauvaux era considerato come il terzo, e dunque più avanzato, grado della razionalizzazione: l’adozione di istituti che subordinano la sostituzione del Governo in carica alla preventiva costruzione di una maggioranza positiva. Peraltro, in questo unico caso di approvazione in Spagna di una mozione di censura costruttiva è avvenuto esattamente il contrario: le forze politiche che hanno votato contro Rajoy non sono entrate a far parte di alcuna organica maggioranza parlamentare. In particolare i partiti indipendentisti catalani, ago della bilancia al Congresso, si sono limitati ad un atto di ritorsione politica (se non addirittura personale) contro il Presidente del Governo che aveva attivato l’art. 155 della Costituzione. Alla caduta di Rajoy non ha però fatto seguito alcuna “promozione” di Sánchez al rango di alleato. La decisione dei partiti catalani di non votare la legge di bilancio presentata dal nuovo Governo ha così innescato la crisi che ha portato il Presidente del Governo a ricorrere allo strumento dello scioglimento anticipato. Le successive elezioni del 28 aprile 2019 hanno segnato un significativo avanzamento del PSOE, il quale tuttavia non è riuscito a dare vita ad un esecutivo per l’indisponibilità di Podemos ad assicurare l’appoggio ad un governo privo di una propria delegazione di ministri.
Il percorso di avvicinamento alle elezioni del prossimo 10 novembre è stato peraltro duramente turbato dai gravi disordini provocati a Barcellona dai sostenitori dell’indipendentismo successivamente alla sentenza con la quale il Tribunale supremo ha condannato gli organizzatori del referendum catalano. Tali eventi hanno condotto il Governo “en funciones” di Sánchez ad interrompere qualsiasi dialogo istituzionale con la presidenza della Generalitat, accusata di non aver condannato apertamente le violenze. Per contro, da parte della Comunità catalana non sono mancate gravi accuse verso le istituzioni giudiziarie e di garanzia, incluso il Tribunale costituzionale. Sul punto occorre peraltro mettere in guardia da letture affrettate della giurisprudenza costituzionale spagnola relativa al tema catalano. Infatti, la Corte spagnola non ha mai escluso la possibilità di un distacco della Catalogna dalla Spagna, richiedendo tuttavia il rispetto delle procedure di revisione costituzionale per la convocazione di un referendum sull’indipendenza. A ben riflettere, un tale approdo interpretativo appare decisamente più “progressista” rispetto a quello che emerge dalla giurisprudenza costituzionale italiana, la quale tende ad inquadrare l’indivisibilità della Repubblica fra i principi supremi dell’ordinamento non soggetti a revisione costituzionale. Anche per il Tribunale costituzionale spagnolo vi è tuttavia almeno un principio il quale non appare negoziabile, se non altro perché su di esso è stata fondata l’intera Transizione dal franchismo alla Democrazia. Un principio che si riassume nelle parole del maestro politico di Adolfo Suárez, Torcuato Fernández-Miranda: «de la ley a la ley a través de la ley».
Le elezioni del prossimo 10 novembre ci diranno in quale direzione andrà la Spagna, sia in relazione ai rapporti con la Catalogna, sia con riferimento all’emergere di nuove formule di governo a livello nazionale. Certamente, le vicende che fin qui hanno accompagnato il superamento del bipartitismo spagnolo hanno evidenziato l’incapacità dei partiti, vecchi e nuovi, di adeguare atteggiamenti e modalità operative rispetto ad un sistema politico-istituzionale che richiedeva maggiore flessibilità e capacità di mediazione. Un cambio di cultura che non sarà tuttavia possibile fino a quando i partiti spagnoli non riconosceranno i propri avversari politici come legittimi interlocutori istituzionali.
In un brillante editoriale pubblicato all’indomani delle elezioni del 20 dicembre 2015, El Pais titolava «Andreotti, ilumínanos. La rigidez y el dogmatismo de los partidos demuestra que tenemos un parlamento italiano en el número de partidos, pero no en la flexibilidad negociadora». Le inquietudini della Spagna dell’era del multipolarismo politico sembrano essere tutte in questo titolo quasi rassegnato.