Intertemporalità dei diritti e dintorni: le scelte argomentative del Bundesverfassungsgericht nella sentenza sul clima e le interazioni con i processi democratici

The article analyses key issues of the German climate constitutional litigation, drawing from the renown Klima-judgment issued in March 2021 by the Bundesverfassungsgericht. In the first part, it reads the judgment against a broader transnational trend of climate litigation. In the second part, it examines its reasoning, with special attention to doctrinal innovations related to the intertemporal dimension of fundamental rights. In the third part, it addresses questions of democratic legitimacy such as the relation between the constitutional tribunal and the legislature, as well as deliberative democracy and forms of protests and civil disobedience.


Corte costituzionale, atti di nascita di bambini nati nell’ambito di una coppia lesbica e accesso alla p.m.a.

Con la sentenza n. 230/2020, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto alcune norme della legge sulle unioni civili, n. 76/2016, e dei regolamenti in materia di ordinamento dello stato civile e di filiazione, che impediscono l’indicazione, nell’atto di nascita di un bambino, della compagna unita civilmente alla partoriente. Nel caso in questione (cfr. l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Venezia del 3 aprile 2019), una donna aveva prestato il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita (p.m.a.) di tipo eterologo, praticata sull’altra donna e avvenuta all’estero, senza contribuire alla gravidanza con propri gameti.
Com’è noto, la decisione si inserisce in una lunga serie giurisprudenziale, cresciuta negli ultimi anni e proveniente sia dalla Consulta (cfr. sentt. nn. 272/2017, 237/2019) sia dalla Corte di Cassazione (v. da ultimo Cass. SS.UU. n. 12193/2019), relativa alla trascrizione di atti di nascita formati all’estero, o in qualche caso in Italia, con riguardo a bambini nati da procreazione medicalmente assistita o da surrogazione di maternità. È opportuno richiamare alla mente che in tali costellazioni è corretto parlare di p.m.a. eterologa per le coppie omosessuali femminili e di surrogazione di maternità (o di gestazione/gravidanza per altri, a seconda della prospettiva adottata) per le coppie omosessuali maschili o eterosessuali, essendo la diversità delle tecniche una conseguenza inevitabile del modo in cui i bambini vengono al mondo: dal corpo di una donna, con la quale si instaura una relazione fisica ed emotiva già durante la gravidanza, e non da quello di un uomo. Il punto può sembrare banale ma non lo è, visto che spesso negli atti processuali si tende a offuscare tale differenza enfatizzando la sola genitorialità intenzionale, e visto che gli attivisti LGBT tendono spesso a privilegiare la promozione di liti strategiche da parte di coppie di donne, per poi estenderne gli esiti, qualora favorevoli, anche alle coppie di uomini, facendo leva sulla logica antidiscriminatoria (cfr. sul tema i lavori di Silvia Niccolai, Elisa Olivito e Francesca Angelini).
Ricordo che nella sentenza n. 272 la Corte aveva raggiunto un equilibrio tra principio della verità di parto e interessi del bambino, sostenendo, tra le altre cose, che la menzione del nome della madre surrogata (anziché del genitore solo intenzionale) corrispondesse anche all’interesse del minore che avrebbe desiderato conoscere la propria identità. In quella decisione la Consulta aveva altresì ribadito, come già nella sentenza n. 164/2012 sulla fecondazione eterologa, il divieto di surrogazione di maternità, collegandolo alla tutela della dignità della donna e alla tenuta delle relazioni umane. Questi principi erano stati ripresi dalla Cassazione a Sezioni Unite, che li aveva considerati parte dell’ordine pubblico internazionale. La conseguenza pratica di tali orientamenti giurisprudenziali è la trascrivibilità degli atti di nascita con riferimento al solo genitore biologico e la possibilità di richiedere, per il genitore intenzionale, l’adozione in casi particolari. Tale soluzione – contrariamente a quanto suggerisce l’ordinanza di rimessione della Cassazione, I. sez. civ., del 29 aprile 2020, volta a colpire il divieto di surrogazione di maternità – appare compatibile con il parere della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2019, in cui i giudici europei hanno avallato una soluzione francese simile alla nostra. Semmai il caso francese invita a ragionare intorno alla estensione, alle coppie omosessuali maschili e femminili, dell’adozione piena. Esso suggerisce inoltre ulteriori cautele nell’insistere sull’argomento antidiscriminatorio, essendo chi osserva indotto/a a confrontare la condizione dei bambini nati all’estero attraverso p.m.a o surrogazione non solo con quella dei figli biologici di una coppia eterosessuale, ma anche con quella dei bambini in stato di abbandono o figli di madri e padri privati della potestà genitoriale.
Per completare il quadro occorre richiamare la sent. n. 221/2019, che ha affermato la non irragionevolezza della disciplina sul mancato accesso delle coppie omosessuali alle tecniche di procreazione assistita: nel caso di specie si trattava ancora una volta di una coppia lesbica, accuratamente individuata alla luce delle patologie dell’apparato riproduttivo di cui ciascuna delle due donne era affetta. Nella pronuncia la Corte ha ribadito, dopo le celebri caducazioni degli anni scorsi, due linee di fondo della legge n. 40, precisando contestualmente alcune questioni lasciate aperte dalla sent. n. 164: da un lato, che la procreazione assistita è un percorso terapeutico attivabile per rimediare alla patologia di una “infertilità o sterilità assoluta” ma non per superare la “infertilità sociale o relazionale”, fisiologica per una coppia omosessuale (così come per una coppia eterosessuale in età avanzata e per una donna single). Dall’altro lato, ha sostenuto la non irragionevolezza dell’assunto secondo cui il contesto astrattamente preferibile per mettere al mondo e far crescere un bambino è quello di un nucleo familiare formato a partire da una coppia eterosessuale. In maniera non dissimile da quanto avvenuto per la sperimentazione degli embrioni soprannumerari (sent. n. 84/2016, dove però la questione avrebbe potuto essere risolta diversamente), i giudici hanno fatto ricorso all’argomento della discrezionalità del legislatore, sottolineando come il tema della delimitazione dei soggetti aventi accesso alle tecniche procreative appartenga a quelli eticamente controversi, rispetto ai quali è anzitutto la cultura sociale a dover trovare un equilibrio, una cultura della quale il legislatore – collocato all’interno di uno spazio pubblico allargato – è il primo interprete. Ciò non esclude, per i giudici, che tale equilibrio possa mutare nel tempo e che, in futuro, le soluzioni raggiunte da una democrazia rappresentativa che dialoga con la società civile possano essere diverse.
Qualche dubbio sulla sent. n. 221 è stato giustamente sollevato nella misura in cui la Consulta, pur evidenziando la diversità dei percorsi seguiti dalla coppia omosessuale femminile (p.m.a. eterologa) e da quella maschile (surrogazione di maternità), non ha toccato la questione dell’accesso alle tecniche procreative per la donna single. Rispetto a tale questione, che tuttavia non era inclusa nel petitum, qualche margine per un intervento additivo del giudice costituzionale vi sarebbe forse stato, proprio alla luce della speciale relazione che si crea tra la madre e il bambino durante e dopo la gravidanza. Al contempo, però, occorre considerare che la relazione materna si instaura solo dopo l’avvenuta fecondazione con l’apporto di un gamete maschile, e ciò richiede che ci si interroghi su un’altra relazione – quella tra la donna e l’uomo –, la quale non credo vada completamente rimossa dalla scena. Non posso qui dilungarmi sul punto, ma riterrei che la situazione della donna single che chiede di usufruire della p.m.a. non sia del tutto assimilabile a quella della donna che partorisce e cresce un figlio da sola, come tante volte è avvenuto e avviene in seguito alle innumerevoli vicende della vita, né a quella dell’aborto, dove la donna rifiuta una gravidanza non desiderata ma non chiede di mettere al mondo un figlio che ancora non c’è avvalendosi di intermediazioni tecniche, mediche e di altra natura. Alla luce di ciò, ritengo che l’accesso delle donne single alla p.m.a sia un’opzione ragionevole, ma credo che si giustifichi meglio come il risultato di un dibattito aperto e verace nello spazio pubblico, dove i temi della maternità e del posizionamento femminile possano essere inquadrati a tutto tondo, nelle loro implicazioni culturali, familiari, sociali e politiche, più che nell’ambito di un procedimento giudiziale volto a sancire un diritto nuovo, nonostante tale procedimento si carichi, proprio nel giudizio di costituzionalità, di una valenza oggettiva. Non credo sia un caso, a tale proposito, che le associazioni del femminismo italiano nate nelle ultime decadi del Novecento non si siano fatte finora promotrici di una simile domanda dinanzi alla Corte costituzionale.
Abbiamo ora tutti i principali elementi per leggere la pronuncia n. 230/2020. Essa appare coerente con la giurisprudenza degli ultimi mesi e anni nell’affermare che, in Italia, l’atto di nascita di un bambino nato nell’ambito di una coppia lesbica può contenere solo il nome della madre che lo ha partorito, mentre la compagna di quest’ultima potrà avviare un procedimento di adozione in casi particolari. Opportunamente, tornando su un tema aperto nella sent. n. 162 e correggendo quegli orientamenti che troppo frettolosamente parlano di un «diritto umano inviolabile ed universale a diventare genitore» (così si legge nell’ordinanza di rinvio), la Corte afferma che «l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona» ai sensi dell’art. 2 Cost. In molti passaggi, la Corte riprende testualmente la sent. n. 221: là dove aveva negato che l’esclusione della coppia lesbica dalla p.m.a costituisse una discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale (con un puntuale richiamo della pronuncia della Corte di Strasburgo Gas e Dubois c. Francia); là dove non aveva escluso la ragionevolezza delle scelte legislative e la pensabilità di limiti al diritto a procreare, con riguardo agli interrogativi di ordine etico sollevati dall’impiego della tecnica ai processi di generazione; là dove, ricordando il problema del cd. turismo procreativo e la giurisprudenza di legittimità sul riconoscimento di atti di nascita formati all’estero, aveva sottolineato come la diversità di discipline tra i paesi non può, da sola, giustificare un trattamento omogeneo, perché altrimenti la legislazione italiana dovrebbe allinearsi a quella straniera più permissiva; là dove aveva colto la diversa situazione della coppia lesbica rispetto alla coppia gay; là dove, infine, aveva contemplato soluzioni potenzialmente diverse del legislatore, qualora la collettività avesse maturato un equilibrio differente tra i valori in gioco (qui torna un riferimento alla sent. n. 84). I giudici riprendono poi la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a proposito della dottrina del margine di apprezzamento sulle questioni eticamente sensibili, nella misura in cui non vi sia un consenso tra gli stati, e il parere del 2020 sulla legittimità dell’adozione da parte del genitore intenzionale.
La Consulta, dunque, ritiene di non potere da sola alterare un equilibrio tra principi e valori costituzionali, intorno ad alcune scelte di fondo concretizzatesi nella legge n. 40 e nella legge n. 76/2016, senza una più robusta e trasversale condivisione da parte della cittadinanza. La legge sulle unioni civili è peraltro ancora piuttosto recente per un intervento di peso del giudice costituzionale. Alcuni costituzionalisti americani direbbero, a tale proposito, che la Corte non ha trovato, in una constitutional culture divisa, sponde sufficienti per innescare modifiche tanto significative. Ma anche i confronti con l’esperienza americana vanno fatti con cautela, nonostante i (o forse a causa dei) suoi tratti più spettacolari: si tratta di un contesto molto diverso dal nostro, dove a causa della tradizione di common law, di una cultura giuridica più portata a seguire il mutamento sociale, e di un ricorso più spregiudicato alle liti strategiche molte innovazioni costituzionali sono avvenute tramite sentenze della Corte Suprema adottate a stretta maggioranza.
Credo, pertanto, che quello della Corte costituzionale sia un approdo prudente e comprensibile, che potrebbe a sua volta essere agevolato da un riesame periodico della legge n. 40 alla luce di un’ampia discussione nello spazio pubblico, come avviene ad esempio in Francia. Ma in tal caso occorrerebbe prestare molta attenzione affinché venga assicurato un pluralismo effettivo dei partecipanti (cittadini, cittadine e gruppi), per evitare che il dibattito sia orientato dai soggetti economicamente e socialmente più forti e per far sì che anche la parola delle donne vi trovi adeguata espressione. La conclusione della Corte mi sembra infine equilibrata perché sfugge all’idea, propria di una parte della cultura contemporanea e permeata da istanze individualistiche e volontaristiche, di una moltiplicazione dei diritti dei singoli che trovano nei giudici gli interlocutori istituzionali sempre più disponibili e ricettivi.


È sfruttamento economico e non autodeterminazione sessuale: la Consulta salva la legge Merlin

La sentenza della Corte costituzionale n. 141/2019 è una pronuncia importante. Le questioni di legittimità nei confronti di alcune norme incriminatrici della legge Merlin, sollevate nell’ambito di un giudizio sulla intermediazione di escort dei cui servizi avrebbe beneficiato l’ex Presidente del Consiglio Berlusconi, sono state dichiarate infondate. In particolare, la Corte ha escluso che l’attività di prostituzione possa essere configurata come una manifestazione del diritto inviolabile alla libertà sessuale, considerandola invece l’esercizio di un’attività economica assoggettata ai limiti previsti dalla costituzione.
Per inquadrare meglio le questioni i giudici si sono avvalsi dell’argomento comparativo, ricostruendo le politiche legislative sulla prostituzione adottate da diversi stati a partire dall’Ottocento. A un originario modello regolamentarista, che tollerava la prostituzione nelle case chiuse punendo le condotte di terzi solo in caso di coazione nei confronti dei soggetti più deboli o di palese sfruttamento, sottoponendo contestualmente le prostitute a incisive forme di controllo, ha fatto seguito in molti paesi un modello abolizionista, che considerava la prostituzione un’attività degradante per la persona e negativa per la società, stabilendo per un verso la non punibilità della prostituta e del cliente ma tracciando per l’altro un’area penalmente rilevante per i terzi che avessero agevolato, supportato o sfruttato in vario modo il mercato prostitutivo. È a un tale modello, il cui nome evoca chiaramente le lotte per l’abolizione della schiavitù, che si ispira anche la legge n. 75 del 1958 proposta dalla senatrice Lina Merlin. Una visione più moraleggiante ha invece ispirato le leggi, vigenti in diversi stati degli USA e da alcuni definite proibizioniste, che hanno sottoposto a sanzione penale sia la prostituta che il cliente. Negli ultimi venti o trent’anni i modelli si sono ulteriormente differenziati: alcuni paesi (extraeuropei ma anche europei, tra cui l’Olanda e la Germania) hanno adottato politiche cd. neo-regolamentariste, incentrate sulla libertà contrattuale e sulla regolamentazione degli effetti collaterali dell’impresa prostitutiva in un’ottica di riduzione del danno, anche attraverso la reintroduzione di registrazioni e rigidi controlli. Altri, in linea con le indicazioni emergenti da alcuni atti normativi internazionali ed europei, hanno invece inteso rafforzare il modello abolizionista esprimendo un giudizio sfavorevole con riguardo al comportamento non della prostituta ma del cliente e contemplando per quest’ultimo una sanzione penale: è il caso di alcuni paesi scandinavi e più recentemente della Francia. Tale modello viene denominato, a seconda delle prospettive, neo-abolizionista o neo-proibizionista (la Consulta usa il secondo termine). L’analisi comparativa si chiude con il richiamo a due precedenti giurisprudenziali del Tribunale costituzionale portoghese e del Consiglio costituzionale francese, che hanno avallato leggi ispirate rispettivamente al modello abolizionista e a quello neo-abolizionista.
Ora, se da una parte è indubbiamente pregevole lo sforzo dei giudici costituzionali di allargare lo sguardo a esperienze straniere con il fine di contestualizzare meglio quella italiana ma altresì di ricercare tendenze comuni, dall’altra parte ci si può interrogare sull’effettiva neutralità della classificazione adoperata dalla Corte, almeno con riferimento ad alcune delle categorie prospettate: ad esempio, parlare di proibizionismo o di neo-proibizionismo (anziché di neo-abolizionismo) implica che si è già assunta una certa posizione valutativa. Si può inoltre dubitare che il lessico proibizionista, nato con riferimento al consumo di alcolici e poi esteso a quello di sostanze stupefacenti, possa essere efficacemente esteso – se non per sottolineare una analoga impronta moralistica – al “consumo” di condotte umane e segnatamente di una prestazione sessuale (per una classificazione parzialmente diversa v. il contributo di Daniela Danna, Libertà sessuale e politiche sulla prostituzione in Ead., S. Niccolai, L. Tavernini, G. Villa, Né sesso né lavoro. Politiche sulla prostituzione, VandAepublishing, Milano, 2019).
A ogni modo, l’esame comparativo ha ribadito l’inserimento della legge n. 75/1958 nell’ambito del modello abolizionista. La legge fu concepita dalla proponente Lina Merlin, socialista umanitaria, come una normativa di attuazione dei principi costituzionali di eguaglianza, libertà, certezza del diritto e giustizia economica. La legge Merlin ha inteso riscattare le donne prostitute, considerandole pari cittadine e partecipi di un progetto di convivenza comune; al contempo ha cercato di impedire sia le vessazioni che il modello regolamentarista aveva consentito alle forze di pubblica sicurezza di compiere contro le prostitute (di qui l’abolizione delle case chiuse) sia gli abusi legati al mercato della prostituzione (di qui la previsione dei reati di cui all’art. 3 della legge, da interpretare in maniera alternativa piuttosto che cumulativa). Il bene oggetto di tutela di queste ultime norme non era più, come nel codice Rocco, la pubblica moralità, ma la giustizia e l’etica del mercato (in questo senso v. il saggio di Silvia Niccolai La legge Merlin e i suoi interpreti, in Né sesso né lavoro, cit.). Su tale questione si è comunque aperto il dibattito tra gli interpreti: mentre nei decenni successivi all’entrata in vigore della legge è prevalsa una lettura in continuità con il modello regolamentarista previgente, negli anni recenti si sono affacciati orientamenti – fatti propri anche dal giudice a quo – secondo cui il bene tutelato dalle norme incriminatrici della legge n. 75/1958 è la libertà sessuale, orientamenti che spingerebbero, in presenza di consenso da parte di chi si prostituisce, a far cadere tutte le fattispecie di reato. Un altro filone giurisprudenziale, richiamato nella sentenza 141, ha invece ravvisato il bene protetto da quelle norme nella dignità oggettiva dell’individuo che offre prestazioni sessuali e cioè, nella stragrande maggioranza dei casi, della donna (la prostituzione maschile ha numeri molto inferiori e l’argomento dignitario è riferibile anche ad essa, mentre quella dei trans segue logiche in parte diverse).
La Consulta ha condiviso quest’ultimo approccio. Anzitutto essa ha escluso dai parametri conferenti l’art. 2 Cost. e quindi la libertà sessuale. Questa è bensì un diritto inviolabile, ma solo se ha per contenuto l’esplicazione positiva di un libero desiderio o la protezione negativa rispetto a una coazione esterna, risultando quindi non pertinente il rifermento nell’ordinanza di rimessione al precedente della sent. n. 561/1987. Opportunamente i giudici hanno rovesciato le argomentazioni della Corte di appello di Bari e delle parti costituite in ordine alla libertà e volontarietà dell’offerta di prestazioni da parte delle escort: è molto difficile, teoricamente e praticamente, misurare il grado di libertà del consenso della donna che si prostituisce, poiché la manifestazione di volontà va compresa alla luce del contesto economico, sociale, affettivo e familiare in cui quella manifestazione è resa. Tale contesto rende sostanzialmente illusoria una concezione dell’autodeterminazione ridotta alla libertà di scelta tra opzioni che, lungi dall’ampliare il fascio di opportunità affinché la persona coinvolta conduca una vita piena e realizzata, la inchiodano a una condizione di marginalità. E ciò vale a prescindere dalle modalità e dai luoghi della prostituzione nonché dalle disponibilità economiche del cliente. Nelle parole della Corte: «anche nell’attuale momento storico … la scelta di ‘vendere sesso’ trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali».
Più corretto è quindi per i giudici un inquadramento della questione alla luce dell’art. 41 Cost., il quale nel garantire l’iniziativa economica privata fissa anche i relativi limiti: sicurezza, libertà e dignità umana. Con riguardo a quest’ultima i giudici ne affermano in questa specifica costellazione la portata oggettiva (o se si vuole istituzionale, distinta rispetto a quella soggettiva invocata dagli imputati nel processo a quo), da individuarsi con rifermento al «comune sentimento sociale in un dato momento storico». La dignità è quindi ricollegata all’effetto svilente e degradante della prostituzione, che consiste nella messa in vendita come merce della sessualità, la sfera più intima della persona. Non coglie del resto nel segno la tesi, prospettata dagli imputati, secondo cui questo approccio rievocherebbe l’immagine dello stato etico, poiché nelle democrazie pluraliste un fondamento di etica condivisa, eventualmente raggiunta “per sovrapposizione”, consente di sfuggire alla secca alternativa tra stato etico e relativismo indifferente ai valori. Il ragionamento della Corte colpisce anche la retorica del sex work, secondo cui quello della prostituta sarebbe un mestiere come un altro (anzi “il più antico del mondo”) e per questo meriterebbe il dovuto riconoscimento, quando in realtà un argomentare siffatto finisce per privare di senso il concetto stesso di lavoro come attività attraverso la quale ciascuno mira a sviluppare le proprie capacità e a inserirsi in condizioni di eguaglianza nella comunità politica (riflessioni sul punto in Luciana Tavernini, Quanto ci tocca la prostituzione?, in Né sesso né lavoro, cit.). Con questa prospettiva sarebbe stato peraltro coerente anche un riferimento esplicito al legame tra art. 41 comma 2 e art. 3 Cost., per quanto concerne sia la pari dignità sociale sia i compiti di trasformazione economica e sociale ai quali la Repubblica è chiamata ad adempiere. Si sarebbe così rimarcata la specifica dimensione sociale del principio di dignità nella costituzione italiana, all’interno della quale si muove del resto la legge Merlin, ridimensionando le preoccupazioni di chi teme che il limite della dignità oggettiva possa essere invocato – in futuro e in altri contesti – per veicolare visioni morali maggioritarie ed eccessivamente compatte.
La Consulta ha poi rigettato le censure formulate con riferimento ai principi di offensività del reato e di determinatezza e tassatività della norma incriminatrice, richiamandosi alla discrezionalità del legislatore penale (incensurabile in assenza di irragionevolezze manifeste o arbitri) e ricordando comunque il potere del giudice di valutare l’offensività in concreto del comportamento lesivo. Qui però si intravedono – oltre che sensibilità diverse all’interno del collegio – anche gli appigli per un eventuale cambiamento di rotta qualora in futuro il legislatore decida di adottare un modello di tipo neo-regolamentarista (sono stati depositati diversi progetti di legge in tal senso, accanto ad altri di impronta neo-abolizionista: cfr. Grazia Villa, Progetti di legge e proposte politiche sulla prostituzione in Italia, in Né sesso né lavoro, cit.). Una svolta siffatta potrebbe trovare un sostegno anche nella rassegna comparativa tratteggiata nella prima parte della motivazione, che pone apparentemente sullo stesso piano le diverse politiche sulla prostituzione (anche se si coglie un accento di disfavore per quelle di matrice “proibizionista”). Una svolta di questo tipo sarebbe però incompatibile con la concezione della legge Merlin come attuazione e svolgimento dei principi costituzionali più sopra ricordati, concezione che peraltro può contribuire a spiegare le differenze tra la soluzione italiana e quelle di altri paesi.
Da ultimo occorre ricordare come la sentenza 141/2019 prosegua l’itinerario che negli ultimi anni ha visto la Corte costituzionale precisare, in maniera più o meno articolata, il concetto di autodeterminazione (v. sent. 162/2014 e ord. 207/2018) e quello di dignità della donna (v. sent. 272/2017). Ma questo aspetto tocca questioni ulteriori e complesse che mi riservo di approfondire in altra sede.


Le opinioni dissenzienti nelle corti costituzionali europee. Recensione al libro di Katalin Kelemen

Negli ultimi anni, il tema delle opinioni dissenzienti è tornato a interessare la dottrina costituzionalistica e costituzional-comparatistica, sintomo di una più elevata permeabilità tra gli ordinamenti e di un più accresciuto pluralismo giuridico. Tra i più recenti lavori su questo argomento, va segnalato il libro di Katalin Kelemen, Judicial Dissents in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London and New York,  2018, pp. 207. Indico subito quelli che mi sembrano i maggiori pregi del volume: chiarezza e linearità del testo, puntuali confronti comparativi nel corso dell’esposizione, considerazione dei processi deliberativi interni alle corti supreme e costituzionali, consapevolezza dei profili informali e convenzionali di questi, attenzione per le peculiarità delle corti costituzionali dell’Europa centro-orientale. Meno spazio è dedicato alle questioni dell’interpretazione e dell’argomentazione giudiziale, anche se l’autrice tende a ricollegare l’assenza del dissent a inclinazioni giuspositivistiche presenti nella cultura giuridica.
Nonostante il titolo prefiguri un’indagine sul ruolo delle opinioni dissenzienti nelle corti costituzionali europee, il lavoro non manca di toccare altre esperienze in cui l’istituto del dissent è più radicato, segnatamente quella inglese, quella statunitense e quella della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per contrasto, l’autrice mette a fuoco i motivi relativi all’assenza dell’istituto presso la Corte di giustizia dell’UE e i possibili vantaggi di una sua introduzione. Quanto all’Europa continentale, accanto agli ordinamenti usualmente presi in considerazione nell’esame comparativo (tedesco, spagnolo e italiano, all’interno del quale Kelemen mostra di sapersi muoversi bene), un esame approfondito ha ad oggetto le corti dell’Europa centro-orientale e, in particolare, quella ungherese (prima del controverso court-packing). In questa parte del volume emergono non solo gli aspetti più classici delle opinioni dissenzienti, ma anche il significato che esse assumono in paesi che hanno più recentemente affrontato una transizione costituzionale: l’influenza esercitata dal modello tedesco; la diversità di approccio tra ordinamenti che hanno contemplato il dissent contestualmente all’istituzione delle corti costituzionali e quelli che hanno atteso alcuni anni, affinché tali corti potessero prima legittimarsi; la differenza rispetto agli stati socialisti, in cui alla previsione astratta dell’istituto era seguita una sua pressoché totale assenza nella prassi; il contributo delle opinioni dissenzienti alla ricomposizione del tessuto democratico. È soprattutto qui che l’autrice rimarca le ricadute del dissent sulla sfera politica.
Nell’ultimo capitolo, Kelemen individua quattro funzioni del dissent: di stimolo (relativa al potenziamento del confronto tra i giudici all’interno del collegio), comunicativa o informativa (volta a offrire alle parti e al pubblico una maggior completezza delle ragioni sottostanti di una decisione), dialettica (riguardante il dialogo tra i giudici costituzionali e la dottrina) e trasformativa (concernente lo sviluppo del diritto). L’autrice inquadra inoltre le opinioni dissenzienti all’interno di alcune coordinate tra loro apparentemente in tensione, nonché declinate in maniera differente nella tradizione giuridica di civil law e in quella di common law: indipendenza del giudice e trasparenza, libertà di espressione del giudice ed autorità della pronuncia collegiale, certezza e mutamento del diritto, legittimazione della giustizia costituzionale. Particolarmente convincenti sono le pagine sul diverso modo di concepire il principio di certezza del diritto, come stabilità o come prevedibilità, e sul diverso modo di vedere il ruolo del giudice, ispirato alla lealtà verso il collegio o coerente con l’integrità delle proprie convinzioni personali e scientifiche.
Le conclusioni dell’autrice – condivise da chi scrive – sottolineano come l’opinione dissenziente possa svolgere una funzione positiva anche presso le corti costituzionali dell’Europa continentale, quale elemento di dinamizzazione e pluralizzazione dell’argomentazione giuridica, specie in un contesto di più estesa comunicazione tra le giurisdizioni come quello attuale.

 


Verfassungs-Kultur. A proposito di un recente volume su Peter Häberle

La casa editrice tedesca Nomos ha iniziato a pubblicare, nel 2000, la collana Staatsverständnisse, della quale fanno oggi parte numerosi volumi collettanei dedicati alle figure più rappresentative della storia del pensiero politico e della dottrina costituzionale. Ai pochi contemporanei inclusi nella serie si è aggiunto, qualche mese fa, anche Peter Häberle, la cui opera è stata oggetto del libro curato da Robert Chr. Van Ooyen e Martin M.H. Möllers, Verfassungs-Kultur. Staat, Europa und pluralistische Gesellschaft bei Peter Häberle, Baden-Baden, Nomos, 2016, pp. 209.

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Remarks on Domenico Amirante’s Book: “Lo stato multiculturale. Contributo alla teoria dello stato dalla prospettiva dell’Unione Indiana”, Bologna, Bononia University Press, 2014*

* Presentation held at the Book-Release which took place at Indian Embassy in Rome, November 17th 2015.

Domenico Amirante is perhaps the main Italian expert of the Indian constitution nowadays, since he has dedicated to this subject a great number of books, essays and articles. As he often recalls in this volume, the Indian constitutional experience has long been neglected, despite the interesting perspective it offers on challenges faced by our democracies, especially in the context of European integration and globalization. In later years, however, various Italian academics have been engaged with several issues of Indian constitutionalism. Some of these contributions are collected in a book edited by Amirante himself, Carmela De Caro and Eva Pfoestl on the the Indian constitution and published in 2013. Another crucial element which has favoured the growing interest of the Italian broader public for the Indian experience has been the translation of important works of authors such as Amartya Sen and Martha Nussbaum.

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L’ultima decisione sul velo del Bundesverfassungsgericht tra continuità e discontinuità giurisprudenziale

Nell’ambito della giurisprudenza dei paesi europei e della Corte europea dei diritti dell’uomo, la posizione del Bundesverfassungsgericht sulla questione del velo islamico si è contraddistinta per un tendenziale favore per la libertà religiosa dell’insegnante. Così, almeno, si era orientato il secondo Senato del Tribunale costituzionale nella prima sentenza sul velo del 2003, ritenendo incostituzionale un provvedimento di inidoneità all’insegnamento pronunciato in base alla legge sull’impego pubblico del Baden-Württemberg. Al contempo, il Tribunale aveva stabilito che era necessaria una più accorta ponderazione tra i diversi diritti e principi in gioco: la libertà religiosa positiva dell’insegnante e il principio di parità nell’accesso agli impieghi pubblici, da un lato, il diritto dei genitori all’educazione dei propri figli, la libertà religiosa negativa di questi ultimi, il principio di neutralità e il compito educativo dello stato, dall’altro. Tale ponderazione avrebbe dovuto essere effettuata in prima battuta dai legislatori dei Länder, dopo un dibattito pubblico che avrebbe dovuto tenere conto, fra l’altro, dell’impatto delle norme proposte sulle singole comunità religose (BVerfGE 108, 282, del 24 settembre 2003).

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Il writ of certiorari della Corte Suprema sulla costituzionalità del divieto di matrimoni same-sex a livello statale

Lo scorso ottobre, all’inizio di questo term, la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva rifiutato di pronunciarsi sulla questione se le coppie omosessuali avessero o meno un diritto costituzionale al matrimonio (valido sia a livello federale che a livello statale), negando l’emissione di un writ of certiorari per riesaminare le sentenze di tre corti di appello che avevano dichiarato l’incostituzionalità del divieto del matrimonio tra persone omosessuali in alcuni stati. Com’è noto, la decisione se emettere o meno il writ of certiorari è discrezionale e non motivata. Molti commentatori hanno interpretato la scelta della corte come l’esito di una valutazione prudenziale (nel senso delle passive virtues di Bickel), alla luce di un percorso di ampliamento graduale ma progressivo delle tutele avviato con le sentenze del 2013. Allora, infatti, la corte aveva bensì affermato, in Windsor v. United States, l’illegittimità, per violazione della equal protection clause, della normativa federale che limitava la definizione di matrimonio alle coppie eterosessuali, ma aveva anche dichiarato inammissibile, in Hollingsworth v. Perry, la questione sull’incostituzionalità del divieto di matrimonio tra persone omosessuali in California, dove era stato introdotto con un emendamento costituzionale. Nel 2013, solo 9 stati e il District of Columbia riconoscevano il matrimonio same-sex.

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Le sfide dell’eguaglianza razziale negli Stati Uniti e la decisione del grand jury nel caso Micheal Brown

Una delle cose che colpisce di più lo studioso europeo in visita presso una università americana è il senso della community che si avverte al suo interno. Sono molte le occasioni di discussione tra studenti e docenti, momenti di confronto in cui la composizione pluralistica degli uni e degli altri viene particolarmente valorizzata.

Nelle ultime settimane, due di questi incontri/forum mi hanno aiutato a mettere a fuoco le questioni ancora aperte relative all’eguaglianza razziale negli Stati Uniti (entrambi gli incontri si sono svolti alla Columbia University di New York, dove ho trascorso qualche mese come visiting scholar). Il primo risale alla settimana scorsa e riguarda la decisione del grand jury della contea di St. Louis, nel Missouri, di non incriminare il poliziotto che ha ucciso il giovane afroamericano Micheal Brown. Il secondo si è tenuto più di un mese fa in occasione del 50° anniversario dall’approvazione del Civil Rights Act. Pochi giorni dopo il primo forum, un altro grand jury, a Staten Island, New York, ha emesso un nuovo no bill of indictment nei confronti del poliziotto che, usando la pratica vietata del chockhold, aveva ucciso Eric Garner, anch’egli un cittadino di colore.

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Bruce Ackerman e la Civil Rights Revolution

Era atteso da tempo e le aspettative non sono state deluse: l’ultimo libro di Bruce Ackerman, The Civil Rights Revolution, presenta un articolato affresco del movimento per i diritti civili in America e delle dinamiche costituzionali che esso ha innsecato. Il volume costituisce la terza parte della serie We The People. Dopo Foundations (vol. 1, pubblicato nel 1991), e Transformations (vol. 2, pubblicato nel 1998), che hanno messo ha fuoco rispettivamente la creazione della costituzione federale, i Reconstruction Amendments e il New Deal, Ackerman affronta un altro periodo chiave del costituzionalismo americano: la Second Reconstruction. L’arco di tempo considerato va dal 1954 al 1974: le date sono state scelte in corrispondenza di due significative pronunce giudiziarie: nel 1954, la Corte Warren ha deciso Brown vs. Board of Education, aprendo la strada alla de-segregazione razziale nel sud degli Stati Uniti, nel 1974 la Corte Burger ha deciso Milliken vs. Bradley, ostacolando le iniziative volte al superamento della segregazione de facto nel nord.

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