L’adesione dell’Ucraina all’Unione europea: il processo di integrazione europea nel contesto bellico

Il processo di integrazione europeo consente all’Unione europea di allargarsi verso nuovi Stati europei che dimostrano la volontà di aderire ai suoi valori fondanti. L’Ucraina da un decennio manifesta questa volontà e lo scorso 28 febbraio 2022, dopo l’aggressione militare perpetrata del regime russo, lo Stato ucraino ha formalmente presentato la richiesta di accesso all’Unione europea.
Oltre all’aiuto finanziario e militare, le istituzioni europee hanno reagito con celerità alla richiesta di adesione. In una settimana il Consiglio europeo ha attivato la procedura prevista dall’art. 49 TUE e ha invitato la Commissione a produrre il parere riguardo la domanda ucraina. L’esecutivo europeo ha esaminato la richiesta e presentato le sue raccomandazioni lo sorso 17 giugno. Il Consiglio europeo del 24 giugno 2022 accogliendo le raccomandazioni della Commissione ha concesso all’Ucraina lo status di candidato all’accesso all’UE.
Il contesto bellico in cui è stata prodotta la richiesta di adesione rappresenta un unicum nel processo di integrazione europea e fa sorgere alcuni interrogativi sul percorso, disciplinato dall’art. 49 TUE, che lo Stato ucraino dovrà affrontare per acquisire la membership UE. In particolare, è necessario chiedersi: se il processo di accesso dell’Ucraina all’UE seguirà le tappe classiche di adesione o ci sarà una procedura “accelerata”? Quali sono i criteri che l’Ucraina deve rispettare per divenire Stato membro UE? Cosa richiedono le istituzioni europee all’Ucraina?
Per rispondere a questi interrogativi occorre analizzare la procedura di adesione ex art. 49 TUE.
L’art. 49 TUE dispone che ogni Stato europeo che rispetti i valori contenuti all’art. 2 TUE e si impegni a promuoverli può presentare una richiesta formale per diventare Stato membro dell’Unione europea. In base a questa norma, l’adesione all’UE non dipende solo dall’essere uno Stato nel senso del diritto internazionale. L’accesso dipende dall’appartenenza all’Europa e il rispetto di una serie di requisiti politici che si ricollegano ai valori su cui l’UE si fonda. Sul criterio geografico è opportuno ricordare che l’appartenenza di una sola porzione del territorio al continente europeo può essere sufficiente se a tale elemento si affianchi la vicinanza storica e culturale con la società europea (R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014, 42). Un esempio è quello della Turchia, Stato al quale è riconosciuto lo status di candidato all’adesione. Per quanto riguarda i requisiti politici, lo Stato richiedente deve rispettare i criteri democratici e i diritti fondamentali, che permeano l’Unione e i suoi Stati membri e con cui si identificano i valori sanciti dall’art. 2 TUE. Questa condizione può ritenersi soddisfatta quando lo Stato candidato abbia raggiunto una stabilità istituzionale che garantisca la democrazia, il principio di legalità, i diritti umani, il rispetto e la protezione delle minoranze. Questi criteri sono affiancati da altri parametri di ammissibilità alla luce dei quali vanno valutate le candidature all’UE. Questo potere è oggi riconosciuto dall’art. 49, paragrafo 1, TUE secondo cui ai fini della valutazione di nuove candidature si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2014, 43). In particolare, il riferimento va ai i c.d. criteri di Copenaghen formalizzati nelle conclusioni del Consiglio europeo del 21 e 22 giugno 1993. Tali criteri prevedono il soddisfacimento di una condizione giuridica e di una economica. La prima consiste nella capacità di assumere obblighi connessi all’appartenenza all’UE e quindi aderire all’acquis comunitarie. La seconda attiene invece all’esistenza nello Stato richiedente di una economia di mercato funzionante e basata sui principi della libera concorrenza (P. Craig, G. De Burca, EU Law. Text, Cases, and Materials, Oxford, 2020, 46).
Rispetto ai passaggi procedurali, l’art. 49 TUE prevede che la procedura sia avviata con la presentazione della candidatura da parte dello Stato richiedente. Proposta sulla quale il Consiglio chiede alla Commissione di esprimere un parere per poi decidere, previa approvazione del Parlamento europeo, se dichiararne l’ammissibilità. In caso positivo, la fase istituzionale della procedura si chiude e viene aperta la fase negoziale di adesione tra gli Stati membri e il Paese candidato. La fase negoziale di norma è preceduta da una lunga fase di preparazione alla candidatura, la c.d. fase di pre-adesione, che è stata sviluppata in maniera consuetudinaria e non è prevista esplicitamente dall’art. 49 TUE. L’utilità di questa fase è quella di offrire agli Stati candidati la possibilità di adeguarsi agli standard UE attraverso degli accordi bilaterali di stabilizzazione e associazione. Il processo di preparazione all’ingresso nell’UE continua durante la fase intergovernativa di negoziato in vista della conclusione dell’accordo di adesione.
Il negoziato tra gli Stati membri e il Paese candidato si conclude con un accordo internazionale che verrà poi sottoscritto da tutti i contraenti ed entrerà in vigore una volta ratificato da questi in base alle rispettive norme costituzionali. Ai sensi dell’art. 49, paragrafo 2, TUE, l’accordo include il c.d. Atto di adesione ove sono definite le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti ai Trattati su cui è fondata l’Unione.
L’acquisizione dello status di membro dell’Unione comporta la piena integrazione del nuovo Stato nel sistema istituzionale e giuridico dell’UE, con la conseguente applicazione del diritto dell’Unione allo Stato e ai territori sui quali esercita la propria giurisdizione.
L’aggressione del regime russo ha promosso celermente la concessione dello status di candidato all’Ucraina. Questa appare una decisione prettamente politica non legata alla diligente applicazione giuridica delle condizioni relative all’art. 49 TUE. La guerra ha reso più reattive le istituzioni europee, ma non può accorciare gli altri passaggi necessari a garantire l’adesione (R. Petrov, C. Hillion, Accession Through war - Ukraine’s road to the EU. Applying for EU membership in time of war, in Common Market Law Review, 2022, 1293). L’art. 49 TUE e le consuetudini relative al processo di adesione non prevedono una procedura speciale che accorci i tempi ed esenti un candidato dal confronto intergovernativo e dal soddisfacimento dei criteri ai quali è subordinata la concessione della membership UE.
Tuttavia, alcune posizioni dottrinali sostengono la possibilità di prevedere una procedura accelerata, che eviti all’Ucraina di affrontare la fase di pre-adesione e far accedere l’Ucraina alla conclusione immediata delle ostilità belliche (K. Culver, D. Kochenov, Immediate Eu membership for Ukraine? In Conversation with Dimitry Kochenov, in Review of Democracy, 2022. L’art. 49 TUE è accompagnato da un sistema di consuetudini che non trova codifica nel testo di questo articolo del Trattato e consente l’apertura a diverse forme di organizzazione del processo di adesione. L’art. 49 TUE non chiede all’Ucraina e agli altri Stati candidati di affrontare obbligatoriamente l'elaborata fase della condizionalità pre-adesione. Attenendosi strettamente a ciò che dispone l’art. 49 TUE, lo Stato ucraino dovrà negoziare il trattato di adesione con gli Stati membri per stabilire le condizioni di ammissione e gli adeguamenti dei trattati su cui si fonda l'Unione. Il trattato viene quindi concluso tra gli Stati membri e il Paese richiedente e deve essere ratificato da tutti gli Stati interessati secondo i loro requisiti costituzionali (D. Kochenov, R. Janse, Admiing Ukraine to the EU: Article 49 TEU is the ‘Special Procedure’, in Symposium EU Law Live, 2022, 10). In sintesi, l'art. 49 TUE non codifica il diritto consuetudinario relativo all'allargamento dell'Unione europea, nel quale rientra la fase di pre-adesione, che sono state applicate nell'ambito delle ultime tre tornate di allargamento (K. Culver, D. Kochenov, Immediate Eu membership for Ukraine? In Conversation with Dimitry Kochenov, in Review of Democracy, 2022).
Alla luce di ciò, la dottrina afferma che l'Ucraina potrebbe aderire seguendo un approccio flessibile, accomodante e orientato ai valori dell'art. 49 TUE. In altre parole, fatte salve le condizioni sostanziali per l'adesione all'articolo 49 TUE, compreso l'impegno a rispettare i valori dell'articolo 2 TUE e il resto dell'acquis communitaire, da incorporare integralmente, si potrebbero accorciare altri passaggi. Precisamente si potrebbe accorciare la tempistica dell'adesione formale e saltare la preadesione introducendo lunghi periodi transitori con clausole applicative robuste, se necessario applicabili dopo l'adesione, nel trattato di adesione. (D. Kochenov, R. Janse, Admiing Ukraine to the EU: Article 49 TEU is the ‘Special Procedure’, in Symposium EU Law Live, 2022, 10). Secondo tale dottrina, invece di negoziare con l'Ucraina mentre è in fase di ricostruzione, monitorare e imporre cambiamenti legislativi per far rispettare l'acquis e i valori formali, la dottrina suggerisce che le istituzioni europee e gli Stati membri potrebbero pretendere che lo Stato ucraino assicuri il pieno impegno solo sulle questioni di principio: piena accettazione dell'acquis, ponendo l'accento sull'accettazione dei valori dell'Unione come parte centrale del suo diritto, e la promessa di creare capacità istituzionale. A ciò seguirà un'adesione immediata e da lunghi periodi transitori, diversi in tutti i settori, per consentire all'acquis di essere pienamente operativo in tempi più lunghi. Questo è stato, in sostanza, l'approccio adottato nel contesto del primo allargamento del 1973 verso Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Il mancato completamento dell'adattamento entro la fine delle transizioni concordate dovrebbe far scattare clausole sospensive e sanzioni chiaramente formulate, che farebbero parte del trattato di adesione (D. Kochenov, Take Down the Wall. And Make Russia Pay for It. The Case for the Immediate Accession of Ukraine to the European Union, in Verfassungsblog, 2022). In base a tale letteratura, una rapida adesione non dovrebbe avere alcun impatto negativo sul funzionamento pratico dell'acquis in Ucraina alla scadenza dei periodi transitori. Va da sé che non dovrebbe essere previsto alcun trattamento speciale per quanto riguarda il pieno rispetto del diritto dell'UE (D. Kochenov, R. Janse, Admiing Ukraine to the EU: Article 49 TEU is the ‘Special Procedure’, in Symposium EU Law Live, 2022, 10).
A parere di chi scrive, la soluzione di una rapida adesione dell’Ucraina all’UE non è né realizzabile né auspicabile per due motivi.
Il primo motivo è connesso all’attuale contesto bellico e alla clausola contenuta nell’art. 42, paragrafo 7, TUE. Tale norma statuisce che “qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite”, compresi quelli militari. In altre parole, tale clausola obbligherebbe gli Stati membri a intervenire militarmente a sostegno dello Stato membro aggredito. Nel caso in cui l’Ucraina diventi membro UE, gli altri Stati membri devono prestare aiuto militare inviando gli eserciti contro l’aggressione russa. Un sostegno diverso rispetto a quello che al momento gli Stati membri e le istituzioni europee stanno prestando, che trascinerebbe tutto il continente in guerra. Alla luce di ciò, senza un accordo di pace che, non solo ponga fine alla guerra, ma stabilisca una pace sostenibile, ossia in grado di durare nel tempo, non contenga condizioni sfavorevoli per una delle parti e sia condivisa pienamente da entrambi gli schieramenti è impraticabile una soluzione accelerata per la concessione della membership UE all’Ucraina. La fine delle ostilità o della guerra con un trattato di pace traballante non può consentire l’accesso accelerato dell’Ucraina all’UE.
Il secondo motivo è connesso con gli insuccessi degli ultimi allargamenti ad Est – ad esempio Polonia e Ungheria – e riguarda la necessità di valutare meticolosamente se l’Ucraina possiede – ed è in grado di mantenere e rafforzare nel tempo – le condizioni per diventare un membro dell’UE. A tal proposito è necessario ricalibrare la procedura di pre-adesione per promuovere azioni atte ad irrobustire le istituzioni democratiche ucraine, rinforzare il sistema giudiziario, costruire l’economica e il mercato concorrenziale e dare il tempo di riedificare le infrastrutture essenziali distrutte dalla guerra. Per fare ciò occorre fare tesoro degli insuccessi precedenti e porre più attenzione sul rispetto della condizionalità pre-accesso e il rispetto dei c.d. criteri di Copenaghen, soprattutto nel campo della rule of law. Questo è anche l’approccio espresso dal Consiglio europeo nelle sue conclusioni del 24 giugno 2022. L’istituzione intergovernativa sottolinea che “il progresso di ciascun Paese verso l’Unione europea dipenderà dal proprio merito nell’adempiere i criteri di Copenaghen” (Conclusioni Consiglio Europeo, Bruselles, 24 giugno 2022, EUCO 24/22, p. 14). Inoltre, il Consiglio europeo evidenzia che “la capacità di assorbire i nuovi Stati membri deve essere tenuta in considerazione”, specie dopo quanto accaduto con l’allargamento ad Est del 2004 e la guerra in corso (Conclusioni Consiglio Europeo, Bruselles, 24 giugno 2022, EUCO 24/22, p. 14).
Sulle azioni da proporre durante la fase di pre-accesso il parere della Commissione europea contiene delle precise raccomandazioni. Nonostante chieda, nel suo parere, al Consiglio europeo di riconoscere all’Ucraina lo status di Paese candidato, la Commissione raccomanda allo Stato ucraino di adottare alcune misure idonee a rafforzare l’economia d mercato, le istituzioni nazionali, la democrazia, la rule of law, il rispetto dei diritti fondamentali e la protezione dei diritti delle minoranze (Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, Parere sulla candidatura dell’Ucraina a membro dell’Unione, COM(2022) 407 final, 17 giugno 2022, 21). Al fine di migliorare il funzionamento dell’economia di mercato, secondo l’esecutivo europeo, è necessario che l’Ucraina promuova riforme strutturali idonee a ridurre l’influenza dello Stato e degli oligarchi, rafforzare i diritti di proprietà privata e incrementare la flessibilità del mercato del lavoro (Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, Parere sulla candidatura dell’Ucraina a membro dell’Unione, COM(2022) 407 final, 17 giugno 2022, 21).
Il processo di rule of law backsliding (L. Pech, K. L. Scheppele, Illiberalism within rule of law backsliding in the EU. Cambridge in Yearbook of European Legal Studies, 2017, 3-47) avviato nell’ultimo decennio in Polonia e Ungheria richiede un’attenzione particolare nella valutazione iniziale dei candidati e un continuo controllo dopo l’accesso. Al centro delle indicazioni della Commissione europea vi è la Corte costituzionale Ucraina. L’esecutivo europeo raccomanda che l’Ucraina emani e attui una procedura di selezione per i giudici della Corte costituzionale basata sull’esame della loro integrità e delle loro capacità professionali, in linea con quanto suggerito della Commissione di Venezia. Queste riforme hanno il potenziale non solo di costruire un sistema giudiziario indipendente e responsabile, ma anche di ridurre l’influenza dei politici che hanno utilizzato l’attuale sistema di governance giudiziaria per minare la rule of law in Ucraina (Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, Parere sulla candidatura dell’Ucraina a membro dell’Unione, COM(2022) 407 final, 17 giugno 2022, 9).
La Commissione propone, inoltre, indicazioni per contrastare la corruzione. Da un lato, l’istituzione europea chiede di intensificare le indagini proattive, rendere maggiormente efficienti i metodi di indagine e creare un track record credibile dei procedimenti giudiziari e delle condanne. Dall’altro lato, la Commissione invita lo Stato ucraino a garantire che la legislazione antiriciclaggio sia conforme agli standard del Financial Action Task Force. Nonostante l’Ucraina ha ottenuto recentemente risultati nella prevenzione della corruzione, l’azione repressiva deve essere notevolmente rafforzata. Il numero di funzionari di alto livello condotti dinanzi alle istituzioni giudiziarie per corruzione rimane limitato. Infatti, le indagini sulla corruzione mancano di imparzialità e le forze dell’ordine subiscono interferenze politiche (Commissione europea, Comunicazione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, Parere sulla candidatura dell’Ucraina a membro dell’Unione, COM(2022) 407 final, 17 giugno 2022, 10).
Sebbene le istituzioni e gli Stati membri UE siano stati all’altezza della situazione reagendo in modo straordinariamente rapido e positivo alla richiesta ucraina, esse dovranno applicare la metodologia consolidata di adesione anche allo Stato ucraino. Tuttavia, le precedenti procedure di accesso dimostrano che sono necessari alcuni adattamenti e integrazioni alla metodologia classica al fine di tenere conto delle specificità di ciascun caso. L’adattamento metodologico dovrà tenere conto della capacità dell’Ucraina di mantenere le condizioni di adesione durante il conflitto e rafforzarle nella successiva ricostruzione (R. Petrov, C. Hillion, Accession Through war - Ukraine’s road to the EU. Applying for EU membership in time of war, in Common Market Law Review, 2022, 1293). In tale contesto, il sostegno dell’Unione avrà un peso rilevante. Solamente attraverso un sostegno sul lungo periodo e una strategia di pre-accesso che tenga conto delle necessità peculiari del caso ucraino, le istituzioni europee potranno ricevere dall’Ucraina il rispetto scrupoloso delle condizioni di adesione, consentire a questo Stato di divenire membro dell’UE e prevenire svolte autoritarie che ledono la rule of law.


La sentenza Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca: sovranisti alla prova del meccanismo di ricollocamento dei richiedenti protezione internazionale

La pronuncia del 2 aprile 2020 sulle cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17, Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (EU:C:2019:761), chiarisce i margini di discrezionalità degli Stati Membri nell’applicazione del meccanismo di ricollocamento dei richiedenti protezione internazionale previsto delle decisioni 2015/1061 e 2015/1523 e la portata del principio di solidarietà contenuto all’art. 80 TFUE. La Corte di Giustizia ha statuito che Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca rifiutandosi di conformarsi al meccanismo temporaneo di ricollocamento di richiedenti protezione internazionale sono venuti meno agli obblighi ad essi incombenti dal diritto UE. Per sottrarsi all’esecuzione di tale dispositivo, secondo la Corte le autorità nazionali non possono invocare né le loro responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e di salvaguardia della sicurezza interna né il presunto malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione.
La crisi dei richiedenti asilo del 2015 ha condotto all’adozione di misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, al fine di consentire a tali Stati membri di affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso e sostenuto di cittadini di paesi terzi nel loro territorio. Nonostante i propositi solidaristici del meccanismo, i governi di Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca non hanno adempiuto agli obblighi ad essi imposti dalle decisioni 2015/1523 e 2015/1061. Rilevata la violazione del diritto UE, la Commissione europea avvia la procedura di infrazione che sfocia nel ricorso alla Corte di Giustizia, mediante il quale essa chiede che gli Stati Membri in questione vengano dichiarati inadempienti, poiché non hanno indicato, ad intervalli regolari di almeno tre mesi ciascuno, quanti richiedenti protezione internazionale sono in grado di ricollocare rapidamente sul proprio territorio. I tre Stati Membri orientali sostengono che l’art. 72 TFUE è una norma di conflitto, che consente loro di disapplicare unilateralmente il diritto UE ogni qualvolta considerino compromessa la loro competenza nazionale. In altre parole, secondo i convenuti uno Stato Membro potrebbe invocare tale norma per non attuare un atto adottato in materia di immigrazione e asilo se ritiene che esista un rischio potenziale per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna di cui esso è responsabile. In più, gli Stati Membri sostengono che il meccanismo di ricollocamento è mal funzionante per via dell’assenza di informazioni sufficienti e dell’impossibilità di svolgere colloqui con i richiedenti protezioni internazionale.
Nella sentenza, la Corte di Giustizia si discosta dagli argomenti proposti dai governi nazionali parti in causa. Sebbene gli Stati Membri restino competenti ad adottare misure per salvaguardare la sicurezza interna e l’ordine pubblico, la Corte afferma che questa competenza non è impermeabile al diritto dell’UE e non è legittimo dedurre una riserva generale che escluda dall’ambito di applicazione del diritto UE qualsiasi provvedimento adottato per ragioni di ordine pubblico o di sicurezza pubblica. Consentire una interpretazione che ammetta l’esistenza di una riserva del genere comprometterebbe la forza cogente e l’applicazione uniforme del diritto UE (C-38/06, Commissione c. Portogallo, EU:C:2010:108). Costante giurisprudenza della Corte di Giustizia sostiene che la deroga prevista dall’art. 72 TFUE deve essere interpretata restrittivamente (C‑643/15 e C‑647/15, Slovacchia e Ungheria/Consiglio, EU:C:2017:631). Gli Stati Membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione del richiedente protezione internazionale solo se sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, come previsto anche dagli articoli 5, paragrafo 4 sia della decisione 2015/1523 sia della decisione 2015/1601. La Corte precisa che tali motivi devono essere fondati, non seri e non devono riferirsi necessariamente a un reato grave già commesso o a un reato grave di diritto comune commesso al di fuori dello Stato membro di accoglienza prima che l’interessato sia ammesso come rifugiato, ma richiedono solo la prova di un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico. Gli Stati membri di ricollocazione godono di un ampio margine di discrezionalità per stabilire se un cittadino di Paese Terzo destinato a essere ricollocato costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico nel loro territorio.
Le autorità dello Stato Membro di ricollocazione possono invocare i fondati motivi solo in presenza di elementi concordanti, oggettivi e precisi, che permettano di avvalorare i sospetti sul soggetto. L’esclusione avviene solo dopo che tali autorità abbiano proceduto, per ciascun richiedente di cui viene proposta la ricollocazione, a una valutazione dei fatti di cui esse sono a conoscenza al fine di stabilire se, alla luce di un esame globale di tutte le circostanze proprie del singolo caso di cui trattasi, esistono fondati motivi per non accettare il ricollocamento (C-369/17, Ahmed, EU:C:2018:713).
Nell’ambito della procedura di ricollocamento, la Corte rileva che il meccanismo previsto dall’art. 5, par. 4 e 7, delle decisioni in esame osta a che uno Stato Membro invochi perentoriamente, ai soli fini di prevenzione generale e senza dimostrare un rapporto diretto con un caso individuale, l’art. 72 TFUE per giustificare una sospensione o perfino una cessazione dell’attuazione degli obblighi a esso incombenti in forza delle decisioni in esame. Nella prima fase della procedura di ricollocazione l’obbligo per gli Stati membri di indicare un numero di richiedenti protezione internazionale ogni tre mesi è incondizionato. L’assenza di individuazione dei richiedenti destinati a essere ricollocati nello Stato Membro interessato rende impossibile qualsiasi valutazione individualizzata del rischio che essi potrebbero rappresentare per l’ordine pubblico o la sicurezza di detto Stato Membro. Inoltre, gli Stati membri di ricollocazione hanno potuto eseguire controlli supplementari, o perfino sistematici, per mezzo di colloqui e chiedendo l’assistenza dell’Europol per completare tali verifiche, come risulta dalle relazioni sulla ricollocazione e il reinsediamento.
Per tali ragioni, la Corte rileva che il meccanismo di ricollocamento lascia agli Stati Membri di ricollocazione possibilità concrete per tutelare i loro interessi nell’ambito dell’esame della situazione individuale di ciascun richiedente protezione internazionale da ricollocare, senza inficiare il raggiungimento dell’obiettivo di ricollocare in modo effettivo e rapido un numero significativo di tali soggetti per alleviare la forte pressione gravante su Italia e Grecia. Dunque, la Corte statuisce che i motivi di difesa tratti dai governi orientali dall’art. 72 TFUE, in combinato disposto con l’art. 4, par. 2 TUE devono essere respinti.
La Corte di Giustizia fornisce dei chiarimenti riguardo la portata del principio di solidarietà, contenuto nell’art. 80 TFUE. Secondo la Corte ammettere che uno Stato Membro possa basarsi su una valutazione unilaterale per dichiarare la mancanza di efficacia o il malfunzionamento del meccanismo di ricollocazione e possa, di conseguenza, sottrarsi a qualsiasi obbligo di ricollocazione a esso incombente in forza delle decisioni in esame arreca un pregiudizio al principio di solidarietà alla base delle decisioni in esame. La Corte ricorda che gli oneri derivanti dalle misure temporanee previste nelle due decisioni devono essere ripartiti tra tutti gli Stati Membri, conformemente al principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri. Le eventuali difficoltà di ordine pratico addotte dagli Stati membri orientali devono essere risolte in uno spirito di cooperazione e di fiducia reciproca tra le autorità degli Stati Membri coinvolti nel ricollocamento. La Corte di Giustizia rileva che gli aiuti materiali e finanziari non possono sostituire il ricollocamento dei richiedenti protezione internazionale. Nonostante tali aiuti sono diretti ad allentare la pressione sui sistemi di asilo dei Paesi Membri in prima linea, gli altri Stati Membri sono tenuti a conformarsi agli obblighi di ricollocazione imposti dalle decisioni indipendentemente dalla fornitura di altri tipi di sostegni all’Italia e alla Grecia. In base a queste considerazioni, i giudici europei statuiscono che il presunto malfunzionamento, l’asserita mancanza di efficacia del meccanismo e la proposta di aiuti sostitutivi al ricollocamento non sono motivi validi per consentire agli Stati Membri di sottrarsi alla ricollocazione prevista dalle decisioni 2015/1523 e 2015/1601.
La pronuncia Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca consente alla Corte di Giustizia di garantire l’uniforme applicazione del diritto UE salvaguardando la sicurezza interna e l’ordine pubblico. Tuttavia, tale soluzione non appare sufficiente per risolvere il conflitto politico che contrappone gli Stati Membri orientali, riluttanti al ricollocamento, a quelli meridionali in prima linea nell’emergenza migranti e bisognosi di aiuto. Intrecciandosi con l’emergenza provocata dalla pandemia Covid-19 e la posizione sempre più autoritaria di alcuni Stati membri orientali, la nuova crisi dei richiedenti asilo al confine turco-siriano potrebbe fornire agli Stati Membri un alibi per interpretare rigorosamente l’art. 72 TFUE ed impedire totalmente i ricollocamenti. In tal caso, la Corte di Giustizia dovrà intervenire per chiarire ulteriormente le condizioni in base alle quali questa prerogativa deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’UE e del principio di solidarietà contenuto nell’art. 80 TFUE.


La sentenza HMRC v Dakneviciute della Corte di Giustizia: verso una adeguata tutela della maternità delle lavoratrici autonome nello Stato membro ospitante

La pronuncia del 19 settembre 2019 sul caso C-544/18, HMRC v Dakneviciute (EU:C:2019:761), ha delle importanti ricadute sulla tutela delle cittadine europee lavoratrici autonome che si spostano in uno Stato membro diverso da quello di origine e sono costrette a interrompere la loro attività a causa della gravidanza e del successivo parto. La Corte di giustizia ha statuito che una donna che abbia cessato di esercitare un’attività autonoma a causa delle limitazioni fisiche correlate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo alla nascita del figlio non può essere oggetto di una disparità di trattamento rispetto ad una lavoratrice subordinata in una situazione paragonabile, per quanto riguarda il mantenimento del suo status di lavoratrice autonoma e il relativo diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante. L’unica condizione è che la cittadina europea in questione riprenda l’attività, trovi un’altra occupazione autonoma o impiego diverso entro un periodo di tempo ragionevole dopo la nascita del bambino.
La sig.ra Dakenviciute è una cittadina europea di origine lituana e lavoratrice subordinata nel Regno Unito dal 2011 al 2013. Dopo aver appreso di essere incinta nel dicembre 2013, essa ha deciso di esercitare un’attività di lavoro autonoma fino al 10 febbraio 2015, quando inoltra richiesta per un assegno per individui in cerca di occupazione. In questo lasso di tempo, la cittadina europea di origine lituana osserva un periodo di inattività tra la fine di luglio e quella di ottobre 2014 per le circostanze legate alle ultime fasi della gravidanza e al parto. Dal maggio 2014 in poi la ricorrente percepisce un’indennità di maternità e alla nascita del bambino nell’agosto dello stesso anno presenta una richiesta per un assegno settimanale per figli a carico. Tale domanda è stata respinta con decisione del primo febbraio del 2015 dalle autorità britanniche, poiché ai sensi della normativa nazionale applicabile la cittadina europea non disponeva di un diritto di soggiorno idoneo a soddisfare le condizioni necessarie per poter beneficiare di tale prestazione sociale. Il Tribunale di primo grado del Regno Unito ribalta tale decisione nel settembre del 2015, ma la sentenza viene impugnata dall’amministrazione fiscale e doganale responsabile dell’erogazione del sussidio familiare dinanzi al giudice del rinvio, la sezione ricorsi amministrativi del Tribunale superiore del Regno Unito.
Nel gennaio 2017 il giudice del rinvio chiede alla Corte di giustizia se l’art. 49 TFUE debba essere interpretato nel senso che la cittadina europea che ha cessato di esercitare una attività autonoma a causa difficoltà legate alla conclusione della gestazione e al periodo successivo al parto mantiene lo status di lavoratore autonomo, ex art. 49 TFUE, a condizione che riprenda l’impiego o la ricerca di una occupazione entro un lasso di tempo ragionevole dopo la nascita del figlio.
La Corte di giustizia rileva che per stabilire se la ricorrente possa ottenere il beneficio dell’assegno familiare per figli a carico, è opportuno accertare in via preliminare se tra il luglio 2014 e il febbraio 2015, quando la ricorrente ha cessato e poi ripreso un’attività di lavoro autonomo, essa godesse del diritto di soggiorno ai sensi del diritto dell’Unione nel Regno Unito. Secondo la direttiva 2004/38/CE l’art. 7, paragrafo 3 non prevede che una donna, la quale termini temporaneamente di lavorare a causa delle ultime fasi della gravidanza e del periodo successivo al parto, possa conservare lo status di lavoratore autonomo e il relativo diritto di soggiorno. Tuttavia, nella sentenza Tarola (C-483/17, Neculai Tarola contro Minister for Social Protection, EU:C:2019:309) la Corte ha considerato che l’art. 7, paragrafo 3 della direttiva 2004/38/CE non elenca in modo esaustivo le circostanze in cui un cittadino europeo che ha cessato di essere un lavoratore subordinato o autonomo nello Stato membro ospitante conserva la qualità di lavoratore ai fini del paragrafo 1 lettera a) di tale articolo e il diritto di risiedere collegato a tale status. In più, i giudici europei hanno sottolineato che se una donna deve interrompere l’occupazione subordinata a causa delle problematiche relative al periodo finale della gravidanza e a quello dopo il parto, questo non comporta la perdita della qualifica di lavoratore ex art. 45 TFUE. Riguardo una possibile estensione di tale interpretazione al caso di una persona che esercita un’attività autonoma ex. art 49 TFUE, consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia afferma che l’insieme delle norme di diritto primario dell’Unione relative alla libera circolazione delle persone osta alle misure che potrebbero sfavorire questi cittadini europei dall’esercizio di una attività nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di origine (C-419/16, Sabine Simma Federspiel contro Provincia autonoma di Bolzano e Equitalia Nord SpA, EU:C:2017:997). Una cittadina europea non eserciterebbe il suo diritto di muoversi liberamente nell’UE se rischiasse di perdere lo status di lavoratore autonomo nello Stato membro ospitante nel caso in cui la gravidanza comporterebbe una cessazione dell’occupazione. Da ciò deriva che una cittadina europea che si trovi nelle stesse condizioni della ricorrente deve poter conservare la qualità di lavoratore autonomo ex art. 49 TFUE.
Nella sentenza Florea Gusa (C-442/16, Florea Gusa contro Minister for Social Protection e a, EU:C:2017:1004) la Corte di giustizia ha sottolineato che i lavoratori autonomi e quelli subordinati che si trovano in una situazione di vulnerabilità comparabile quando sono obbligate a cessare la loro attività non possono essere oggetto di un trattamento differenziato per quanto riguarda il mantenimento del loro diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante. In più, l’interpretazione fornita nella sentenza Saint Prix (C-507/12, Jessy Saint Prix contro Secretary of State for Work and Pensions, EU:C:2014:2007) può essere estesa alle lavoratrici autonome. In tale pronucia, la Corte di giustizia ha statuito che una donna che smette di lavorare o di cercare un impiego a causa delle limitazioni fisiche collegate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto mantiene lo status di lavoratore ex art. 45 TFUE, purché essa ritorni al suo lavoro o trovi un altro impiego entro un ragionevole periodo di tempo dopo la nascita di suo figlio.
Tenendo presenti tali rilievi, la Corte di giustizia afferma che le cittadine europee lavoratrici subordinate e autonome in stato di gravidanza si trovano nella stessa situazione di vulnerabilità e per questo devono poter godere della stessa tutela. Tale tesi è rafforzata dall’art. 8, paragrafo 1 della direttiva 2010/41/UE, il quale dispone che gli Stati membri devono adottare le misure necessarie a garantire che alle lavoratrici autonome possa essere concessa un’indennità di maternità sufficiente per poter consentire loro di interrompere l’attività lavorativa in caso di gravidanza o maternità a condizione analoghe a quelle previste per quelle subordinate. Inoltre, il ragionamento della Corte è avvalorato anche dalla disposizione contenuta nell’art. 16, paragrafo 3 della direttiva 2004/38/CE. Se un allontanamento dal territorio dello Stato membro ospitante motivato da un evento importante come la gravidanza o il parto non costituisce un’interruzione del calcolo del tempo necessario all’acquisizione del diritto di soggiorno permanente, secondo la Corte di giustizia le problematiche legate alle ultime fasi della gravidanza e al periodo successivo al parto, che costringono una cittadina europea a smettere di lavorare, non possono comportare per quest’ultima la perdita dello status di lavoratore autonomo.
In base a queste considerazioni, i giudici europei statuiscono che l’art. 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che una cittadina europea che abbia cessato di esercitare un’attività autonoma a causa delle limitazioni fisiche connesse alle ultime fasi della gravidanza e al periodo seguente al parto conserva la qualità di lavoratore autonomo, purché riprenda tale attività o trovi un’altra attività autonoma o un impiego entro un periodo di tempo ragionevole dopo la nascita del figlio.
La sentenza HMRC v Dakneviciute consente alle cittadine europee di mantenere il diritto di risiedere legalmente in uno Stato membro durante la gestazione e il periodo seguente al parto beneficiando delle prestazioni per figli a carico, crediti d’imposta, assistenza per i senzatetto, alloggi sociali e altri sussidi sociali connessi. La pronuncia tutela adeguatamente la posizione delle donne e dei neonati, contrapponendosi energicamente alle argomentazioni del governo del Regno Unito, secondo le quali una donna che non possa esercitare personalmente una attività autonoma a causa di limitazioni connesse alle ultime fasi della gravidanza e al parto potrebbe farsi sostituire temporaneamente da un’altra persona nell’esercizio di tale attività. Nel caso in cui il governo del Regno Unito avesse avuto successo, molte donne avrebbero perso i mezzi di sostentamento in un momento delicato della loro vita. Inoltre, questa sentenza si aggiunge alla Saint Prix, Florea Gusa e Tarola e conferma un rinnovato attivismo della Corte di giustizia verso una maggiore tutela dei cittadini europei che hanno necessità di accedere al welfare dello Stato membro ospitante in un particolare periodo di vulnerabilità. L’auspicio è che tale percorso prosegua e permetta di superare la giurisprudenza reazionaria sviluppata nel filone Dano (C-333/13, Elisabeta Dano e Florin Dano contro Jobcenter Leipzig, EU:C:2014:2358).