La Corte Suprema e la “disincorporation” del diritto all’aborto

The article discusses the reasoning of the U.S. Supreme Court in the Dobbs case, which denied the right to abortion protection under the due process clause of the 14th amendment. After having presented the two leading cases Roe and Casey, the article introduces the different methods of fundamental rights’ incorporation, as experimented in the long-standing case law of the Supreme Court, with the aim to demonstrate that the reasoning in Dobbs is poor and inconsistent with the tenets that govern overruling in Supreme Court's case-law. The dominance of due process traditionalism is contested, based on the wrong interpretation of the role of history and tradition in fundamental rights adjudication.


Egregiously Wrong. Errori e mistificazioni della Corte Suprema nella decisione di disincorporation del diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza

1. Con la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso l’overruling delle sentenze Roe v. Wade (1973) e Planned Parenthood of Southeastern Pennsylvania v. Casey (1992), che avevano ricondotto il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza alla protezione offerta dalla due process clause del 14° emendamento. Conseguentemente, privato del riconoscimento nella Costituzione federale e dello status di diritto fondamentale, il diritto all’aborto perde la speciale protezione offerta dallo strict scrutiny delle corti federali e viene riassorbito nella competenza del legislatore statale, su cui grava il solo limite del più lasco rationality test, tradizionalmente deferente nei confronti della discrezionalità del legislatore.
Per la prima volta nella storia della sua giurisprudenza, la Corte Suprema effettua un’operazione di disincorporation di un diritto fondamentale. A ben vedere, qualcosa di simile era accaduto nel 1937, con West Coast Hotel Co. v. Parrish. In quell’occasione, tuttavia, la Corte aveva deciso di depotenziare la liberty of contract nell’intento di massimizzare la protezione dei diritti dei lavoratori, nell’ambito di quella vasta transizione che avrebbe portato la Corte degli anni ’30 a rivedere i canoni di interpretazione costituzionale consolidatisi durante la Lochner Era, non più coerenti con le esigenze profonde della Nazione. Qui invece la disincorporation del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza non determina un avanzamento apprezzabile di tutele, ma, al contrario, un mero sacrificio dei diritti delle donne.

2. La decisione, già illustrata in questo blog da Chiara De Santis, ha un significato che va ben al di là della pur rilevantissima materia del diritto delle donne all’interruzione volontaria della gravidanza, con le sue vibranti ripercussioni sulla lotta politica a livello statale e nazionale, e con il seguito, molto denso e problematico, di interventi legislativi e giurisprudenziali che essa dischiude. La sentenza si inserisce con ruvidità e in modo grossolano in una dialettica aperta da decenni all’interno della Corte e in dottrina circa l’interpretazione della due process clause del 14° emendamento, modificando in modo determinante il metodo di interpretazione e applicazione del substantive due process che da oltre un secolo guida il processo di emersione dei diritti fondamentali e la loro protezione omogenea a livello federale.
Per comprendere appieno la gravità degli errori e delle mistificazioni che l’opinion di maggioranza implica, occorre chiarire preliminarmente che le sentenze oggetto di overruling avevano effettuato tre operazioni concatenate ma distinte: in primo luogo, esse avevano affermato la fondamentalità del diritto all’aborto, riconducendolo dapprima, in Roe, all’ambito della privacy, a sua volta oggetto della protezione del substative due process in quanto rinvenuta nelle penumbras del Bill of Rights (Griswold v. Connecticut, 1965), quindi, con Casey, alla nozione di liberty, autonomamente interpretata in base alla sua menzione nella due process clause del 14° emendamento; in secondo luogo, le due sentenze avevano affermato l’impossibilità di proteggere tale diritto in modo assoluto, in ragione dell’incombente presenza di diritti dei terzi e di interessi della collettività, con particolare riferimento al diritto alla vita del concepito, che matura ad un certo stadio di sviluppo del feto (fetal viability); conseguentemente, le sentenze avevano individuato dei criteri di bilanciamento tra diritti e interessi coinvolti e delle regole pratiche di accomodamento, utilizzando dapprima lo schema dei trimestri quale linea guida stringente per la legislazione statale (Roe), e sostituendolo, poi, con una più aggiornata identificazione della fetal viability allo scopo di vietare l’imposizione di undue burdens da parte della legislazione statale prima di quella soglia.
Ora, posta di fronte alla legge del Mississippi che individuava nella quindicesima settimana di gestazione il termine oltre il quale la donna non avrebbe più potuto esercitare il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, la Corte Suprema avrebbe potuto stabilire l’overruling dei criteri di bilanciamento e delle regole pratiche stabiliti, da ultimo, da Casey, individuando una nuova regola di bilanciamento, più precisa e più coerente con gli avanzamenti della tecnica medica. Nel fare questo, essa avrebbe potuto altresì ampliare il margine di discrezionalità dei legislatori statali, senza tuttavia far mancare un nucleo di protezione omogenea al diritto all’aborto. Che i precedenti avessero individuato regole di bilanciamento poco accurate (Roe) e poco chiare per corti e legislatori (Casey) è un dato su cui è registrata da sempre una notevole convergenza dottrinale: una nuova regola pratica, potenzialmente più aperta alla discrezionalità dei legislatori statali, sarebbe stata dunque accolta con maggiore benevolenza, ed avrebbe lasciato aperta la ricerca di un punto di mediazione ottimale (in questo senso la concurring di Roberts).
Ed invece la maggioranza della Corte ha deciso di estendere il proprio overruling alle premesse enunciate nei due precedenti, revocando dunque la protezione del 14° emendamento al diritto all’aborto. Nonostante la confusione che l’opinion di maggioranza fa nel motivare il proprio overruling – giacché appunto confonde le premesse teoriche e le regole pratiche individuate nei due casi, nell’intento retorico di intercettare i cinque criteri-guida dell’overruling canonizzati in Janus v. AFSCME (2018) –, il punto cruciale della decisione è dunque quello, contenuto nelle prime pagine della sentenza, in cui si afferma l’erroneità dell’incorporation del diritto all’aborto nella due process clause del 14° emendamento operata in Roe e ribadita in Casey.
La decisione di declassare il diritto all’aborto si basa su una strategia argomentativa tipica degli orientamenti conservatori in tema di incorporation dei diritti fondamentali: secondo la Corte, l’incorporation dei diritti, che implica una consistente riduzione delle prerogative degli stati membri, deve essere operata in base ad un metodo testuale (mediante la selective incorporation dei diritti codificati nel Bill of Rights federale), corroborato da un’analisi storica, che richiede che il diritto incorporato sia deeply rooted in nation’s history and tradition, e belonging to the ordered scheme of national liberties. Il diritto all’aborto, invece, non è codificato nel Bill of Rights federale, né vi è evidenza di un suo radicamento nella storia. Roe e Casey, fondando tale diritto su privacy e liberty avevano fatto uso di metodologie di incorporation sbagliate, giacché tali nozioni sono troppo generiche e prive di concretezza: il loro uso quale fondamento di diritti innominati finisce per estendere, di fatto, la discrezionalità creativa della Corte a detrimento della libertà politica del popolo e dei suoi rappresentanti.

3. Restituendo alla Corte il giudizio riservato a Roe e Casey, ritengo che l’opinion di maggioranza in Dobbs sia egregiously wrong: essa ignora, o finge di ignorare, la varietà dei metodi interpretativi della due process clause che hanno preso forma dalla fine dell’Ottocento, e svaluta elementi testuali della Costituzione federale che invece pretendono efficacia.
Nella giurisprudenza della Corte, i diritti fondamentali protetti dalla due process clause sono stati individuati tanto attraverso la tecnica della selective incorporation dei diritti codificati nel Bill of Rights federale, quanto attraverso il ricorso a tecniche interpretative più libere dai riferimento testuali e storici, come quelle basate sulla interpretazione evolutiva del concetto di liberty protetto dalla due process clause o tramite l’enucleazione del diritto alla privacy, individuato nelle penumbras del Bill of Rights e interpretato come estrinsecazione del valore dell’autodeterminazione individuale: l’applicazione autonoma di liberty quale nozione inclusiva di un nucleo di diritti, appartenenti alla tradizione di Common law o alle prassi delle nazioni civili, ha dato continuità ad un filone interpretativo connesso alla concezione giusnaturalistica, fondativa del costituzionalismo americano (rinvio per considerazioni più diffuse ad un mio lavoro sulla Rivista di Diritti Comparati). Questa metodologia interpretativa della due process clause nasce addirittura prima della definizione della selective incorporation, almeno a partire da Allgeyer v. Louisiana (1897), e si consolida durante la Lochner Era: la stessa sentenza Lochner v. New York fonda il diritto alla libertà contrattuale sulla liberty; più tardi saranno Meyer v. Nebraska (1923) e Pierce v. Society of Sisters (1925) a confermare questa metodologia. In Herbert v. Louisiana si legge che il 14° emendamento protegge quei «fundamental principles of liberty and justice which lie at the base of all our civil and political institutions».
È dunque proprio vero, come ci dice la maggioranza in Dobbs, che la Corte è sempre stata «reluctant» nel fondare nuovi diritti sulla nozione di liberty? Non direi proprio. I precedenti evocati dalla Corte per fondare l’incorporation sul test storico (su tutti Washington v. Glucksberg, 1997, e McDonald v. Chicago, 2000) sono sapientemente selezionati per dimostrare questa tesi: ma negli stessi anni la Corte adottava altre metodologie di incorporation, fondate sul combinato disposto di liberty e equal protection: basta menzionare Lawrence v. Texas (2003). La verità è che nella storia del substantive due process, i due metodi interpretativi, differenti nelle premesse filosofiche ma convergenti negli esiti, si sono sempre alternati, in una dialettica certamente aspra nel confronto tra le opinioni, ma in fin dei conti valorizzante per l’arricchimento del catalogo dei diritti – in un ordinamento costituzionale nel quale, d’altronde, la dinamica del testo è ormai sclerotizzata dall’impercorribilità di fatto del processo emendativo.
Il rigetto di una metodologia interpretativa fondata da oltre un secolo e vitale nell’applicazione di una delle più decisive previsioni costituzionali lascia dunque sconcertati: un’inversione di rotta così brusca avrebbe imposto una motivazione adeguata, anche rispetto al destino dei diritti che fin qui hanno trovato protezione tramite queste tecniche di incorporation. Ed invece il lettore viene guidato in una narrazione mistificatoria della giurisprudenza consolidata in materia di substantive due process, condita da frasi banali, adatte forse a chiacchiere tra amici, come quando ci si dice che la nozione di liberty è troppo ampia per pretendere efficacia. La circostanza che una parola enfaticamente codificata nel testo della Costituzione venga qui sostanzialmente ignorata dovrebbe suscitare stupore proprio da parte di quei giudici che da sempre valorizzano, talora in modo feticistico, il testo normativo: per quanto impegnativa possa essere l’interpretazione del concetto di liberty, la Corte Suprema è chiamata a questo compito, conferendogli un significato giuridicamente definito e congruente con la tradizione giurisprudenziale radicatasi da oltre un secolo.
Si dovrebbe, semmai, prendere atto che l’ampia discrezionalità interpretativa è una condizione inevitabile nel terreno dei diritti fondamentali: la stessa scelta di ricorrere alla tradizione storica come fonte di legittimazione dei diritti non evita problemi di questo genere. Come ci ricorda il dissent di Stevens a McDonald v. Chicago «History is not an objective science, and … its use can therefore point in any direction the judges favor». Rifugiarsi dietro la foglia di fico delle opinioni di giuristi del Medio Evo per nascondere un principio di libertà codificato nella Costituzione e vitale nella prassi giurisprudenziale è sbagliato e fuorviante: si cela a fatica un’opzione culturale reazionaria, orientata alla polarizzazione delle fratture sociali e al rifiuto del pluralismo dell’interpretazione costituzionale.
La sentenza Dobbs è dunque sbagliata e mistificatoria: se è vero che l’unworkability della regola pratica individuata da Casey lasciava spazio per un suo overruling, nella direzione di un diverso criterio di bilanciamento, è altrettanto vero che l’overruling della incorporation del diritto all’aborto non è giustificabile alla luce di alcun canone di Common law; ed anzi, esso rappresenta uno sviamento da una prassi giurisprudenziale ben radicata nell’interpretazione del 14° emendamento.
E sebbene sia inquietante riconoscerlo, l’opinion firmata da Alito è egregiously wrong non solo rispetto al concurring di Roberts, che si muoveva più saggiamente nella direzione di una revisione della regola pratica di bilanciamento di Casey, ma perfino rispetto al violento concurring di Thomas. Per quanto si sforzi di stabilire una linea differenziale tra i casi attinenti alla privacy e alla dignità, dal già citato Lawrence a Obergefell, e il caso del diritto all’aborto, l’opinion di maggioranza non fuga i dubbi circa la precarietà di tutti i diritti la cui protezione è stata riconosciuta tramite tecniche libere di incorporation. Se è l’erroneo metodo della incorporation ad aver determinato l’overruling di Roe e Casey, sono oggi a rischio diversi altri diritti fondamentali che hanno dato forma e voce a quella pursuit of happiness che i Founding Fathers auspicavano per i loro figli.


Il Presidente alla ricerca di una “maggioranza delle idee”. Un’intervista a Vincent Martigny sulla scena politica francese dopo le elezioni

Abbiamo chiesto al prof. Vincent Martigny, docente di Scienze Politiche nell’Università di Nizza e coordinatore del gruppo di ricerca Legis-2022, di analizzare con noi la recente tornata elettorale francese e l’attuale scenario istituzionale.

Prof. Martigny, prendendo in considerazione l’intera fase elettorale svoltasi da aprile a giugno, cosa la ha colpita maggiormente? Siamo di fronte a dei risultati elettorali certamente sorprendenti: per la prima volta da oltre vent’anni un Presidente in carica viene rieletto. Era accaduto in passato, con la rielezione di Chirac nel 2002, ma in un contesto di coabitazione, dunque caratterizzato da una maggiore condivisione dei poteri tra le forze politiche. Al contempo, per quanto paradossale possa sembrare, la posizione del Presidente non è mai stata tanto debole quanto oggi, a causa della sconfitta del partito del Presidente alle legislative. Anche Mitterrand, nel 1988, fu eletto senza che il partito socialista conquistasse una chiara maggioranza parlamentare, ma in quel caso si trattava di pochi voti di scarto; al contrario oggi En Marche ha subito una sconfitta molto severa in termini di seggi.

Come si spiega un calo tanto marcato del consenso elettorale di En Marche? Incide il logoramento prodotto da cinque anni di governo, o si tratta della naturale flessione della parabola di un partito personale, privo di radicamento territoriale? In effetti molto dipende dalla natura di questo partito, privo di radici, che non si è mai realmente dislocato sul terreno. Il partito è nato attorno alla figura di Macron, e ne dipende totalmente. Né Macron ha mai realmente lavorato, in questi anni, per consolidarlo e radicarlo nella società. Ciò dipende, innanzitutto, dalla personalità del Presidente, che preferisce assumere decisioni personali, non frutto di mediazioni con gli apparati. Ma non va dimenticato che il riallineamento della politica francese cominciato nel 2017 non è ancora terminato, e assisteremo a nuovi cambiamenti di attori politici.

Passando al lato dei vincitori, ha suscitato grande interesse l’operazione di Mélenchon, che ha avuto successo nell’impresa di unire le sinistre attorno ad un programma condiviso e connesso agli interessi della società. Si tratta di un mero cartello elettorale o è una strategia destinata a durare? L’unità delle sinistre è stata talmente vantaggiosa in termini di seggi guadagnati che tutto lascia pensare ad una prosecuzione dell’esperimento. D’altronde, le sinistre sono ora chiamate a svolgere il ruolo dell’opposizione: ciò permetterà loro di rafforzare l’unità nella critica al Governo. È vero, tuttavia, che nella storia delle forze politiche che fanno parte della coalizione esistono notevoli divergenze, specie con riferimento alle tattiche parlamentari: la tradizionale responsabilità dei socialisti è molto distante dagli approcci più radicali fin qui perseguiti da France Insoumise.

Rassemblement National ha raggiunto un risultato storico, segno anche di un consolidamento del suo consenso elettorale. È in corso un processo di normalizzazione dell’estrema destra, nella direzione di un suo coinvolgimento nell’arco repubblicano? Rassemblement National sembra in effetti orientato ad abbandonare la sua tradizionale strategia di opposizione radicale, per assumere piuttosto un atteggiamento costruttivo. Nelle sue prime uscite pubbliche dopo le elezioni legislative, Marine Le Pen ha dichiarato che intende ispirarsi a un approccio “repubblicano”. Nella prospettiva di un maggior riconoscimento istituzionale vanno d’altronde anche i recentissimi sforzi per raggiungere degli accordi sugli incarichi all’interno dell’Assemblea Nazionale. Se fosse così, significherebbe che davvero il partito ha tratto un insegnamento dagli errori del passato. Il risultato potrebbe essere quello di una de-demonizzazione dell’estrema destra.

Le strategie politiche delle due maggiori opposizioni ci portano inevitabilmente a ragionare sul percorso di formazione del Governo, che appare molto complesso. Per comprendere l’attuale scenario occorre muovere dal presupposto che Macron non è uomo incline ai compromessi e alle negoziazioni politiche. Questo, unito alle rigide chiusure che si sono registrate nelle consultazioni con i partiti, porta ad escludere l’ipotesi di un governo di coalizione in coabitazione con il Presidente.

Andiamo dunque verso un governo di minoranza, composto da esponenti del solo partito del Presidente? È l’ipotesi più probabile. Esistono, ovviamente, delle alternative: il Presidente potrebbe, per esempio, sciogliere l’Assemblea e indire nuove elezioni; ma tutto lascia pensare che questo non farebbe che rafforzare ulteriormente le opposizioni, e in particolare la destra.

Un governo del Presidente potrebbe tuttavia contare su un sostegno parlamentare limitatissimo. Esistono diverse strategie per aggirare il problema della debolezza del sostegno parlamentare. Il Presidente potrebbe per esempio governare tramite referendum, avvalendosi dei poteri che la Costituzione gli assegna. In questo modo, tuttavia, ci si espone al rischio di pesanti sconfitte: non dimentichiamoci che il referendum in occasioni recenti è stato un amplificatore dell’opposizione popolare. In Francia, ciò è avvenuto per esempio in occasione del referendum sulla ratifica del Trattato costituzionale europeo. Si potrebbe, dunque, costituire un governo di minoranza che possa contare su un appoggio esterno di alcuni partiti più responsabili, come i verdi, i socialisti e i repubblicani. Anche questa ipotesi, tuttavia, sembra oggi impercorribile. L’idea di Macron è piuttosto quella di costruire convergenze puntuali tra le forze politiche in Parlamento, una “maggioranza delle idee” che possa consentire di varare riforme legislative condivise.

Lo scenario prospettato da Macron, tuttavia, sembra esporsi ad un paradosso: proprio nel momento di massima debolezza politica, il Presidente dovrebbe farsi carico di una faticosa opera di tessitura di accordi politici. Questo è il problema con cui Macron si dovrà necessariamente confrontare. La sua legittimazione politica è molto debole in questo momento: gli elettori lo hanno confermato alla presidenza principalmente per scongiurare il rischio di una vittoria di Marine Le Pen, e nelle legislative la crisi del suo consenso è emersa definitivamente. Gli elettori hanno dato un messaggio chiaro: vogliono ridurre l’iper-presidenzializzazione che ha caratterizzato gli ultimi anni di governo.

Non vede il rischio che l’indebolimento della posizione del Presidente si possa ripercuotere sulla coerenza e l’efficacia della linea politica francese sullo scacchiere internazionale, in un momento così critico? Lo escludo. La politica estera è un fronte di convergenza tra le forze politiche piuttosto che di divisione. È vero che sia a sinistra che a destra esistono posizioni critiche sul sostegno all’Ucraina, ma si tratta di minoranze limitate. La gran parte delle forze politiche sostiene la linea di Macron tanto con riferimento al conflitto in Ucraina quanto con riferimento alle politiche europee. E in politica estera alcune importanti decisioni possono essere assunte senza il necessario coinvolgimento del Parlamento: questo potrà aiutare il Presidente in contesti particolarmente critici.


Quale bilanciamento tra i diritti nell’emergenza sanitaria? Due recentissime posizioni di Marta Cartabia e Giuseppe Conte

1. In un contesto emergenziale, come quello che stiamo vivendo, i diritti costituzionali possono essere bilanciati secondo i canoni consueti, nella ricerca di punti di equilibrio pragmatici che tuttavia non possono comportare precedenze logiche e assiologiche e speculari compressioni definitive? Oppure si manifestano spontaneamente delle gerarchie tra diritti, che determinano una pur temporanea sospensione di alcuni diritti a beneficio di altri?
Questa domanda – cruciale per la teoria dei diritti fondamentali nello stato costituzionale, e feconda di implicazioni pratiche rispetto alla valutazione della legittimità delle misure di contenimento con le quali ci stiamo confrontando in queste settimane – ha ricevuto negli ultimi giorni due risposte differenti provenienti dalla Presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia e dal Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte.
Non si tratta, sia chiaro, di una controversia politica. Solo letture superficiali potrebbero vedere in questo confronto un conflitto istituzionale, o messaggi e “avvertimenti” reciproci. Si tratta invece di due posizioni molto profonde e accurate sulla teoria dei diritti e della Costituzione. Molti hanno già letto e hanno ben presenti le dichiarazioni cui mi riferisco. Ma l’autorevolezza dei protagonisti e la qualità e la chiarezza delle rispettive posizioni giustificano una riflessione più approfondita.

2. In occasione della presentazione della Relazione annuale sull’attività della Corte del 2019, lo scorso 28 aprile, Marta Cartabia ha affermato:

«La nostra Costituzione non contempla un diritto speciale per lo stato di emergenza […]. Si tratta di una scelta consapevole. Nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri. La Costituzione, peraltro, non è insensibile al variare delle contingenze, all’eventualità che dirompano situazioni di emergenza, di crisi, o di straordinaria necessità e urgenza […]. La Repubblica ha attraversato varie situazioni di emergenza e di crisi – dagli anni della lotta armata a quelli più recenti della crisi economica e finanziaria – che sono stati affrontati senza mai sospendere l’ordine costituzionale, ma ravvisando al suo interno gli strumenti idonei a modulare i principi costituzionali in base alle specifiche contingenze: necessità, proporzionalità, bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità sono i criteri con cui, secondo la giurisprudenza costituzionale, in ogni tempo deve attuarsi la tutela «sistemica e non frazionata» dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, ponderando la tutela di ciascuno di essi con i relativi limiti. Anche nel tempo presente, dunque, ancora una volta è la Carta costituzionale così com’è – con il suo equilibrato complesso di principi, poteri, limiti e garanzie, diritti, doveri e responsabilità – a offrire alle Istituzioni e ai cittadini la bussola necessaria a navigare «per l’alto mare aperto» dell’emergenza e del dopo-emergenza che ci attende». 

Sono parole che poggiano e sviluppano la costruzione elaborata dalla Corte costituzionale nella sentenza sul caso Ilva (85 del 2013), nella quale la Corte aveva affermato:

«Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona».

Vale la pena ricordare che perfino la notissima sent. n. 15 del 1982 della Corte cost., sebbene tanto gravemente incisiva sul diritto di libertà personale, affermava che «pur in regime di emergenza, non si giustificherebbe un troppo rilevante prolungamento dei termini di scadenza della carcerazione preventiva, tale da condurre verso una sostanziale vanificazione della garanzia».
Nella visione di Cartabia – sembra di capire – la dottrina espressa dalla Corte nel caso Ilva non è dunque revocata a fronte di un contesto emergenziale, perché lo stato di emergenza non può comportare, nel nostro quadro costituzionale, l’accesso a legalità parallele e alternative a quella unitaria della Costituzione. L’emergenza deve, semmai, essere apprezzata come condizione di fatto nella valutazione del giudice delle leggi, il cui giudizio non è condotto in astratto, ma è calato sulla circostanza concreta. Di qui la metafora, di grande eleganza e valore esplicativo, dei diritti costituzionali come «finestre aperte sulla realtà» (in questo senso l’intervista rilasciata al Corriere della Sera, 29 aprile 2020, p. 9).
Come è ovvio, nulla in questa dottrina costituzionale lascia presagire critiche o perplessità sulla legittimità delle misure fin qui adottate per il contenimento del virus, come si è superficialmente voluto fare. Cartabia prospetta invece un metodo di interpretazione costituzionale: le emergenze non possono non rilevare quali elementi di particolare importanza nelle operazioni di bilanciamento, ma non devono inibirlo, schiacciando su un solo polo la necessità di composizione proporzionata tra diritti e interessi della collettività.

3. Intervenendo il 30 aprile alla Camera dei Deputati per l’informativa prevista dal recente Decreto-legge n. 19/2020, Giuseppe Conte ha affermato:

«Il diritto costituzionale – lo ricordo innanzitutto a me stesso – è equilibrio: equilibrio nel rapporto tra poteri, equilibrio nel bilanciamento dei diritti e delle garanzie. Quando – come in questa stagione di emergenza – sono in gioco il diritto alla vita e il diritto alla salute, beni che oltre a vantare il carattere fondamentale costituiscono essi stessi il presupposto per il godimento di ogni altro diritto, le scelte per quanto “tragiche”, come direbbe Guido Calabresi, diventano addirittura obbligate». 

La posizione di Conte prende dunque le mosse dall’esigenza della ricerca di equilibri tra i diritti, richiamando implicitamente il senso del messaggio di Cartabia. Ma alla prospettiva di un equilibrio come metodo incessante egli muove un’obiezione che potremmo definire “contestuale”, ovvero la sussistenza di una situazione emergenziale, e un’obiezione che potremmo definire “sistematica”, ovvero la priorità dei diritti alla vita e alla salute.
L’obiezione “contestuale” poggia su solide premesse teoriche. Senza necessariamente richiamare Carl Schmitt e la figura della «dittatura commissaria», l’idea che crisi ed emergenze giustifichino deroghe alla disciplina costituzionale e ai canoni consolidati di interpretazione ha trovato accoglimento nel diritto internazionale e nelle previsioni di molte carte costituzionali, nelle quali il diritto emergenziale è preordinato alla salvaguardia di interessi primari, e giustifica sospensioni dei diritti fondamentali, salvo le eccezioni previste per i diritti assoluti. A tutto ciò, Conte aggancia l’essenzialità di un’azione orientata al principio di precauzione, che nel suo intervento è più volte richiamato, e a cui egli ha fatto riferimento anche in precedenti interventi.
Anche l’obiezione sistematica ha solide fondamenta. Anzitutto di ordine testuale: si sarà notata l’evocazione della “fondamentalità” dell’art. 32 Cost., che cerca incessantemente una propria identità giuridica. Quindi di ordine logico: la “strumentalità” della vita e della salute rispetto agli altri diritti. Ad ulteriore fondamento di questa tesi potrebbe ulteriormente addursi che – al di là delle gerarchie formalmente imposte dalla Costituzione – vi sono differenze qualitative tra i beni di pregio costituzionale: la compressione di alcuni di questi è definitiva e non ristorabile (la salute e la vita certamente rientrano tra questi), mentre in altri casi la compressione di un diritto non ne determina un sacrificio definitivo. I diritti del primo tipo sono palline di cristallo, molto fragili, mentre i diritti del secondo tipo sono delle palline antistress, che recuperano la loro forma originaria in pochi secondi.
È, questa, una posizione che deve essere peraltro contestualizzata alla luce delle responsabilità politiche di Conte e del Governo in questa fase drammatica della nostra storia. Più in generale, si può leggere sottotraccia la rivendicazione da parte della politica di una posizione che consenta di assumere decisioni anche a fronte di dilemmi che non consentono soluzioni di equilibrio. In questo senso va letto il richiamo alle “scelte tragiche” di cui parla Guido Calabresi. Di fronte a questa difficoltà, la priorità della vita e della salute e le evidenze scientifiche orientate alla «massima precauzione» – cui pure Conte si è richiamato in apertura del suo intervento – hanno evidentemente assolto la funzione di abilitare l’elaborazione dell’azione del Governo.

4. Penso che le due posizioni, pur brevemente richiamate, siano particolarmente efficaci e idonee a favorire un dibattito su un tema di rilievo. E non voglio sottrarmi ad esprimere la mia opinione, seppure nella consapevolezza della complessità di questi temi, nell’auspicio di provocare un confronto più ricco e articolato.
Nella mia prospettiva, il diritto costituzionale incorpora una valutazione circa forme e limiti dei poteri eccezionali e circa il grado di comprimibilità dei diritti individuali anche nelle situazioni di emergenza.
È certamente vero che le Costituzioni non sono codici la cui interpretazione possa svolgersi in modo rigido e formalistico, avendo riguardo alle sole regole ricavate dal testo; esse vanno piuttosto calate nel contesto storico, ed impongono uno sforzo ermeneutico aperto a una pluralità di apporti. E tuttavia, gli uomini si danno delle Costituzioni per garantire principi, diritti ed equilibri istituzionali proprio nei momenti di crisi, quando le tutele dei diritti risultano più esposte ai rischi di arbitrio. Le Costituzioni nascono spesso nel pieno di emergenze straordinarie e in contesti storici del tutto eccezionali; ciò è particolarmente vero per le Costituzioni europee del secondo dopoguerra, che sono state scritte da donne e uomini che conoscevano il significato della povertà, della guerra, delle rivoluzioni, della precarietà. Esse dunque non sono state scritte nella tranquillizzante prospettiva di un futuro senza storia, ma nella pretesa di proteggere le conquiste della nostra civiltà nella consapevolezza della conflittualità e della precarietà della condizione umana.
Questa premessa ha implicazioni rilevanti sul terreno del bilanciamento dei diritti in contesti emergenziali. Le Costituzioni liberal-democratiche rispecchiano il pluralismo sociale che fa da sfondo al costituzionalismo del Novecento: i cataloghi dei diritti che esse incorporano sono «tavole di valori» che impostano e guidano il necessario bilanciamento tra diritti e interessi confliggenti. Al contrario, la difesa unilaterale di beni assoluti e la corrispondente evocazione di un principio costituzionale di sicurezza e prevenzione del rischio – con la sua esaltazione della paura e la pretesa tirannica di sospensione di ogni altro interesse privato e pubblico – sospendono l’impegnativo compito di incessante bilanciamento tra diritti e interessi che le Costituzioni fondano e richiedono ai soggetti chiamati a dare loro sviluppo. Il precautionary constitutionalism ipotizzato nel dibattito statunitense è, in questo senso, un inquietante ossimoro, e l’unico approdo di una applicazione protratta ed unilaterale del principio di precauzione è uno “stato di precauzione”, angosciante deriva a cui le democrazie di massa sono esposte.


Regulating Art, Painting Law. Some Thoughts on J. McCutcheon and F. McGaughey (eds.), Research Handbook on Art and Law, Elgar, 2020

1.The multifaceted relationship existing between law and art has often attracted my attention. I’ve always been fascinated by the complexity and deepness of the problems emerging from the art trials, as well as by the conflict between moral and artistic liberty represented in some landmark cases decided by national and supranational courts, as well as the conflicting values laying at the basis of the regulation of cultural heritage.
In the last years, this deep interest has pushed me toward involving visual artworks in my academic courses. In teaching Comparative Law and Fundamental Rights, I discovered how problematic it is for students who do not possess a good background in modern and contemporary history, which I deem necessary for contextualizing legal issues and developing technical legal skills. In my teaching experience, those requirements are troubled especially for students coming from non-Western Countries, whose knowledge of Western history and culture is still developing. Teaching through the arts offers an alternative way of learning, by involving methodologies that comprise students’ understanding of historical and theoretical problems related to legal theory and practice, in a less information-based teaching method, and rather via fostering critical thinking and active participation. Teaching through the arts represents a perfect example of how interdisciplinarity can improve students’ creativity, innovation and awareness, promoting out-of-the-box thinking, while also maintaining a high standard of technical knowledge.
Despite my effort to engage with this methodology, with all the related research required by mastering such an approach, I have yet to succeed in drawing up a research framework within which I can elaborate upon the relations between art and law.
2.An attempt to lay down a research framework on the relation between art and law is now available thanks to the “Research Handbook on Art and Law”, edited by Jani McCutcheon and Fiona McGaughey (Elgar Publishing, 2020). As the editors, many of the authors work in Australian Universities, although some of them come from other academic environments, mainly European. Moreover, not all of them are law scholars: they are philosophers, scholars of the arts, artists themselves. Due to my attempt to engage with this field of research, I understood the necessity of an intense dialogue between scholars and professionals coming from these different fields: this volume enriches our knowledge of the topic exactly because it accepts the challenge to break the uniformity of the legal culture, engaging itself in communication with the artistic mindset.
The book presents the relation between art and law as a twofold one: the aim of the volume indeed is to explore «how art can challenge, enrich and explain the law in unforeseen ways, and the diverse and complex ways in which the law regulates, interprets and images art» (p. 9).
Following this theoretical premise, the volume is not only focused on the legal regulation of the making, reproduction and dealing in works of art. Of course, it does include studies related to traditional problems – i.e. copyright and intellectual property, cultural heritage, artistic freedom and criminal offences. In dealing with these issues, law and art are often seen as incomparable languages, the former based on rationality and authority, and the latter on creativity and imagination. This bias has affected the viability of exploring a second dimension of the relation between art and law. Therefore, after having provided a wide range of studies dedicated to those traditional fields, the volume discusses how art “sees” law, examining how art represents the law, how art may function as law, and how artists engage with the law, including using law as a way of expression.
The two dimensions of the relation between art and law are both of the utmost interest for legal research.
3.Law regulates art: it regulates the creation, copying, copyright, trading and property of artworks, as well as the status of cultural heritage. It subsidizes artists and art, sometimes “using” them for spreading messages and values. It defines the borders between lawful and unlawful and adjudicates disputes that arise from the “middle ground” that art usually seeks and shapes, thus balancing artistic liberty with individual rights, national security, public order, public morality, religious sensibility, etc.
This legal regulation of art is particularly problematic as art is inherently subversive: it often strives to achieve independence from legal constraints or even reaches its very aim through violation and resistance to legal constraints. Art often conveys irrational emotions and impulsive passions of which the law is, on the contrary, requested to regulate and mitigate in the framework of an ordered community. The outcome of this tension is that art questions the law in a powerful way, shedding new light on legal issues, and allowing us to deepen our knowledge and awareness of law as a whole.
In adjudicating human rights such tremendous issues often come into conflict. Sarah Joseph discusses them in her essay, regarding cases that fell under the umbrella of the International Covenant on Civil and Political Rights and the European Convention on Human Rights. According to the Human Rights Committee’s and European Court of Strasbourg’s case law, artistic forms of expression do not receive enhanced protection compared to any other forms of personal expression. On the contrary, the case law analyzed by Joseph demonstrates the lack of a consistent definition of artistic expression which can guide the balancing of artistic freedom with conflicting values. The outcome is a set of jurisprudence that acknowledges to the states a wide margin of appreciation in adjudicating disputes between art and religion, morality, dignity, etc. Such unsatisfactory conclusions can be explained in the light of the peculiar nature of international jurisdiction, where an overly intrusive assessment of domestic rules balancing artistic freedom with national interests is usually applied with care. However, the confrontation between opinions in the case law demonstrates the difficulty in achieving a legal definition of the very essence of art, and especially a misunderstanding of the provocative and subversive function it performs, triggering processes of awareness and transformations of our societies.
The same subversive function of art is also demonstrated by the problems arising from innovative forms of art, which implore us to rethink the traditional categories applied to property in artworks. The case of street art and graffiti, discussed in Enrico Bonadio’s essay, is a vivid sample of the provocative function art performs, as opposed to public order and morality. Born as a form of rebellion against traditional forms of art and restrictions on artistic freedom, street art and graffiti painted on various urban surfaces give life to a dialectic between removal and preservation. In this dialectic, the rights of artists, the rights of property owners, and the interests of local communities are often conflicted, with the necessity to elaborate new categories useful to achieve a balance.
4.Art paints the law: it looks at law as a dimension of human societies and represents it through images that offer visions of it, often different and alternative to the metaphors and definitions law has created in defining itself. In so doing, art unfolds, with special strength and circumvention through the medium of language, the inherent and persistent ambivalences of law. Such a creative and alternative way of representing law and legal issues offers a more problematic awareness of law and exposes the – mainly formalist – legal canons to a critique rising from the evocative power of images, both abstract and realistic.
Visual art offers, therefore, many metaphors of law and justice, which question the law itself, pushing for self-criticism and self-reform. Ruth Hertz explains how art can improve the practice of law, offering an alternative understanding of legal issues, different from the traditional practical approach based on interpretation and application of rules mediated by language: «The practical way of thinking discourages them from addressing fundamental issues, concerning society and morality in a world where antithetical values live side by side» (p. 286). Notwithstanding the increase of research related to the visual representation of law, «law practitioners are not aware of the immediate connection between law and art and of the ways of introspection into the legal every day» (p. 288). Moving from this assumption, Hertz leads us through a journey in an innovative gallery of paintings and artworks, mainly created by judges and lawyers in strict connection to their professional activity, offering visual metaphors of law and justice that distance themselves from the traditional image of the blindfolded Justice, holding the scaled and a sword, which has typically depicted justice in the western legal culture.
The fascinating and enriching volume edited by McCutcheon and McGaughey is an important contribution in the never-ending effort of law to synchronize with society.


Diritti fondamentali e integrazione federale. Origini, applicazioni e interpretazioni della due process clause nella Costituzione americana

This article analyzes the emergence and the development of the fundamental rights doctrine in the United States, starting with the debates of the revolutionary era up to the recent applications of the due process clause of the 14th amendment in the U.S. Supreme Court’s case law.
The article aims at stressing the essential contribution of the fundamental rights doctrine to the federalizing process of American Nation, encompassing issues such as the supremacy of Supreme Court’s case law over the whole Nation, and the possible cooperation among States’ Constitutional law and the Federal Constitution in the framework of the New Judicial Federalism. Finally, the article provides for hints for a comparison between the American experience and the integration of fundamental rights underway in the European landscape.


Between Judicial Activism and Political Cooperation: The Case of the Canadian Supreme Court

Review of G. Martinico, G. Delledonne, L. Pierdominici, Il costituzionalismo canadese a 150 dalla Confederazione. Riflessioni comparatistiche, Pisa University Press, 2017, and The Constitution of Canada: History, Evolution, Influence, and Reform (Special issue of “Perspective on federalism”, vol 9(3), 2017).


Leggendo Comparative Constitutional Theory, ed. By G. Jacobsohn e M. Schor (Elgar, 2018)

Qual è lo stato di salute della scienza costituzional-comparatistica negli Stati Uniti? I costituzionalisti americani restano ancorati alla centralità della propria esperienza nazionale ed alla fiducia nella forza attrattiva e paradigmatica del costituzionalismo statunitense? Gli studi di Mark Tushnet hanno aperto delle brecce nella granitica convinzione che il judicial review fondato dal Chief Justice Marshall sia sempre e comunque il miglior metodo di protezione dei diritti e della Costituzione? Il lavoro di Michel Rosenfeld ha effettivamente ampliato gli orizzonti della comparazione oltre i tradizionali casi di interesse per gli studiosi americani, usualmente limitati all’America latina e ad altri Stati anglofoni? Le analisi di Vicky Jackson sono riuscite a diffondere la consapevolezza che l’esperienza giuridica statunitense sta vivendo una fase di isolamento ed “eccezionalismo” rispetto alle grandi transizioni dell’esperienza giuridica contemporanea, e che stanno progressivamente plasmando un costituzionalismo globale?
Una rassicurante risposta a queste domande viene ora dall’impegnativo volume “Comparative Constitutional Theory” curato da Gary Jacobsohn e Miguel Schor (Elgar, 2018, 539 pp.). Il volume raccoglie 24 saggi di studiosi provenienti da diversi Paesi e Università, chiamati a confrontarsi con le grandi domande della teoria costituzionale contemporanea, che i curatori nella loro introduzione vedono tutte espresse ed efficacemente sintetizzate nel Federalist.
Benché non manchino saggi dedicati ad ambiti ed esperienze specifiche, come l’America Latina o la Cina, o a temi specifici, come la libertà religiosa o la giustizia di transizione, la gran parte dei contributi converge, pur da differenti prospettive, su alcuni nodi comuni: l’emersione di concetti e tecniche globali che le pratiche di judicial dialogue diffondono oltre i confini nazionali; la problematica saldatura della tensione tra processi democratici e judicial supremacy.
Le dinamiche del costituzionalismo globale vengono analizzate da due saggi in tema, rispettivamente, di dignità (Weinrib) e proporzionalità (Ferreres Comella), che fanno il punto sullo sviluppo di queste nozioni e sulla loro diffusione su scala globale.
La tensione tra representative democracy e judicial supremacy è invece al centro di un numero maggiore di saggi, tra i quali spiccano quelli di Gardbaum e Schor. L’interesse di questi lavori dipende dal distacco critico dei due autori dal modello americano di judicial review, e dalla corrispondente valorizzazione delle sollecitazioni di Jeremy Waldron in tema di difesa della dignity of legislation, della parliamentary sovereignty e di un rinnovato popular constitutionalism. Sulla scia di queste suggestioni, vengono valorizzate le esperienze della Nuova Zelanda dopo l’adozione del Bill of Rights, del Regno Unito dopo l’approvazione dello Human Rights Act, e del Canada dopo l’adozione della Carta dei diritti e delle libertà. L’esperienza canadese, in particolare, è considerata con interesse: pur adottando un sistema di judicial review e pur avendo sviluppato tecniche di interpretazione costituzionale attiviste, anche grazie all’apprendimento comparativo da altre giurisdizioni supreme e costituzionali, la Corte Suprema canadese è inserita in una maglia di vincoli costituzionali (richieste di parere preventivo, la notwithstanding clause) che consentono ai parlamenti nazionale e territoriali di intessere un dialogo con la Corte ed opporre esigenze politiche insopprimibili alle sentenze di incostituzionalità.
Gardbaum e Schor convergono in un’analisi critica della debolezza del judicial review statunitense nel suo rapporto con il Government, ed enfatizzano le virtù dei sistemi di sindacato di costituzionalità che Tushnet ha altrove definito “deboli”: essi riescono, in un approccio dialogico e cooperativo, a favorire convergenze e rimeditazioni delle rispettive posizioni di legislativo e giudiziario, e raggiungono un punto di equilibrio più sofisticato tra istanze individuali di giustizia e valori politici generali (sul punto, v. pure il bel saggio di F. Duranti nel recente volume Ius Dicere in a Globalized World. A comparative overview, Roma TrE-Press, 2018, a cura di A. D’Alessandro e C. Marchese).
Qual è, dunque, lo stato di salute degli studi comparativi negli States? Non mi sento di condividere l’ottimismo dei curatori, che nella loro introduzione parlano di un comparative turn nella scienza giuridica statunitense; ma il volume “Comparative Constitutional Theory” segna alcuni spunti di interesse: esso fa convergere su alcuni temi tradizionali del costituzionalismo americano una massa di esperienze, visioni e riflessioni che prescindono dalla centralità del modello americano, evidenziano un dialogo transnazionale assai variegato e spesso indipendente dal canone statunitense ed enfatizzano un’esigenza culturale di dialogo ed allargamento degli orizzonti della conoscenza giuridica.