Una nuova frontiera del dialogo tra giurisdizioni: la Cassazione rimette alla Corte costituzionale una q.l.c. fondata sul parere consultivo della Corte EDU in materia di GPA

1.Malgrado la mancata ratifica da parte dell’Italia, il Protocollo n. 16 alla CEDU apre nuove possibilità di dialogo anche per le giurisdizioni italiane, sebbene ad esse sia ancora preclusa la facoltà di rivolgersi direttamente al giudice europeo mediante la nuova procedura consultiva.

È quanto emerge dall’ordinanza n. 8325 del 29 aprile 2020, con cui la Prima sezione civile della Corte di cassazione ha rimesso alla Corte costituzionale una questione di legittimità costituzionale in materia di gestazione per altri (GPA) e riconoscimento di atti di nascita stranieri, la cui non manifesta infondatezza è essenzialmente fondata sul parere reso il 10 aprile 2019 dalla Corte EDU su domanda della Cassazione francese.

L’ordinanza di rimessione contesta la costituzionalità degli artt. 12, co. 6, della legge n. 40 del 2004, 18 del d.p.r. n. 396 del 2000 e dell’art. 64, comma 1, lett. g), della legge n. 218 del 1995 nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite, che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento del cosiddetto genitore d’intenzione non biologico nell’atto di stato civile di un minore nato mediante gestazione per altri. Tale lettura ostativa al riconoscimento del provvedimento straniero è dettata, com’è noto, dalla sentenza n. 12193 dell’8 maggio 2019, con la quale le Sezioni Unite hanno sancito che “il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento […] con cui sia accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione […] trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità […] qualificabile come principio di ordine pubblico”. Pertanto, alla luce di tale interpretazione, l’unica possibilità per il riconoscimento del legame tra genitore intenzionale e figlio nato mediante GPA è costituita dall’adozione in casi particolari prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d) della legge n. 184/1983.

Circa un mese prima della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite, era però intervenuto il primo parere reso dalla Corte EDU, su richiesta della formazione plenaria della Cassazione francese che si trovava a decidere una questione analoga. Tale parere (sul quale sia permesso rinviare al nostro commento in questa rivista) stabiliva innanzitutto l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e il genitore intenzionale in nome del superiore interesse del minore e, per quanto attiene alle modalità di tale riconoscimento, ammetteva che esso potesse avvenire attraverso la trascrizione integrale dell’atto di nascita straniero ovvero mediante una procedura di adozione, purché questa soddisfi le condizioni di effettività e celerità che consentano che il legame tra il figlio e il genitore intenzionale possa essere riconosciuto “al più tardi nel momento in cui si è concretizzato”.

I giudici del rinvio ricordano che l’orientamento dettato dalle Sezioni Unite nell’esercizio della loro funzione nomofilattica costituisce il diritto vivente al quale i giudici di sezione, così come i giudici di merito, dovrebbero conformarsi. Essi osservano, tuttavia, che l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo nel parere del 10 aprile 2019 “impone scelte ermeneutiche differenti da quelle adottate dalle Sezioni Unite” ponendosi quindi “in conflitto con il diritto vivente in Italia” (p. 17 dell’ordinanza). Stretti nel dilemma di doversi adeguare all’orientamento espresso dalle Sezioni Unite ovvero procedere ad un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme, e ritenendo di non poter ignorare né l’una né l’altra esigenza, i giudici di sezione scelgono di non rimettere la questione alle Sezioni Unite, come previsto dall’art. 374 co. 3 c.p.c. (“Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”), ma di adire invece la Corte costituzionale affinché essa si pronunci sulla conformità del diritto vivente italiano rispetto ai parametri costituzionali e convenzionali invocati (p. 17-20 dell’ordinanza). Si innesca così un dialogo polifonico al quale partecipano direttamente il giudice del rinvio e il giudice costituzionale e, indirettamente, il giudice europeo e la massima formazione della Cassazione, le cui voci vanno a costituire il diritto vivente, convenzionale e nazionale, di cui la Corte costituzionale dovrà tenere conto.

2.Per quanto attiene al merito dell’ordinanza, il sospetto di incostituzionalità delle disposizioni censurate è fondato su due profili (p. 15-17), per i quali l’orientamento sancito dalle Sezioni Unite si porrebbe in conflitto con l’art. 117 per violazione degli art. 8 CEDU e di diverse disposizioni convenzionali a tutela dell’interesse del minore, nonché con gli articoli 2, 3, 31 e 32 della Costituzione, interpretati anch’essi alla luce della giurisprudenza europea (p. 20-30).

Il primo di tali profili concerne l’elevazione del divieto di GPA a principio di ordine pubblico, con la conseguente impossibilità di legalizzarne gli effetti sullo status filiationis del minore nato mediante tale pratica, che si traduce in un’ingiustificata compressione dei diritti di un soggetto, il minore, che non ha in alcun modo posto in essere la condotta contraria all’ordine pubblico. Parafrasando le parole usate dal giudice europeo nel parere citato, i giudici di legittimità osservano quanto messo in luce da tempo da gran parte della dottrina e da un certo orientamento dei giudici di merito: “se è legittimo che uno Stato parte della Convenzione imponga misure dissuasive nei confronti dei propri cittadini che intendano ricorrere all’estero a forme di procreazione vietate nel proprio territorio, […] tuttavia non è consentito agli Stati di adottare misure che incidano negativamente sulla situazione soggettiva di chi nasce da una gestazione per altri e abbiano l’effetto di negare i diritti inviolabili connessi alla identità personale del minore e alla sua appartenenza al nucleo familiare di origine” (p. 16). Il divieto assoluto di trascrizione, a prescindere da una valutazione concreta caso per caso, è quindi contrario al principio dell’interesse superiore del minore in quanto ha delle ripercussioni giuridiche pregiudizievoli non solo per i genitori, che hanno consapevolmente deciso di incorrere nelle conseguenze giuridiche della loro condotta, ma anche e soprattutto per i figli che di tale condotta non sono responsabili e che si trovano così ad essere sanzionati per le colpe dei loro genitori.

Il secondo profilo di conflitto attiene alla modalità di riconoscimento dello status filiationis prevista dall’ordinamento italiano mediante l’adozione in casi particolari, la quale “non risulta affatto [idonea] a garantire quelle condizioni di celerità e di effettività ritenute dalla Corte di Strasburgo le condizioni imprescindibili per qualificare la modalità alternativa alla trascrizione rispettosa del diritto alla tutela della vita privata e familiare del minore” (p.16). Quanto alle condizioni di celerità, infatti, l’adozione richiede un lungo e complesso iter processuale e decisionale, durante il quale il minore versa in quella situazione di incertezza giuridica sulla sua condizione personale che per la Corte EDU dovrebbe essere il più breve possibile. Ma è soprattutto in relazione all’effettività che l’istituto dell’adozione in casi particolari non soddisfa i requisiti imposti dal parere, in quanto consente un riconoscimento del legame di filiazione non equiparabile all’adozione piena né tantomeno alla trascrizione (p.  31-32). Non possiamo che condividere tali rilievi, che peraltro avevamo avuto modo di muovere in termini analoghi in altra sede.

3.Al di là dei profili di merito, si vuole sottolineare ancora una volta l’importanza assunta dal parere del giudice europeo nell’argomentazione della non manifesta infondatezza della questione. Tutta la motivazione ruota infatti intorno ad esso, assunto sia come elemento che va ad integrare il parametro interposto (3.1), sia come strumento di interpretazione delle stesse disposizioni costituzionali, secondo una tecnica ermeneutica assiologicamente orientata ispirata al pluralismo costituzionale, che postula che le norme a tutela dei diritti sancite nei diversi ordinamenti comunicanti non vanno interpretate secondo criteri di gerarchia, ma si integrano e si completano in via ermeneutica (3.2).

3.1. Il giudice rimettente precisa innanzitutto di non poter prescindere dal parere della Grande Camera della Corte EDU poiché, sebbene esso non abbia efficacia vincolante né per la Francia né per ordinamenti terzi, “costituisce un giudizio astratto teso a chiarire in via preliminare il contenuto delle norme convenzionali, fornendo quindi un ausilio ai giudici nazionali” (p.11). La procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 assolve infatti una doppia funzione pregiudiziale e nomofilattica, andando quindi a spiegare degli effetti quantomeno persuasivi sugli ordinamenti di tutti gli Stati membri della Convenzione. Come precisato dal rapporto esplicativo del Protocollo, infatti, “i pareri consultivi […] andranno a fare parte della giurisprudenza della Corte, insieme alle sentenze e alle decisioni. L’interpretazione della Convenzione e dei suoi Protocolli contenuta in tali pareri consultivi sarà analoga nei suoi effetti ai principi interpretativi stabiliti dalla Corte nelle sentenze e nelle decisioni” (par. 27 del rapporto esplicativo).

L’argomentazione dell’ordinanza in commento appare perciò senza dubbio fondata su tale punto, dal momento che, chiamate a adempiere ad un obbligo di interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata nell’esercizio della loro attività ermeneutica, le giurisdizioni nazionali non possono esimersi dal tenere conto di una pronuncia che, per quanto non giuridicamente vincolante, ha il preciso scopo di chiarire la portata delle norme convenzionali.

3.2.  L’interpretazione data dal giudice europeo a tali norme, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, va d’altronde ad orientare non solo la lettura delle disposizioni convenzionali direttamente oggetto della pronuncia, ma anche delle disposizioni contenute negli altri cataloghi dei diritti di egual tenore che il giudice nazionale si trova a dover applicare in un sistema integrato di tutela dei diritti. Così, nell’ordinanza di rinvio, anche i parametri costituzionali di cui agli articoli 2, 3, 30 e 31 sono interpretati alla luce delle norme convenzionali e, in particolare, della loro portata giurisprudenziale illustrata nel parere citato. Per i giudici della Prima sezione, infatti, la CEDU e la Carta dei diritti dell’Unione europea vanno a formare insieme con la Costituzione “il cosiddetto ordine pubblico costituzionale”, che raccoglie i “diritti fondamentali dell’individuo, manifestazione di valori supremi e vincolanti della cultura giuridica che ci appartiene” (p. 22). Dato il tenore sostanzialmente costituzionale di tali norme, pertanto, qualunque conflitto tra esse – o, melius, tra le interpretazioni ad esse date dai giudici chiamati a svolgere una funzione nomofilattica – non può essere risolto applicando il criterio gerarchico, ma mediante una conciliazione che si avvalga di un’interpretazione integrata e assiologicamente orientata delle stesse.

Ciò non vuole ovviamente dire, come temono alcuni, che la funzione nomofilattica in materia di diritti fondamentali sia definitivamente “esternalizzata” in capo alla Corte europea, ma che la voce del giudice europeo vada a contribuire all’interpretazione integrata delle norme a tutela dei diritti, senza fare appello ad una difficilmente ammissibile gerarchia tra giudici e tantomeno tra norme. Ed è proprio in quest’ottica che la ratifica del Protocollo n. 16 offrirebbe alle più alte giurisdizioni nazionali uno strumento prezioso, che permetterebbe loro di partecipare in maniera diretta, attraverso una forma di dialogo istituzionalizzato, alla formazione della giurisprudenza europea e all’armonizzazione del diritto europeo dei diritti fondamentali nello spazio CEDU.

Nell’ambito della procedura consultiva, infatti, la giurisdizione richiedente è chiamata a presentare “[le] sue considerazioni sulla questione, compresa ogni valutazione che possa aver compiuto della questione” (Rapporto esplicativo, par. 12). In questo modo, una dinamica bottom-up va a sostituire la dinamica up-bottom che caratterizza la formazione della giurisprudenza europea in sede contenziosa e, soprattutto, il modello decisione-sanzione è sostituito da un confronto preventivo improntato alla logica del dialogo, mediante il quale un giudice propone un’interpretazione e l’altro la avalla o ne suggerisce una correzione, senza che per questo il giudice proponente sia sanzionato. Con queste considerazioni non si vuole dare della procedura consultiva una lettura irenica che la elevi, per il suo carattere dialogico, a panacea di tutti i conflitti tra Strasburgo e giudici nazionali. Il concetto stesso di “dialogo tra giudici”, d’altronde, non esclude il conflitto: nell’ambito giudiziario, come nella vita, il dialogo è innanzitutto confronto tra più voci, eventualmente discordanti, ciascuna delle quali vuole affermare la fondatezza della propria posizione. Ma com’è stato giustamente 18, il conflitto può essere benefico, in quanto può servire a pervenire ad una sintesi tra posizioni divergenti, come l’ha mostrato la saga Taricco nella risoluzione del contrasto tra norme costituzionali interne e diritto dell’UE.

Secondo questa prospettiva, la ratifica del Protocollo n. 16 permetterebbe alle alte giurisdizioni italiane di avvalersi della procedura consultiva per proporre una soluzione del conflitto tra diritto vivente italiano e giurisprudenza europea che sia improntata ad un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In mancanza di tale strumento, tuttavia, ora spetta alla Corte costituzionale trovare la soluzione a tale conflitto, non mediante l’applicazione di un criterio gerarchico, ma grazie ad un’interpretazione integrata delle disposizioni costituzionali e convenzionali, alla luce di tutte le voci che hanno partecipato, direttamente o indirettamente, al dialogo sulla questione.


La svolta del processo costituzionale sotto il segno della trasparenza e del dialogo: la Corte finalmente pronta ad accogliere amicus curiae e esperti dalla porta principale

Con un comunicato dell’11 gennaio la Corte costituzionale ha annunciato alcune importanti novità procedurali atte a consentire alla “società civile [di] far sentire la propria voce sulle questioni di costituzionalità”. Mediante una delibera dell’8 gennaio, le Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte hanno infatti subito tre ordini di modifiche, rispettivamente in materia di intervento di terzi, amicus curiae e audizione di esperti.
Per quanto riguarda l’intervento dei terzi, se fino ad oggi l’articolo 4 si limitava a prevedere la possibilità di intervento nel giudizio incidentale da parte di “altri soggetti”, viene codificata la giurisprudenza costante secondo cui tali soggetti devono essere “titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio”. Un nuovo articolo 4-bis va poi a disciplinare “le modalità di accesso agli atti del giudizio da parte dei terzi intervenienti”.
Il nuovo articolo 4-ter aprirà invece “ai cosiddetti amici curiae: soggetti istituzionali, associazioni di categoria, organizzazioni non governative”, prevedendo che “qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, se portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per offrire alla Corte elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso sottoposto al suo giudizio”. Il deposito di amicus curiae costituirà dunque un canale di partecipazione al processo distinto dall’intervento del terzo in senso stretto.
La terza via per la partecipazione della società civile al giudizio è infine rappresentata dall’audizione di esperti, disciplinata dal nuovo articolo 14-bis, che consentirà alla Corte di fare appello a “esperti di chiara fama” per “acquisire informazioni su specifiche discipline” mediante un confronto “in camera di consiglio, alla presenza delle parti del giudizio”.
La presidenza della giudice Marta Cartabia si apre dunque con un importante riassetto del processo costituzionale nel segno dell’apertura e della trasparenza. Sebbene tali novità siano state presentate dalla stampa come una rivoluzione che porta il marchio della neoeletta presidente, esse in realtà sono il risultato di un’evoluzione già avviata da tempo, che esprime la volontà collegiale della Corte di aprire le proprie porte a soggetti diversi dalle parti in grado di dare un contributo al giudizio e, soprattutto, di portare maggiore trasparenza e coerenza su delle prassi poco lineari che avevano fino ad ora caratterizzato l’istruttoria e il processo costituzionale.
I primi segnali di questa evoluzione si erano registrati nel corso dell’ultimo anno e mezzo, se non espressamente nella giurisprudenza (anche se qualche decisione si era parzialmente discostata dalla giurisprudenza consolidata: v. commento su questo blog), in alcune attività interne e esterne della Corte che avevano anticipato il percorso di modifica. Ci riferiamo, in particolare, al provvedimento del 21 novembre 2018 dell’allora presidente Giorgio Lattanzi sull’accesso agli atti da parte dei terzi e al Seminario di studi tenutosi al Palazzo della Consulta il 18 dicembre dello stesso anno, che testimoniano una volontà di trasparenza e dialogo nella riorganizzazione del giudizio costituzionale, nel metodo oltre che nel risultato.
Trasparenza: dal provvedimento del Presidente sulla prassi in materia di intervento alla modifica delle n.i. Mediante una lettera del 21 novembre 2018 indirizzata alla cancelleria (provvedimento definito “anomalo” da attenta dottrina che avrebbe auspicato che una novità di tale portata venisse introdotta mediante “una modifica delle Norme integrative, se non pure della stessa legge 87 del 1953”: v. commento di A. Ruggeri in ConsultaOnline), il Presidente Lattanzi aveva chiesto di mettere fine alla prassi che consentiva l’accesso agli atti della procedura ai terzi che presentassero un’istanza di intervento, prima della decisione sull’ammissibilità dello stesso. Fino ad allora, infatti, la decisione sull’ammissibilità degli interventi veniva pronunciata al momento dell’udienza pubblica o della camera di consiglio sul merito della questione. Nelle more di tale decisone, ai terzi veniva consentito di accedere agli atti, così da poter argomentare, nelle proprie memorie, sia sulla legittimazione del proprio intervento che sul merito della questione in piena conoscenza degli atti della procedura.
Come messo in luce dalla dottrina, tale prassi permetteva che anche gli interventi destinati ad essere dichiarati inammissibili potessero entrare almeno temporaneamente nel giudizio. Ciò aveva favorito l’emergere di una forma ufficiosa di partecipazione, in quanto molti soggetti, in particolare enti portatori di interessi collettivi, continuavano a presentare le proprie memorie di intervento consapevoli del fatto che, malgrado il loro rigetto ufficiale al momento dell’udienza, esse avrebbero avuto modo di essere lette e prese in considerazione, seppur non ufficialmente. La soluzione prospettata dall’allora Presidente consisteva nel consentire al terzo di presentare, in un primo momento, unicamente gli argomenti a sostegno dell’ammissibilità del proprio intervento, prevedendo quindi una riunione in camera di consiglio per decidere su tale istanza e, solo in un secondo momento, consentire l’accesso agli atti esclusivamente ai terzi ammessi.
La codifica agli articoli 4 e 4-bis delle “modalità di accesso al giudizio da parte dei terzi intervenienti” e della previsione che essi possano “eventualmente essere autorizzati ad accedere agli atti del processo costituzionale anche prima dell’udienza” ha dunque il merito di disciplinare definitivamente con chiarezza - e attraverso una fonte normativa apposita - una prassi che si collocava finora in una zona grigia. Per una piena coerenza della riforma nel suo complesso, le n.i. dovrebbero disciplinare anche la fissazione dell’udienza in camera di consiglio ai fini della decisione sull’ammissibilità degli interventi, subordinando all’esito di tale decisione l’accesso agli atti da parte dei terzi, ma è probabile che, sebbene non emerga espressamente dal comunicato, tale previsione sia effettivamente inclusa nella redazione definitiva dei nuovi articoli 4 e seguenti.
Alla categoria più nutrita di terzi non ammessi a intervenire, ovvero gli enti esponenziali portatori degli interessi al centro della questione, fino ad oggi considerati dalla Corte come titolari di “meri indiretti, e più generali, interessi, connessi ai loro scopi statutari” (ord. allegata alla sent. n. 237/2019), viene aperta la nuova via del deposito degli amicus curiae.
La nuova redazione degli articoli 4 e seguenti distingue infatti, come auspicato da parte della dottrina, tra terzo interveniente e amicus curiae accordando loro due statuti processuali distinti in ragione di una differente legittimazione alla partecipazione.
L’intervento dei primi, ammessi sulla base del loro “interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio”, risponde infatti alle esigenze di garanzia del giusto processo e del diritto di difesa, come più volte ribadito dalla stessa Corte che ha fondato sull’articolo 24 Cost. la propria giurisprudenza in materia. Tali terzi acquisiscono perciò uno statuto e poteri processuali analoghi a quelli delle parti. Ai terzi ammessi in qualità di amicus curiae, invece, viene consentito il deposito di memorie, ma non la partecipazione all’udienza. La loro partecipazione infatti non è fondata sul diritto di difesa, ma su una facoltà accordata dal collegio in ragione del contributo che essi possono apportare al giudizio.
Dialogo: il confronto con la dottrina (e con il diritto comparato) nel seminario di studi organizzato dalla Corte costituzionale. La Corte ha mostrato una spiccata volontà di dialogo anche nel metodo di adozione della riforma, che è stata preceduta da un confronto con la dottrina sulle esperienze del diritto comparato. Le modifiche apportate alle norme integrative hanno così potuto trarre ispirazione dalle relazioni e dagli interventi presentati in occasione del seminario su “Interventi di terzi e ‘amici curiae’ nel giudizio di legittimità costituzionale delle leggi, anche alla luce dell’esperienza delle altre Corti nazionali e sovranazionali”, tenutosi al Palazzo della Consulta il 18 dicembre 2018.
La modifica introdotta agli articoli 4 e seguenti, e in particolare l’introduzione dell’art. 4-ter, riprende la soluzione del doppio binario per la partecipazione di terzi e amici curiae, evocata dalle relazioni di Tania Groppi (v. relazione su ConsultaOnLine) e di Giampaolo Parodi, incentrate sul confronto della prassi italiana con alcune esperienze di diritto comparato. Il nuovo articolo 14-bis sull’audizione di terzi esperti sembra invece ispirarsi, oltre che alle procedure in vigore dinanzi alla Corte costituzionale tedesca, alla proposta avanzata dalla relazione di Valeria Marcenò la quale, ritenendo che l’apertura del giudizio risponda più ad un’esigenza di acquisizione di elementi fattuali e informazioni tecniche da parte della Corte che ad una reale esigenza di partecipazione della società civile, suggeriva di formalizzare l’acquisizione di informazioni da parte di esperti, che avviene oggi per lo più attraverso canali informali, prevedendo la possibilità di disporre un’audizione nel corso dell’udienza.
Trasparenza e dialogo nel comunicato dell'11 gennaio. La volontà di trasparenza e dialogo emerge infine con evidenza nella modalità di diffusione data a queste novità procedurali. La Corte, in linea con le sue attuali strategie di comunicazione, ha fatto precedere la pubblicazione delle modifiche alle n.i. sulla Gazzetta ufficiale da un comunicato pubblicato sul proprio sito, destinato alla stampa e, da lì, ad un pubblico molto più ampio di quello composto dagli addetti ai lavori. E l’ha fatto dando un titolo eloquente a tale comunicato – “La Corte si apre all'ascolto della società civile” – volto ad esaltare la volontà di apertura di un organo che – dal Viaggio nelle carceri e nelle scuole, alle novità procedurali qui illustrate e alle altre iniziative di comunicazione – vuole mostrare ai cittadini la propria funzione di garante dei diritti e al contempo rappresentante del corpo sociale in grado non solo di risolvere antinomie giuridiche ma anche di recepire le istanze e gli argomenti della società civile, in un’epoca in cui esso è chiamato sempre più spesso a decidere su questioni che vanno a incidere nella vita quotidiana di tutti noi.
Verso un processo costituzionale più aperto. Cosa cambierà dunque, concretamente, in termini di apertura del giudizio alla società civile all'indomani dell'entrata in vigore di queste modifiche? Sul piano dell’intervento, non ci dovrebbero essere grandi sorprese: dal momento che la riforma va a codificare la giurisprudenza costante, l’unica novità dovrebbe rinvenirsi nel fatto che non dovremmo aspettarci, almeno nel breve termine, oscillazioni dal dubbio fondamento come quelle che, recentemente, hanno consentito l'intervento di alcuni enti esponenziali che non sembravano soddisfare il requisito della titolarità di un interesse qualificato inerente in maniera diretta al giudizio (si vedano gli interventi dell'UCPI, sent. n. 180/2018, e del Consiglio nazionale del notariato, sent. n. 13/2019); tali soggetti potranno oramai essere ammessi, ma mediante il deposito di amicus curiae di cui all'art. 4-ter.
Proprio l’entrata in vigore di quest’articolo costituirà la più grande innovazione in termini di partecipazione, non solo in quanto consentirà la formale ammissione delle memorie sistematicamente presentate da sindacati, associazioni di categoria e di tutela dei diritti che fino ad oggi restavano nelle maglie della fase grigia della procedura, ma soprattutto in quanto potrà suscitare l’effetto di una “chiamata alla partecipazione”, andando così a incrementare il numero di istanze di intervento e la platea di enti esponenziali e soggetti istituzionali che bussano alle porte della Corte.
Pensiamo alle questioni suscettibili di interessare maggiormente la società civile e l’opinione pubblica, dalla procreazione assistita, al fine vita, alla tutela dell’ambiente, etc. L’allargamento della partecipazione su tali questioni va visto senz’altro, ad avviso di chi scrive, come un progresso, in quanto permetterà alla Corte di trattarle in piena conoscenza di fatti, informazioni tecnico-scientifiche e dati statistici presentati da esperti e enti che ben conoscono il contesto applicativo delle norme oggetto di giudizio e, quel che più conta, di farlo nel pieno rispetto della trasparenza e del contraddittorio, così che tali acquisizioni possano espressamente figurare nella motivazione. Se la nostra Corte costituzionale non ha forse bisogno di una rinnovata legittimazione, che le è assicurata dal fondamento costituzionale della sua funzione e dalla sua attività di garante dei diritti nella storia repubblicana, queste modifiche potranno indubbiamente incrementare la legittimazione e l’accettabilità delle sue decisioni, in quanto trasparenza della procedura e completezza della motivazione sono i due strumenti mediante i quali un organo giurisdizionale costruisce la legittimazione della propria giurisprudenza.

NB: La pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale della delibera col testo delle norme modificate è intervenuta il 22 gennaio, quando il presente commento era già stato trasmesso e in attesa di pubblicazione. Esso si fonda perciò sul comunicato e non sul testo integrale delle norme oggetto di riforma, che potete trovare qui di seguito:

https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-01-22&atto.codiceRedazionale=20A00443&elenco30giorni=true

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Prima applicazione della procedura consultiva prevista dal Protocollo n. 16 CEDU: Dalla Corte EDU chiarimenti in chiaroscuro sull’obbligo di trascrizione dei figli nati da GPA

Il 12 ottobre scorso la Cassazione francese è stata la prima giurisdizione europea a richiedere un parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la procedura prevista dal Protocollo n. 16. Tale procedura, improntata ad una logica di dialogo e collaborazione tra giudici nazionali ed europei, consente alle più alte giurisdizioni degli Stati parte della CEDU di richiedere alla Corte di Strasburgo, nell’ambito di una causa pendente dinanzi ad esse, un parere non vincolante sull’interpretazione o l’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione e dai suoi protocolli (art. 1 Protocollo n. 16).
La richiesta formulata dai giudici francesi verteva sull’interpretazione da dare all’art. 8 CEDU circa l’esistenza di un obbligo di trascrizione degli atti di nascita dei figli nati all’estero mediante gestazione per altri (si veda il commento in questo sito).
In passato, infatti, la Cassazione aveva confermato la legittimità del rifiuto di trascrizione dell’atto di nascita di due gemelle nate negli Stati Uniti a seguito di una GPA nell’ambito del progetto genitoriale di una coppia di cittadini francesi, rispettivamente padre biologico e madre intenzionale delle neonate. La vicenda era quindi giunta dinanzi alla Corte EDU, la quale aveva condannato la Francia per violazione dell’articolo 8 CEDU in relazione al rispetto della vita privata delle due figlie, che include il diritto all’identità, al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla nazionalità. A seguito di tale pronuncia, i coniugi e le loro figlie avevano potuto adire, in Francia, la Corte del riesame delle decisioni civili, che aveva quindi rinviato la questione all’Assemblea plenaria della Cassazione. È nell’ambito di tale procedimento che la massima giurisdizione civile francese si è rivolta a Strasburgo.
La Corte di cassazione francese ha posto ai giudici europei diverse domande. Innanzitutto, ha richiesto se il rifiuto “di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un figlio nato all’estero a seguito di una GPA nella parte in cui esso indica come madre legale la madre intenzionale, laddove la trascrizione è invece ammessa nella parte in cui indica quale padre il padre biologico” costituisse una violazione dell’art. 8 CEDU. Ha altresì richiesto se tale valutazione debba tener conto della circostanza che il figlio sia stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale e, in caso di risposta affermativa alla prima domanda, se lo Stato possa rispettare gli obblighi imposti dall’art. 8 consentendo l’adozione da parte della madre intenzionale invece che la trascrizione integrale dell’atto di nascita.
Si noti che la questione verteva unicamente sul riconoscimento del rapporto di filiazione con la madre intenzionale, dal momento che, per conformarsi alla giurisprudenza europea in materia, l’ordinamento francese aveva già iniziato a consentire la trascrizione degli atti di nascita dei figli nati mediante GPA con l’indicazione del padre intenzionale, ove questi fosse altresì il padre biologico.
Il parere reso dalla Corte EDU il 10 aprile 2019, dopo circa 6 mesi dalla richiesta, si articola in due parti, che rispondono all’an e al quomodo della questione e che costituiscono rispettivamente la parte chiara e la parte oscura della pronuncia.
Quanto alla prima (par. 35-47), la Corte dà una risposta affermativa e priva di tentennamenti per quanto riguarda l’an della questione, ovvero l’esistenza di un obbligo di riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale. E lo fa malgrado l’assenza di un consenso europeo sul punto, in nome dell’interesse superiore del minore.
Riferendosi ai propri precedenti Mennesson e Labassee, la Corte osserva infatti che il mancato riconoscimento del legame di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio pone quest’ultimo “in una forma di incertezza giuridica riguardo la sua identità nella società” che può arrecargli dei pregiudizi gravi. Il minore, in particolare, incorre nel rischio di non avere accesso alla nazionalità della madre e, di conseguenza, ad un titolo di permanenza nello Stato di residenza di quest’ultima; può vedere ridotti i propri diritti di successione e non tutelata la propria relazione con la madre in caso di separazione dei genitori o di morte del padre; non è tutelato, infine, nel caso in cui la madre intenzionale si rifiuti di contribuire al suo mantenimento e alle sue cure (par. 40). Pertanto “l’impossibilità generale e assoluta di ottenere il riconoscimento del legame di filiazione tra un figlio nato da una gestazione per altri all’estero e la madre intenzionale non è conciliabile con l’interesse superiore del minore” (par. 42).
Si noti peraltro che, in apertura del proprio ragionamento, la Corte ha ridefinito e circoscritto la questione posta dai giudici francesi, limitandola alla fattispecie oggetto del giudizio, che concerne il rapporto di filiazione tra la madre intenzionale e il figlio concepito grazie ai gameti del padre – biologico e intenzionale – e agli ovociti di una donatrice. Ha quindi lasciato da parte, almeno in un primo momento, la seconda domanda posta dai giudici francesi (che chiedevano se il fatto che il figlio fosse stato concepito o meno con dei gameti della madre intenzionale dovesse essere tenuto in conto), salvo poi rispondervi comunque in poche righe qualche paragrafo più in basso. Alla fine della motivazione sull’an della questione si legge, infatti, che l’esigenza di garantire il riconoscimento del legame tra il figlio e la madre intenzionale, sancita con riferimento al caso in questione, “vale a fortiori” nel caso in cui il figlio sia stato concepito con i gameti della madre intenzionale (par. 47).
Rispondendo ai primi due quesiti posti dai giudici francesi, la Corte chiarisce dunque che, in casi come quello in questione e a prescindere dalla provenienza degli ovuli fecondati, il diritto alla tutela della vita privata garantito dall’art. 8 impone agli Stati di consentire il riconoscimento del legame di filiazione tra il figlio nato mediante GPA e la madre intenzionale indicata nell’atto di nascita estero come madre legale.
Si esclude peraltro che gli Stati possano appellarsi al margine di apprezzamento per sfuggire a tale obbligo. Sebbene, infatti, la motivazione dia atto dell’assenza di un consenso europeo sul punto “malgrado una tendenza a consentire il riconoscimento giuridico del legame di filiazione tra i figli nati da GPA e i genitori intenzionali”, essa ricorda che “quando è in gioco un aspetto particolarmente importante dell’identità di una persona, quale […] la filiazione” il margine di apprezzamento statale è necessariamente ristretto (par. 43-44).
Lo stesso margine ristretto non si applica però al quomodo. È quanto sancisce la Corte nella seconda parte del parere (par. 48-59), che è quella caratterizzata da minore chiarezza.
Per quanto riguarda le modalità di adempimento dell’obbligo derivante dall’art. 8, la Corte afferma che gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento in ragione delle diverse soluzioni offerte dai vari ordinamenti, i quali optano gli uni per la trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori intenzionali, gli altri per l’adozione del figlio da parte del genitore intenzionale non biologico (par. 51). Secondo la Corte, entrambe le modalità possono risultare idonee a tutelare l’interesse del minore, purché permettano che il legame tra il figlio e il genitore intenzionale “possa essere riconosciuto al più tardi nel momento in cui si è concretizzato” (par. 52 e 54).
Ed è qui che la motivazione della Corte si fa poco chiara. Essa afferma infatti che non si può direttamente dedurre, dall’obbligo di riconoscimento del legame tra madre intenzionale e figlio, un obbligo di trascrizione dell’atto di nascita con l’indicazione di entrambi i genitori (par. 50 e 53), dal momento che anche una procedura di adozione può rispondere all’esigenza di tutela dell’interesse del minore (par. 54). Precisa tuttavia che la durata dell’incertezza giuridica nella quale versa il figlio deve essere il più breve possibile (par. 49) e che spetta alle autorità nazionali il compito di valutare concretamente caso per caso che la soluzione offerta dall’ordinamento sia idonea a garantire il riconoscimento effettivo e tempestivo del legame di filiazione legalmente stabilito all’estero.
Ora, se è vero che “ciò che conta è che ci sia un meccanismo effettivo che permetta, secondo la valutazione delle circostanze del caso, il riconoscimento del legame tra figlio e madre intenzionale al più tardi dal momento in cui esso si è concretizzato” (par. 52), difficilmente si vede come una procedura d’adozione, che richiede perlomeno qualche mese, possa soddisfare tale esigenza. Ed infatti, per far salva - almeno in teoria - la possibilità di soddisfare le esigenze dell’art. 8 mediante l’adozione, la Corte sembra considerare tale termine come non perentorio, aggiungendo una condizione temporale ben più vaga quando afferma che “la procedura di adozione può rispondere a questa necessità ove […] le sue modalità di esecuzione permettano una decisione rapida, così da evitare che il minore sia mantenuto a lungo in una situazione di incertezza giuridica quanto al legame [di filiazione]” (par. 54).
Inoltre, con particolare riferimento all’ordinamento francese, la Corte osserva che, sebbene la quasi totalità delle domande di adozione da parte del coniuge del genitore biologico venga attualmente accettata, tale procedura è riservata alle coppie sposate ed è sottoposta ad alcune condizioni, come il consenso della portatrice, che non garantiscono in ogni caso il riconoscimento del legame di filiazione. La Corte demanda dunque ai giudici di valutare caso per caso se l’adozione possa essere sufficiente a garantire il rispetto dell’art. 8.
Sembra perciò evidente che, nelle ipotesi in cui l’adozione non sia consentita dall’ordinamento (con riferimento quindi alle coppie non sposate o, se pensiamo ad ordinamenti diversi dalla Francia, alle coppie unite da un istituto diverso dal matrimonio), i giudici dovranno imporre la trascrizione. Questa soluzione prospettata dalla Corte solleva peraltro un’altra questione cruciale, che non tratteremo in questa sede, che è quella della violazione del principio di uguaglianza tra figli che possano beneficiare della trascrizione integrale del proprio atto di nascita e figli che vedano riconosciuto il proprio rapporto col genitore non biologico unicamente tramite l’adozione, la quale non garantisce loro identiche garanzie.
La valutazione della conformità all’art. 8 CEDU si fa invece più complessa nell’ipotesi in cui l’adozione sia legalmente possibile, poiché i giudici dovranno allora valutare se l’interesse del minore è sufficientemente tutelato con riferimento alle modalità e ai tempi di attesa per la pronuncia definitiva della stessa. Ma quale termine può considerarsi ragionevolmente accettabile prima che un figlio possa legalmente considerare sua madre madre? Per quanto l’incertezza giuridica che lo porta a non avere una madre legale, a non poterne acquisire la nazionalità, a non vedere tutelato il suo rapporto di filiazione, può perdurare senza che l’interesse superiore del minore ne sia pregiudicato?  Il parere della Corte mantiene il riserbo sul punto. Ai giudici, caso per caso, l’ardua sentenza.
Senza voler prematuramente avanzare previsioni generali sui risvolti della nuova procedura introdotta dal Protocollo n. 16, questa prima applicazione consente di formulare alcune considerazioni sul suo utilizzo da parte dei diversi attori coinvolti.
Dalla prospettiva della giurisdizione richiedente, innanzitutto, questa prima richiesta di parere non sembra volta a sciogliere un reale dubbio interpretativo riguardante il caso di specie, ma piuttosto a ottenere un avallo al proprio orientamento giurisprudenziale, a sua volta ispirato alla giurisprudenza europea pregressa. La Cassazione francese, infatti, aveva già modificato la propria giurisprudenza a seguito della condanna pronunciata nei confronti della Francia nel caso Mennesson; essa pertanto, allo stato attuale della giurisprudenza e delle legislazioni europee - e considerato che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva ritenuto soddisfacenti le misure adottate dallo Stato francese e chiuso la procedura di controllo dell’esecuzione delle condanne nei suoi confronti -, avrebbe facilmente potuto ritenere che una soluzione conforme al proprio recente orientamento rispettasse gli obblighi convenzionali. Tuttavia la suprema corte francese mirava verosimilmente ad ottenere una dichiarazione di principio sul fatto che, in ogni caso, l’obbligo di trascrizione riguardasse unicamente il padre biologico.
Il rilievo del parere al di là del caso di specie e la portata oggettiva e generale della procedura sono d’altronde testimoniati dall’interesse manifestato da terze parti: sono infatti intervenuti nel procedimento, come consentito dall’art. 3 del Protocollo n. 16, i governi di tre Stati terzi nonché diversi centri di ricerca e organizzazioni non governative.
La motivazione della Corte EDU, dal canto suo, ha invece cercato di limitare, almeno formalmente, la portata oggettiva della propria pronuncia, rispondendo in maniera piuttosto vaga ai quesiti riguardanti la questione di principio evocata. Sebbene infatti la Corte sottolinei che “[l’]interesse [del parere consultivo] è altresì quello di fornire alle giurisdizioni nazionali delle indicazioni su delle questioni di principio […] applicabili in casi simili”, essa poi, come abbiamo sottolineato, costruisce la propria motivazione intorno al caso di specie. Alle “indicazioni su questioni di principio applicabili in casi simili”, invece, vengono dedicate soltanto tre righe (par. 47), che rispondono in maniera quantomeno insoddisfacente, poiché si limitano a chiarire che l’obbligo di riconoscimento del legame di filiazione sussiste a maggior ragione nei casi in cui il figlio sia stato concepito con ovociti della madre intenzionale, senza però chiarire se in tali casi le modalità di adempimento siano sottoposte allo stesso margine di apprezzamento o se invece l’esistenza di un legame biologico con entrambi i genitori intenzionali abbia per effetto una riduzione del margine e il conseguente obbligo di trascrizione integrale dell’atto di nascita.
In questa prima applicazione della procedura consultiva, dunque, la Corte sembra non volersi far imbrigliare dalla portata oggettiva, per quanto non vincolante, del proprio parere, in favore di un impiego maggiormente concreto che, conformemente agli obiettivi fissati dal Protocollo n. 16 e all’esigenza di celerità di una procedura pregiudiziale, la conduca a formulare risposte puntuali alle questioni circoscritte sollevate dai casi di specie e non a fornire chiarimenti generali sugli obblighi derivanti dalle clausole della convenzione. Soltanto una pratica più consolidata, tuttavia, potrà dirci quale sarà il reale apporto di questo strumento nell’architettura delle relazioni tra giudice europeo e ordinamenti nazionali.


GPA e trascrizione degli atti di nascita:
La Cassazione francese richiede il primo parere consultivo alla Corte EDU

La saga giurisprudenziale francese sulla trascrizione degli atti di nascita dei figli nati all’estero mediante gestazione per altri (GPA) si arricchisce di un nuovo avvincente episodio che non mancherà di destare interesse, nell’osservatore italiano, non solo per la questione di merito – sulla quale si attende la pronuncia delle Sezioni Unite – ma anche per alcuni aspetti procedurali degni di nota nell’ottica del rapporto tra sistemi, all’indomani dell’entrata in vigore del Protocollo n° 16 alla CEDU (non ancora ratificato dall’Italia).
Con la decisione n° 638 del 5 ottobre 2018, la Cassazione francese si è infatti avvalsa per la prima volta della nuova procedura di richiesta di parere consultivo alla Corte europea dei diritti dell’uomo, prevista dal Protocollo n° 16, entrato in vigore il 1° agosto 2018 nei 10 Paesi che l’hanno ad oggi ratificato. E l’ha fatto, inoltre, nell’ambito di un’altra procedura recentemente introdotta nell’ordinamento francese, che consente il riesame di una decisione civile definitiva a seguito di condanna da parte della Corte di Strasburgo.
La vicenda che ha dato luogo al lungo feuilleton giudiziario, che va avanti da oltre 15 anni, prende vita dalla richiesta di trascrizione in Francia dell’atto di nascita di due gemelle nate negli Stati Uniti a seguito di una GPA nell’ambito del progetto genitoriale di una coppia di cittadini francesi, i coniugi X e Y, rispettivamente padre biologico e madre intenzionale delle neonate. L’atto di nascita, che indicava entrambi i coniugi quali genitori, era stato annullato per “contrarietà alla concezione francese dell’ordine pubblico internazionale” (da ultimo, Corte d’appello di Parigi, 18 marzo 2010 e rigetto del ricorso per cassazione, 6 aprile 2011). I coniugi avevano quindi adito la Corte europea dei diritti dell’uomo che, con una decisione del 26 giugno 2014 (Mennesson c. France), aveva condannato la Francia per violazione dell’articolo 8 in relazione al rispetto della vita privata delle due figlie nate da GPA, che include il diritto all’identità, al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla nazionalità.
A seguito della riforma del Codice dell’organizzazione giudiziaria francese ad opera della legge n° 2016-1547 del 18 novembre 2016 (e in particolare dell’emendamento definito “emendamento X” proprio con riferimento al procedimento in questione), i coniugi hanno potuto richiedere il riesame della decisione francese. La loro domanda è stata accolta dalla Corte del riesame delle decisioni civili, che ha quindi rinviato la questione all’Assemblea plenaria della Cassazione. Chiamata a decidere sulla legalità dell’annullamento della trascrizione, l’Assemblea plenaria ha ritenuto che, alla luce delle molteplici pronunce della Corte di Strasburgo degli ultimi anni, la questione non fosse di facile soluzione, in particolare per quanto riguarda il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore non biologico, e ha quindi deciso di rivolgersi a Strasburgo.
In Francia, la GPA è vietata dalla cd. “legge bioetica”, n° 94-653 del 29 luglio 1994, la quale ha inserito nel codice civile le disposizioni che prevedono la nullità e la contrarietà all’ordine pubblico di qualunque convenzione avente ad oggetto una gestazione per conto di altri (art. 16-7 e 16-9 cod.civ). La trascrizione degli atti di nascita formati all’estero è disciplinara dall’art. 47 del codice civile, il quale dispone che un atto di stato civile redatto all’estero fa fede, salvo ove emerga “che tale atto è irregolare, falsificato o che i fatti ivi dichiarati non corrispondono alla realtà”.
Sulla base di questi riferimenti normativi la Cassazione ha in un primo momento considerato che la trascrizione degli atti di nascita di figli nati all’estero mediante GPA fosse contraria all’ordine pubblico internazionale (Cass. 1a sez. civile, 6 aprile 2011) e, in un secondo momento, che essa costituisse una frode alla legge che vieta la GPA (tra le altre, Cass, 1a sez. civ., 13 settembre 2013). Per quanto riguarda poi la possibilità di pervenire al riconoscimento della filiazione mediante adozione, la Cassazione ha mantenuto fino all’anno scorso la propria giurisprudenza, costante sin dagli anni 90, contraria all’adozione da parte del genitore intenzionale del figlio nato mediante GPA.
A seguito delle pronunce della Corte europea che avevano condannato la Francia per la mancata trascrizione dei figli nati all’estero da GPA, in particolare le sentenze Mennesson e Labassée del 26 giugno 2014, la Cassazione francese aveva parzialmente riformato la propria giurisprudenza: con due sentenze del 3 luglio 2015, aveva ritenuto che la conclusione di un contratto di GPA non ostasse di per sé alla trascrizione dell’atto di nascita estero (si ricordi anche la cd “circolare Taubira” del 25 gennaio 2013, con cui l’allora Guardasigilli raccomandava tale interpretazione ai fini dell’attribuzione di un certificato di nazionalità francese ai nati all’estero da GPA). Tuttavia, come rilevato dalla Corte di Strasburgo in un’ulteriore sentenza di condanna nei confronti della Francia, tale giurisprudenza non garantiva alcun riconoscimento del rapporto di filiazione (Corte EDU, Laborie c. Francia, 17 gennaio 2017).
In ossequio a tale giurisprudenza, la massima giurisdizione civile aveva quindi ulteriormente modificato la propria posizione con due decisioni del 5 luglio 2017, nelle quali aveva distinto la posizione del genitore biologico da quella del genitore intenzionale: ne risultava un obbligo di trascrizione parziale dell’atto con l’indicazione della filiazione nei confronti del padre biologico e una conferma invece della legittimità del rifiuto di trascrivere l’indicazione del genitore intenzionale. A quest’ultimo viene tuttavia aperta la via dell’adozione, in riforma della precedente giurisprudenza che faceva del ricorso alla GPA un ostacolo all’adozione del figlio del coniuge.
La posizione espressa dalla Cassazione nella più recente giurisprudenza si fonda, come da essa espressamente affermato, sull’interpretazione data, e condivisa dalla dottrina francese maggioritaria, alle sentenze della Corte di Strasburgo Labassée e Mennesson, che sembra confortata dalla sentenza della Grande Camera Paradiso e Campanelli c. Italia del 24 gennaio 2017. Da esse sembra infatti emergere con chiarezza che l’art. 8 della Convenzione imponga, in nome dell’interesse superiore del minore, il riconoscimento del legame di filiazione col genitore biologico, mentre un tale obbligo non sembra sussistere nei confronti del genitore intenzionale che non abbia alcun legame biologico col figlio.
Ci si sarebbe pertanto potuti aspettare una soluzione al caso di specie in linea con questa giurisprudenza, e tuttavia la formazione plenaria della Cassazione ha preferito dichiararsi incerta circa l’interpretazione convenzionalmente conforme e avvalersi della nuova procedura consultiva. I giudici del Quai de l’horloge hanno quindi richiesto alla formazione consultiva di Strasburgo se lo Stato eccede il proprio margine di apprezzamento “rifiutando di trascrivere sui registri dello stato civile l’atto di nascita di un figlio nato all’estero a seguito di una GPA nella parte in cui esso indica come madre legale la madre intenzionale, laddove la trascrizione è invece ammessa nella parte in cui indica quale padre il padre biologico”. Hanno altresì richiesto se il fatto che il figlio sia stato concepito o meno con dei gameti della “madre intenzionale” debba essere preso in conto e, ove il riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale fosse da considerarsi un obbligo convenzionale, se lo Stato possa non incorrere nella violazione dell’art. 8 della Convenzione consentendo l’adozione da parte della madre intenzionale.
Alla luce della giurisprudenza richiamata, ci sembra che lo scopo di queste interrogazioni non sia tanto - o almeno non solo - quello di evitare, grazie ad una consultazione preventiva, un’ennesima condanna dello Stato francese a posteriori, ma soprattutto quello di dare consacrazione all’interepretazione interna, adeguatamente indicata nella decisione di rinvio, facendo appello alla funzione nomofilattica dei giudici europei.
L’impiego di questa procedura costituisce dunque un esempio di dialogo costruttivo, conformemente all’ambizione e all’aspirazione originaria dello strumento previsto dal Protocollo n° 16 che - giova ricordarlo – prevede l’emanazione di un parere che non è vincolante né per la giurisdizione richiedente né per la stessa Corte di Strasburgo, la quale potrà, se adita successivamente sulla medesima questione in sede contenziosa, discostarsi dal parere reso.
Si nota dunque come, attraverso tale strumento, le corti nazionali non si pongano in una posizione subordinata rispetto alla giurisdizione di Strasburgo, ma possano invece innescare una dinamica orizzontale di collaborazione - o di confronto-scontro secondo i casi - ai fini dell’interpretazione degli obblighi convenzionali. Attraverso tale procedura, che istituzionalizza una forma di dialogo diretto, i giudici nazionali possono infatti partecipare attivamente e formalmente al processo di determinazione degli standard europei di protezione dei diritti garantiti dalla CEDU, invece che esserne i meri recettori.
Come nel caso di specie, il ricorso a questo strumento potrà quindi essere cruciale nella determinazione del margine di apprezzamento statale, affinché questo sia percepito meno come un limite imposto “dall’alto” che come il risultato di una sintesi tra argomentazioni giudiziarie. Ma la dinamica dialogica, nei rapporti tra giurisidizioni come nella vita, non implica solo scambi pacifici, bensì anche conflittuali. Si pensi in particolare alle ipotesi in cui la Corte europea, che fa dell’interpretazione evolutiva uno dei capisaldi della propria giurisprudenza, ritenga opportuno discostarsi dai propri precedenti, nel parere consultivo, per ridurre il margine di apprezzamento precedentemente accordato. Essa potrebbe così scatenare una certa resistenza da parte della giurisdizione nazionale, la quale potrebbe legittimamente scegliere di non adeguarsi al parere, con motivazione adeguata, e preferire incorrere nel rischio di una successiva condanna pur di innescare un dialogo, seppur conflittuale, sulla determinazione del margine.
Se le manifestazioni di disaccordo e i colpi di forza non possono certo essere esclusi, lo strumento ha comunque tutte le potenzialità per favorire una certa armonizzazione oltre che, secondo quella che è l’ambizione principale del Protocollo, una riduzione dei contenziosi. L’epilogo della vicenda francese delle trascrizioni dei nati da GPA, che finora ha dato luogo a un ripetuto botta e risposta tra il Palais des droits de l’homme e il Quai de l’horloge in sede contenziosa, sarà un ottimo banco di prova in tal senso.


Sull’intervento dell’Unione delle Camere Penali nel giudizio di costituzionalità delle norme in materia di astensione degli avvocati: Verso un timido allargamento del contraddittorio agli enti esponenziali?

Il 10 luglio 2018 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla costituzionalità delle norme in materia di astensione dalle udienze da parte dei difensori di persone in stato di custodia cautelare o di detenzione (sent. n. 180/2018).
Nel merito, la Corte ha ritenuto incostituzionale, per violazione dell’art. 13 Cost., la disposizione dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146 nella parte in cui, rinviando al codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, consente l’astensione degli avvocati nei procedimenti e nei processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, con ovvie ripercussioni sulla durata di quest’ultima, stabilendo che il procedimento prosegua malgrado l’astensione dell’avvocato solo ove l’imputato lo richieda espressamente. Limitando la questione alla fattispecie riguardante gli imputati sottoposti a custodia cautelare - e non i detenuti -, la Corte ha sanzionato tale disciplina nella misura in cui essa istituisce una regolamentazione dell’assenso dell’imputato sottoposto a custodia cautelare che ha una diretta ricaduta sul suo stato di libertà, in violazione della riserva di legge stabiolita dall’art. 13 Cost.
Al di là dell’importanza della decisione nel merito, la sentenza è altresì degna di nota per un aspetto procedurale. La Corte costituzionale ha infatti ritenuto ammissibile l’intervento dell’Unione delle Camere Penali Italiane (di seguito UCPI). Se si tratta di una decisione di ammissibilità inedita per l’UCPI (come dalla stessa affermato in un comunicato), essa costituisce altresì una grande novità nella giurisprudenza costituzionale in materia di intervento, tradizionalmente marcata da una tendenza alla chiusura ai terzi.
Per quanto la Corte citi i propri precedenti e si avvalga della tecnica del distinguishing per limitare la portata della decisione e iscriverla così nella continuità della propria giurisprudenza, la decisione segna indubbiamente un importante passo in avanti in materia di ammissione del terzo, e in particolare del terzo portatore degli interessi di una categoria.
Per comprendere appieno la portata della decisione di ammissibilità di quest’intervento, è utile richiamare brevemente la giurisprudenza in materia, che ha visto un’evoluzione articolatasi essenzialemente in tre fasi.
Nel silenzio dei testi normativi, che non avevano previsto alcunché sull’intervento dei terzi, la prima fase, dal 1956 ai primi anni Novanta, è stata caratterizzata da un approccio di chiusura (fatta salva un’eccezione, nel 1982, definita tale dalla Corte stessa), fondato sul principio della corrispondenza formale tra parti del giudizio a quo e parti del giudizio ad quem.
Gli anni Novanta sono stati invece segnati da una fase che potremmo definire sperimentale, nella quale la Corte ha iniziato ad ammettere una serie di eccezioni al principio della non ammissibilità degli interventi, in favore sia di terzi persone fisiche che di organizzazioni sindacali, professionali o religiose. Prima di tutto sono stati ammessi gli interventi di persone fisiche che avrebbero subito direttamente gli effetti della decisione nel giudizio a quo, e la cui ammissione era dunque fondata sul diritto di difesa, in nome del quale “non [si può] ammettere, alla luce dell’art. 24 della Costituzione, che vi sia un giudizio direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive senza che vi sia la possibilità giuridica per i titolari delle medesime posizioni di <difenderle> come parti nel processo stesso” (n. 314/1992). Le fattispecie di ammissibilità degli interventi ricondotte all’esigenza di tutela del diritto di difesa sono state poi enumerate nella motivazione della decisione n. 315/1992, che ha stilato il catalogo delle tre eccezioni fino ad allora riconosciute. Negli anni successivi, tuttavia, la Corte ha esteso il catalogo delle eccezioni al di là delle ipotesi sistemizzate in tale decisione, ritenendo ammissibili degli interventi da parte di enti esponenziali rappresentativi degli interessi di una categoria. In questa fase, mentre gli interventi da parte di associazioni di difesa di diritti non sono mai stati ritenuti ammissibili, la Corte si è invece mostrata più sensibile alle domande di intervento da parte di ordini professionali (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, sent. n. 456 del 1993; Consiglio nazionale forense sent. 171/1996), associazioni di categoria (SIAE, sent. n. 108/1995) o enti rappresentativi degli interessi dei propri membri (Unione delle comunità ebraiche italiane, UCEI, sent. n. 235/1997).
A seguito di questa fase di apertura, caratterizzata da un approccio casuistico e dalla totale assenza di criteri predefiniti di ammissibilità degli interventi, la Corte è sembrata tornare sui propri passi, nel corso degli anni Duemila, e ciò malgrado la codificazione degli interventi del terzo nelle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale in occasione della riforma del 2004. In questa nuova fase di chiusura, le sole eccezioni alla regola dell’inammissibilità degli interventi sono state fondate sul diritto di difesa, essenzialmente in favore di persone (fisiche o giuridiche) la cui sfera giuridica potesse essere direttamente lesa dagli esiti della pronuncia sul giudizio a quo. Come ricordato dalla Corte nella sentenza in commento, “la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo” ma, prosegue la Corte, “a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – quando l’intervento è spiegato da soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura”.
In applicazione di questo adagio, la Corte ha sistematicamente respinto gli interventi da parte di enti esponenziali che chiedessero di prendere parte al giudizio in nome del proprio scopo statutario, volto alla difesa degli interessi coinvolti nel giudizio. Il ventaglio dei gruppi i cui interventi sono stati dichiarati inammissibili va dagli ordini professionali, ai sindacati e agli altri gruppi di categoria, alle associazioni per i diritti civili e ad altri gruppi in difesa dei diritti dei propri membri. La loro funzione di rappresentazione dei diritti di una categoria e l’indicazione della difesa di tali diritti quale scopo statutario non sono ritenuti idonei a fondare l’interesse a intervenire: per la Corte, tali formazioni sociali “non sono titolari di un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia” nella misura in cui “il rapporto sostanziale dedotto in causa concerne solo profili attinenti alla posizione dei soggetti privati parti del giudizio a quo” (Corte cost. n. 76/2016). Laddove il terzo non sia dunque suscettibile di subire direttamente gli effetti della decisione sulla propria situazione giuridica, la circostanza che esso sia un ente esponenziale che indichi la difesa giudiziaria dei diritti di una determinata categoria quale scopo della propria esistenza è considerata un mero interesse fattuale, non giuridicamente qualificato ai fini della partecipazione al giudizio costituzionale. Per quanto riguarda i gruppi portatori degli interessi di una categoria professionale, le uniche eccezioni nelle quali sono stati ammessi sono quelle in cui gli effetti della decisione di costituzionalità sul giudizio a quo avrebbero prodotto degli effetti diretti sulla sfera giuridica degli stessi, o perché l’eventuale annullamento della norma censurata avrebbe rimesso in discussione l’esistenza stessa dell’ente (Corte cost. ord. n. 200/2015) o per l’unitarietà della situazione sostanziale dell’ente interveniente rispetto all’ente parte del giudizio e pertanto ammesso alla medesima procedura (Corte cost. sent. n. 178/2015).
È alla luce di questa giurisprudenza ormai consolidata che la decisione in commento va inquadrata.
Nel caso di specie, la Corte fonda di fatti su di essa l’ammissibilità dell’intervento, insistendo sul rispetto dei propri precedenti e limitando così la portata innovatrice della pronuncia. Osserva infatti la Corte che “la posizione dell’interveniente, pur estranea al giudizio a quo, è suscettibile di restare direttamente incisa dall’esito del giudizio della Corte” poiché “l’interveniente è una delle associazioni che hanno sottoposto alla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati” (par. 4 cons.dir). Seppur ermetica, la motivazione dell’ammissione dell’intervento sembra però celare diversi criteri di ammissibilità che meritano di essere messi in luce.
Ciò che qualifica l’interesse ad intervenire del terzo, e differenzia dunque la sua posizione rispetto a quella di un qualunque ente esponenziale rappresentativo della categoria dei destinatari della norma oggetto, è che la UCPI è coautrice delle norme del codice di autoregolamentazione a cui rinvia la disposizione censurata. Non è tuttavia ben chiaro in che modo la UCPI, in quanto associazione coautrice di tali norme, subirebbe “direttamente e irrimediabilmente” gli effetti della sentenza, dal momento che il codice di autoregolamentazione, una volta ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia, costituisce una vera e propria normativa subprimaria, alla quale sono dunque sottomessi allo stesso titolo tutti i destinatari della legislazione vigente che ad essa rinvia. Il criterio di ammissibilità qui formulato dalla Corte - la partecipazione ad un procedimento finalizzato all’adozione di “una vera e propria normativa subprimaria e non già solo un atto di autonomia privata delle associazioni categoriali” (par. 17) - sembra pertanto costituire un criterio autonomo e alternativo rispetto a quello riservato ai titolari di “un interesse giuridicamente qualificato suscettibile di essere pregiudicato immediatamente ed irrimediabilmente dalla pronuncia”. E si noterà peraltro che tale criterio, così formulato, potrebbe allora trovare applicazione, come suggerito in passato da una parte della dottrina, anche nelle ipotesi in cui gli enti esponenziali intervenienti siano stati coinvolti nella procedura di adozione di un atto normativo, pur senza esserne formalmente gli autori.
La Corte prosegue poi con un’affermazione che sembra celare un ulteriore criterio di ammissibilità, fondato sulla funzione di rappresentanza del terzo. Si legge infatti che “un’eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sul giudizio a quo produrrebbe necessariamente un’immediata incidenza sulla posizione soggettiva dell’UCPI, ente rappresentativo degli interessi della categoria degli avvocati penalisti”. Per quanto nessuna congiunzione leghi in un rapporto di causalità il fatto che la UCPI sia l’ente rappresentativo dei penalisti alla conseguenza che essa subirà necessariamente gli effetti della pronuncia, questa frase suona come un obiter che attribuisce alla funzione di rappresentanza una certa considerazione sul piano della qualificazione della posizione del terzo. Non sarebbe peraltro la prima volta: nella fase di sperimentazione nel corso degli anni Novanta, infatti, la Corte aveva già avuto modo di considerare la funzione di rappresentanza assolta dagli ordini professionali quale elemento da prendere in considerazione nella valutazione dell’ammissibilità dei loro interventi (Corte cost. sent n. 171/1996).
Ci sembra dunque che, sebbene la decisione sull’ammissibilità dell’intervento sia espressamente fondata sulla giurisprudenza consolidata, qualche elemento di novità si possa rinvenire nel criterio della partecipazione al procedimento di adozione di una norma e nella funzione di rappresentanza assolta dal terzo. Elementi che, certo, dovranno trovare conferma in pronunce future e che, se così fosse, potrebbero denotare un timido allargamento delle porte del contraddittorio nel giudizio costituzionale in favore degli enti esponenziali.
Un tale approccio, che va senz’altro accolto con favore nell’ottica di un giudizio costituzionale più aperto e trasparente, potrebbe peraltro non essere circoscritto alle sole associazioni di categoria, ma essere invece esteso a diversi enti esponenziali che, con una certa regolarità, chiedono di intervenire nei giudizi concernenti gli interessi di cui sono portatori.
In un recente studio abbiamo potuto mettere in evidenza l’importanza quantitativa di tali interventi. Malgrado il consolidato approccio di chiusura nei confronti degli interventi da parte di associazioni, sindacati e ordini professionali, questi continuano a bussare alle porte della Consulta ogniqualvolta una questione di costituzionalità è suscettibile di incidere sui diritti e gli interessi di cui sono portatori ben oltre i confini del solo giudizio a quo. Se tali tipi di intervento rappresentavano una minoranza rispetto al totale delle istanze di intervento ricevute dalla Corte fino al 2008, nell’ultimo decennio essi costituiscono il 65% degli interventi depositati, complice la diffusione di tecniche di strategic litigation e il crescente interesse degli enti esponenziali per la promozione dei diritti nell’ambito giudiziario. Ciò siginifica che gli enti esponenziali sono già in qualche modo attori del giudizio costituzionale, a dispetto della loro formale esclusione, e ciò con un evidente vulnus alla trasparenza della procedura, che vede le loro memorie di intervento “entrare” momentaneamente nel giudizio e nella disponibilità dei giudici costituzionali, fino alla dichiarazione di inammissibilità, salvo poi non poter essere formalmente versate agli atti ove dichiarate inammissibili.
Dopo l’occasione persa del 2008, quando la Corte non ha ritenuto di dover modificare la disciplina dell’intervento all’interno della nuova versione delle Norme integrative, è forse venuto il momento di affrontare la questione, quanto meno in via giurisprudenziale. Questa pronuncia potrebbe allora costituire un primo passo in tal senso.


Principio di fraternità e aiuto umanitario ai migranti irregolari: dal Conseil constitutionnel un’importante pronuncia sul “reato di solidarietà”

La decisione del Conseil constitutionnel n° 2018-717/718 QPC del 6 luglio 2018 era delle più attese e, alla luce della sua portata, possiamo dire che le aspettative erano ben riposte: sebbene le richieste dei ricorrenti siano state solo parzialmente soddisfatte, il giudice delle leggi francese ci offre una pronuncia ricca di spunti, che va a incidere sensibilmente sull’impianto della legislazione in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare in un momento in cui la questione migratoria è al centro del dibattito in tutti i paesi europei.
Riconoscendo al terzo elemento del motto della Repubblica francese - Liberté, égalité, fraternité - pieno rango costituzionale, il Conseil constitutionnel ha parzialmente censurato le disposizioni in materia di “aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno irregolari di uno straniero in Francia” (art. 622-1 del Codice dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri e del diritto d’asilo, di seguito CESEDA, secondo l’acronimo francese), affermando che un atto umanitario nei confronti dello straniero irregolarmente presente nel territorio non può costituire reato.
Le questioni prioritarie di costituzionalità (QPC) oggetto della decisione erano sorte nell’ambito di due procedimenti penali che avevavo suscitato un grande clamore mediatico e un’importante mobilitazione da parte della società civile. In uno di essi, in particolare, era stato condannato a quattro mesi di reclusione Cédric Herrou, l’agricoltore che, in qualità di portavoce di diverse associazioni umanitarie operanti nella Valle della Roya, aveva dato ospitalità ad alcuni stranieri in situazione irregolare, diventando così il simbolo del sostegno ai migranti e della lotta contro la politica migratoria alla frontiera franco-italiana. La sua condanna aveva dunque riacceso il dibattito sul cosiddetto “reato di solidarietà”.
Oggetto delle QPC erano infatti gli articoli L. 622-1 e L. 622-4 del CESEDA che configurano rispettivamente il reato di aiuto all’ingresso, alla circolazione e al soggiorno irregolari di uno straniero in Francia e le ipotesi di esclusione dello stesso.
L’articolo L. 622-1 prevede una sanzione di cinque anni di detenzione e di 30 000 euro di multa per chiunque si renda colpevole di favoreggiamento dell’ingresso, della circolazione o del soggiorno di uno straniero in situazione irregolare, al di fuori delle ipotesi scriminanti previste all’articolo L. 622-4. Quest’ultimo enumera infatti le fattispecie di esclusione del reato, applicabili però ai soli atti di aiuto al soggiorno e non all’ingresso o alla circolazione. La sussistenza del reato è innanzitutto esclusa quando l’aiuto al soggiorno è offerto da un familiare (punti n° 1 e n° 2 dell’articolo). In caso invece di aiuto offerto da una persona fisica o giuridica diversa dai familiari, tale atto non costituisce reato solo se “non ha dato luogo ad alcun corrispettivo diretto o indiretto” e purché si tratti “di consulenze giuridiche o di prestazioni di ristoro, alloggio o di cure mediche destinate a garantire allo straniero delle condizioni di vita dignitose e decenti, o di qualunque altro aiuto atto a preservare la dignità o l’integrità fisica dello stesso” (punto n° 3).
Quest’ultima ipotesi di esclusione della fattispecie penale era stata inserita nel 2003 (legge n° 1119 del 26 novembre 2003) per dare attuazione alla cosiddetta “clausola umanitaria” prevista dalla direttiva 2002/90/CE, che lasciava agli Stati la possibilità di non perseguire gli atti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare compiuti a scopo umanitario. Diversi giuristi e varie associazioni e istituzioni avevano allora osservato che la clausola umanitaria codificata all’art. L. 622-4 costituiva un’attuazione a minima della facoltà accordata agli Stati dalla direttiva europea, in quanto, da un lato, limitava la sua applicazione al solo aiuto all’alloggio e, dall’altra, subordinava l’applicabilità della clausola all’assenza di “corrispettivi indiretti” e alla necessità di garantire la “dignità” dello straniero. Dalla vaghezza di queste due nozioni era derivata una giurisprudenza oscillante, che aveva spesso portato all’incriminazione di associazioni senza scopo di lucro per atti cui era stato nondimeno riconosciuto un corrispettivo indiretto o per l’assenza della necessarietà dell’atto al fine di preservare la dignità dell’immigrato (si veda il dossier a cura dell’associazione GISTI, Groupe d’information et de soutien des immigré·e·s: https://www.gisti.org/spip.php?article1399).
Le QPC rinviate ai giudici costituzionali francesi traducono dunque in termini giudiziari le critiche da tempo mosse dal mondo dell’associazionismo umanitario nei confronti di un dettato legislativo che avrebbe per effetto di confondere aiuti umanitari e traffico di migranti. Al fianco dei due principali ricorrenti, Cédric Herrou e Pierre-Alain Manonni, anche lui militante in un’associazione umanitaria, sono di fatti intervenute dinanzi al giudice costituzionale dodici associazioni di sostegno ai migranti, che hanno così portato all’interno del procedimento incidentale gli argomenti di circa quattrocento associazioni signatarie di un manifesto per l’abolizione del reato di aiuto agli immigrati in situazione irregolare (http://www.delinquantssolidaires.org/le-manifeste).
I ricorrenti e le numerose associazioni intervenute sostenevano che le disposizioni citate fossero contrarie ai principi di fraternità e di uguaglianza, nella misura in cui, innanzitutto, non includevano tra le ipotesi scriminanti “qualsiasi atto puramente umanitario che non dia luogo ad alcun corrispettivo diretto o indiretto” e, inoltre, limitavano l’applicabilità delle scriminanti alla sola fattispecie dell’aiuto al soggiorno, escludendo quindi qualunque esenzione per i reati di aiuto all’ingresso e alla circolazione.
La risposta del Conseil può essere riassunta in quattro punti principali.
1) Consacrazione del principio costituzionale di fraternità. Innanzitutto, i Sages riconoscono per la prima volta valore costituzionale al principio di fraternità, incluso nel motto della Repubblica iscritto all’articolo 2 della Costituzione e richiamato altresì dal Preambolo e dall’art. 72-3, che fanno riferimento all’ “ideale comune di libertà, d’uguaglianza e di fraternità”. Il principio di fraternità, secondo i giudici costituzionali, ricomprende “la libertà di aiutare l’altro, a scopi umanitari, a prescindere dalla regolarità del suo soggiorno sul territorio nazionale” (par. 7 e 8). Tuttavia, questa libertà va conciliata con l’obiettivo di ordine pubblico di lotta contro l’immigrazione irregolare, che costituisce un obiettivo di valore constituzionale (par. 9 e 10). Tale premessa consente al Conseil di passare quindi al vaglio la conciliazione operata dal legislatore per valutarne la conformità a Costituzione.
2) Incostituzionalità parziale, nella parte in cui non si estendono all’aiuto alla circolazione le scriminanti previste per l’aiuto al soggiorno. I giudici costituzionali rilevano che il combinato disposto degli articoli precitati non prevede alcuna scriminante per l’aiuto all’ingresso e alla circolazione. Ora, se la limitazione della libertà di aiutare il prossimo in nome della lotta all’immigrazione irregolare appare giusitificata con riferimento agli atti di favoreggiamento dell’ingresso irregolare di stranieri, essa appare invece eccessiva con riferimento all’aiuto alla circolazione dello straniero già presente sul territorio, in quanto tale atto “non ha necessariamente come conseguenza, alla differenza dell’aiuto all’ingresso, di far nascere una situazione illecita” (par. 12). Pertanto, se il reato di favoreggiamento dell’ingresso irregolare, ancorché ispirato a fini umanitari, deve ritenersi costituzionalmente legittimo, esso è invece inconstituzionale nella parte in cui non estende all’aiuto alla circolazione l’applicazione della clausola umanitaria prevista per l’aiuto al soggiono (par. 13).
3) Riserva d’interpretazione volta a includere tra le ipotesi scriminanti “ogni atto a scopo umanitario”. Inoltre, i giudici costituzionali accolgono parzialmente anche l’altro motivo di censura addotto dai ricorrenti, considerando che la formulazione della clausola umanitaria non garantisce in termini chiari e non equivoci il rispetto della libertà di aiutare l’altro, che è da considerarsi una componente del principio di fraternità.
Piuttosto che procedere ad una dichiarazione d’incostituzionalità, tuttavia, i giudici formulano qui una “riserva di interpretazione”, ovvero, attraverso quella che potremmo definire una pronuncia manipolativa di rigetto, propongono l’interpretazione constituzionalmente conforme della norma contestata. Si legge infatti, al paragrafo 14 della decisione, che la lista delle ipotesi di esclusione della fattispecie delittuosa di cui all’art. L. 622-4, per essere conforme al principio di fraternità, dovrà essere interpretata in maniera tale da includere “ogni altro atto di aiuto apportato ad uno scopo umanitario”. Nel rispetto di questa riserva di interpretazione, spetterà ora ai giudici - e, se lo riterrà opportuno, al legislatore in sede di modifica delle disposizioni in vigore - determinare quali atti vadano qualificati come aiuti a scopo umanitario.
4) Effetto differito della dichiarazione di inconstituzionalità e riserva interpretativa transitoria. La dichiarazione d’incostituzionalità delle disposizioni che limitano le scriminanti all’aiuto al soggiorno non ha però effetto immediato. Il Conseil constitutionnel ha preferito differire l’abrogazione della parte della disposizione ritenuta inconstituzionale al 1° dicembre 2018, avvalendosi della facoltà di modulazione degli effetti temporali delle proprie decisioni accordatagli dall’articolo 62 della Costituzione. Per mettere fine all’incostituzionalità con effetto immediato, i giudici costituzionali avrebbero dovuto spingersi oltre il loro ruolo di legislatore negativo, formulando una riserva interpretativa additiva che aggiungesse al dettato legislativo l’applicabilità delle scriminanti con riferimento agli atti di aiuto alla circolazione degli stranieri irregolari. Tuttavia, una tale tecnica decisoria non è propria al giudice delle leggi francese, che è solito adottare un approccio di grande deferenza nei confronti della discrezionalità del legislatore e fa dunque ricorso alle riserve additive solo eccezionalmente e con portata meramente transitoria (ed è questo il caso, si vedrà, anche in questa occasione). I Sages hanno così preferito limitarsi a dichiarare l’incostituzionalità dei termini “al soggiorno irregolare” iscritti all’art. 622-4 che enumera le ipotesi scriminanti, con la conseguenza che tale dichiarazione di incostituzionalità, senza un intervento da parte del legislatore, porterebbe ad estendere l’applicazione delle scriminanti a tutti gli atti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che si tratti dell’ingresso, della circolazione o del soggiorno. Spetta dunque al legislatore, entro il 1° dicembre 2018, riscrivere la disposizione secondo le indicazioni impartitegli da giudice costituzionale (par. 23).
Tuttavia, al fine di conciliare il rispetto nei confronti della discrezionalità del legislatore con l’esigenza di far cessare immediatamente un’incostituzionalità rilevata nell’applicazione della legge penale, i Sages formulano una riserva di interpretazione transitoria, imponendo ai giudici di applicare le ipotesi di esclusione del reato anche agli atti di aiuto alla circolazione “accessoria al soggiorno”, ovvero quando lo straniero è già presente nel territorio (par. 24).
Alla luce di questa riserva transitoria, il differimento degli effetti si riduce ad una questione di forma che riguarda i rapporti tra giudice delle leggi e legislatore, mentre le conseguenze giudiziarie della pronuncia sono immediate e chiare. Il reato di solidarietà continua ad esistere solo con riferimento all’aiuto all’ingresso nel territorio, mentre ogni atto di aiuto all’alloggio o alla circolazione dello straniero irregolare compiuto a scopi umanitari non può più essere penalmente perseguito. E ciò in nome di un principio di fraternità che cessa di essere solo un motto, per assumere il rango di un vero e proprio principio costituzionale di cui il legislatore deve tenere conto non solo nei rapporti fra cittadini, ma anche fra cittadini e stranieri. Per il Conseil constitutionnel dunque “fra i quattro mari, tutti gli uomini sono fratelli”, come recita un bel proverbio vietnamita, e da ciò deriva il diritto di ognuno di comportarsi fraternamente con un altro essere umano senza che la legge lo sanzioni per questo. Così formulato, d’altronde, tale principio non sembra certo essere esclusivo al blocco di costituzionalità francese e estraneo alla tradizione del costituzionalismo europeo. Le riflessioni sulle politiche europee in materia di regolazione dell’immigrazione dovrebbero forse ripartire da qui.


L’adozione in seno ad una coppia omosessuale registra il primo successo davanti alla Corte di Strasburgo: “due padri” o “due madri” non possono essere ritenuti inidonei a crescere un figlio

Con la sentenza che ha deciso il caso X. e altri contro Austria (GC, n° 19010/07, 19 febbraio 2013), la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo fissa un nuovo e saldo principio nella disciplina convenzionale europea delle coppie di persone dello stesso sesso, in relazione alla spinosa questione dell’adozione.

Nella pronuncia in commento, infatti, la Grande Camera ha stabilito, con una maggioranza di dieci voti su diciassette, che l’Austria ha violato, nei confronti dei ricorrenti, l’art. 14 in combinato disposto con l’articolo 8 della Convenzione, a causa della propria legislazione che esclude a priori le sole coppie omosessuali dall’accesso all’adozione, ammettendovi invece le coppie eterosessuali, ancorché non sposate. In assenza «di argomenti puntuali, di studi scientifici o di altri elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omoparentali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», ha osservato la Corte, la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente addotta come giustificazione ad una disparità di trattamento tra coppie eterosessuali e omosessuali nell’accesso all’adozione.

La questione traeva origine dal ricorso presentato nel 2007 da tre cittadini austriaci, due donne unite da una relazione di fatto e il figlio allora dodicenne di una delle due, avverso il rifiuto delle autorità del loro Paese di consentire l’adozione cosiddetta “coparentale” del figlio minore di una delle donne da parte della sua compagna, così da poter ottenere l’esercizio della potestà genitoriale congiunta, a tutela del diritto alla vita familiare di tutti e tre i ricorrenti.

Il rifiuto delle giurisdizioni austriache, dapprima di omologare l’adozione e in seguito di accogliere il ricorso avverso la decisione che dichiarava l’adozione nulla, era fondato sulla legislazione austriaca che consente l’adozione “coparentale” (del figlio del genitore biologico da parte del partner di questo) alle sole coppie eterosessuali.

Tale disciplina sarebbe conseguenza, da una parte, dell’esplicita previsione dell’adozione da parte di un coniuge del figlio biologico dell’altro (art. 179 del Codice civile austriaco) e, dall’altra, delle disposizioni sugli effetti delle adozioni, che prevedono la cessazione dei legami giuridici familiari rispettivamente col padre biologico, in caso di adozione da parte di un padre adottivo, o con la madre biologica, nel caso in cui l’adozione sia compiuta da una madre adottiva (art. 182 § 2). Da quest’ultima disposizione, che palesa l’intenzione del legislatore austriaco di evitare ipotesi di doppia paternità o doppia maternità, la giurisprudenza aveva dedotto l’impossibilità dell’adozione del figlio del partner da parte del convivente omosessuale, nonostante, sempre in via giurisprudenziale, la possibilità di accesso all’adozione coparentale fosse stata estesa alle coppie eterosessuali non sposate. In seguito, al momento dell’introduzione nell’ordinamento austriaco delle unioni civili registrate per le sole coppie omosessuali, il divieto di adozione congiunta e coparentale è espressamente codificato nella legge (art. 8 § 4 della legge sulle unioni registrate).

La Corte, nell’esaminare il ricorso sotto il profilo della violazione del divieto di discriminazione nella garanzia del diritto alla vita privata e familiare, è dunque chiamata ad esaminare non solo se vi sia una disparità di trattamento rispetto alla situazione in questione e quella di una coppia sposata all’interno della quale un coniuge adotti il figlio biologico dell’altro, bensì soprattutto rispetto all’analoga situazione in seno ad una coppia eterosessuale non sposata.

Già nei presupposti del ricorso emerge perciò l’elemento di distinzione rispetto all’unico precedente in tema di adozione in seno ad una coppia omosessuale deciso dalla Corte, ovvero il caso Gas e Dubois c. Francia.

Anche in quel caso le ricorrenti lamentavano l’impossibilità di adozione da parte di una di loro dei figli naturali della compagna (nell’ambito peraltro, a differenza della fattispecie in esame, di un’unione registrata, ai sensi della disciplina francese del PACS), ma, diversamente da quanto lamentato dalle ricorrenti austriache, ciò era dovuto alla negazione da parte del diritto francese di qualunque ipotesi di adozione coparentale al di fuori del quadro matrimoniale. Nella decisione Gas e Dubois sopra richiamata, pertanto, la quinta camera della Corte aveva rilevato l’insussistenza della violazione del divieto di non discriminazione e non aveva perciò avuto modo di addentrarsi nella questione della legittimità del divieto di adozione da parte di coppie omosessuali.

In passato invece, com’è noto, la Corte si era pronunciata più volte sulla questione dell’adozione da parte di un omosessuale (Fretté c. Francia e E.B. c. Francia [GC]), denotando un’evoluzione nel proprio orientamento giurisprudenziale e giungendo ad affermare che laddove sia prevista l’adozione da parte delle persone sole, questa non può essere preclusa ad alcuno sulla base del suo orientamento sessuale (E.B. c. Francia [GC]).

Dal momento che il caso Gas e Dubois concerneva, secondo la Corte, un diniego di adozione non fondato sull’orientamento sessuale delle ricorrenti, mai fino ad ora la Corte si era pronunciata espressamente sul diniego di adozione in seno a coppie omosessuali, trattando così la questione dei “due padri” o delle “due madri”. Il presente caso ha dunque rappresentato l’occasione per tracciare il quadro della situazione sull’omoparentalità.

La Corte osserva, innanzitutto, come vi siano, nel panorama comparato, tre diverse vie che, in maniera differente, possono consentire l’adozione da parte di persone omosessuali (par. 100 e, per un’analisi più dettagliata delle legislazioni europee, si vedano i parr. 55-56 all’interno della parte in fatto).

La prima è quella dell’adozione da parte di persone sole, per effetto della quale, essendo vietata ogni discriminazione nell’accesso all’adozione fondata esclusivamente sull’orientamento sessuale, anche le persone omosessuali possono adottare un figlio. La seconda è quella appunto dell’adozione cosiddetta coparentale, mediante la quale ad un individuo è concesso di adottare il figlio biologico del proprio partner (nell’ambito di un’unione di fatto, registrata o coniugale), affiancando la propria potestà genitoriale così acquisita a quella del partner e pervenendo così ad un esercizio congiunto della stessa, con il figlio che godrà dunque di due legami genitoriali legalmente riconosciuti. La terza, infine, è ovviamente la via dell’adozione congiunta, per la quale una coppia omosessuale può adottare un bambino.

È dopo aver chiarito che il caso in questione rientra evidentemente nella seconda ipotesi che la Corte richiama il proprio precedente sul punto, il caso Gas e Dubois sopra ricordato, osservando le ragioni su cui fonda il distinguishing (par. 104). In quel caso infatti era riscontrabile, a detta della Corte, solo una disparità di trattamento rispetto alle coppie sposate, da ritenersi ammissibile per la costante giurisprudenza che ritiene rientri nel margine di apprezzamento statale la possibilità di regolare i presupposti per l’accesso al matrimonio, nonché di ricondurre allo stesso prerogative escluse ad altri tipi di unioni. Vi sarebbe stata poi una discriminazione soltanto indiretta tra coppie omosessuali registrate e coppie eterosessuali versanti nella stessa situazione, per la possibilità di queste ultime di accedere all’istituto matrimoniale, ove l’avessero desiderato; ma tale ineguaglianza è riconducibile anch’essa alla libertà degli Stati di disciplinare presupposti e contenuti del matrimonio, in particolare escludendo le coppie di persone dello stesso sesso (Schalk e Kopf c. Austria).

Il caso in questione merita invece di essere esaminato sotto il profilo della violazione del divieto di discriminazione (in combinato disposto con la violazione della tutela della vita familiare) per la disparità di trattamento operata tra coppie di fatto eterosessuali e omosessuali (parr. 111 ss.).

La Corte, avendo riscontrato nei fatti oggetto del ricorso una disparità di trattamento sulla base dell’orientamento sessuale a causa dell’impianto legislativo austriaco, mette in atto il proprio test per valutarne la legittimità ai sensi della Convenzione, verificando cioè il perseguimento di uno scopo legittimo, la necessità della misura e la proporzionalità della stessa.

Ora, se è vero che l’obiettivo di salvaguardare la “famiglia tradizionale”, in funzione dell’interesse del minore, impedendo che «questi abbia due padri o due madri dal punto di vista giuridico» (osservazioni del governo, riportate al par. 76) «costituisce in principio un motivo importante e legittimo idoneo a giustificare una differenza di trattamento», bisogna tener conto dell’evoluzione del concetto di famiglia, alla luce dell’interpretazione evolutiva datagli dalla Corte (par. 138-139). Perciò, poiché esistono altri modelli di famiglia che vanno riconosciuti e tutelati, la protezione della famiglia tradizionale dovrà essere perseguita nei limiti della necessarietà e proporzionalità, senza andare a discapito della garanzia minima di tutela di “altri tipi” di famiglia.

La Corte ricorda quindi che, poiché il margine di apprezzamento in materia di disparità di trattamento nel godimento di diritti fondamentali è particolarmente stretto, grava sullo Stato l’onere di provare la necessarietà della misura discriminatoria. Nel caso in questione, viene osservato che, dal momento che il governo non ha addotto «elementi di prova in grado di dimostrare che le famiglie omoparentali non possono in alcun caso occuparsi di un figlio», la supposta inidoneità delle coppie omosessuali a crescere un figlio non può essere legittimamente avanzata come giustificazione della disparità di trattamento tra coppie eterosessuali e omosessuali nell’accesso all’adozione, in nome della tutela della famiglia tradizionale e dell’interesse del minore (par. 142 e 146). Ad abundantiam, la Corte sottolinea poi l’incoerenza del legislatore austriaco che, in caso di adozione da parte di persona sola che conviva con un partner cui è legata da un’unione registrata, impone come requisito necessario per l’adozione il consenso del partner, ammettendo dunque implicitamente che un figlio possa crescere all’interno di un nucleo familiare omoparentale, ancorché non legalmente riconosciuto come tale (par. 144).

Questo è il nodo fondamentale della decisione, perché la Corte si lascia andare ad un’affermazione netta, che segna una svolta importante nella giurisprudenza in tema di omoparentalità: le coppie omosessuali, salvo prova contraria, devono essere riconosciute idonee a crescere un figlio. Si tratta di un’evoluzione giurisprudenziale che risponde fedelmente alla dottrina della Convenzione come “strumento vivo” e che tiene perciò conto dei mutamenti sociali in corso, in particolare nella concezione di “famiglia”.

Com’è spesso avvenuto nell’impervio cammino verso il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e transessuali e di altri diritti ad essi correlati (come, in questo caso, il diritto di un bambino al riconoscimento legale di due genitori), la Corte perviene a quest’evoluzione incastonandola all’interno di un ragionamento che combina diversi principi già di per loro consolidati, arrivando così a trarne un corollario che ha tanto di nuovo, ma che entra in punta di piedi nella giurisprudenza della Corte. La motivazione della Grande Camera, infatti, da un lato ribadisce la giurisprudenza secondo cui la tutela della famiglia tradizionale è un obiettivo legittimo; dall’altro, tuttavia, con un astuto espediente argomentativo, cela tra le pieghe di una pretesa affermazione non innovativa un obiter dictum che ha il vago sapore di overruling: non è legittimo tutelare la famiglia tradizionale a discapito di “altre famiglie”, riconosciute e tutelate dall’art. 8 della Convenzione secondo la sua interpretazione evolutiva.

Lo sforzo di equilibrismo tra innovazione e continuità emerge anche nell’abile (e volutamente ambiguo) uso dell’argomento del margine di apprezzamento e, in particolare, del calcolo del consenso.

Il governo austriaco, in sintonia con le giurisdizioni nazionali che si erano espresse in tal senso, aveva invocato un ampio margine di apprezzamento in materia di unioni omosessuali e adozioni, in  ragione dell’assenza di un consenso europeo.

La Corte respinge tale tesi con due argomenti. Innanzitutto, essa ricorda la duttilità dello strumento del margine di apprezzamento, la cui ampiezza è legata a molteplici fattori, di cui il consenso è solo uno, ma non l’unico né il principale; in particolare, il margine è da considerarsi ristretto «quando un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di un individuo si trova in gioco» (par. 148). Inoltre, valutando nel merito l’obiezione fondata sulla mancanza di un consenso, la Corte osserva come esso vada ricercato non sulla questione generale dell’ammissione dell’adozione da parte di coppie omosessuali nella totalità degli Stati del Consiglio d’Europa, ma sull’ipotesi analoga a quella del caso in esame, ovvero la disparità di trattamento tra coppie omosessuali e eterosessuali nell’accesso all’adozione coparentale. Siffatto consenso, dunque, non può che essere ricercato, nell’opinione della Corte, all’interno di quei dieci Paesi che ammettono l’adozione coparentale in seno a coppie non sposate: di questi, sei equiparano coppie omosessuali e eterosessuali, mentre altre tre, oltre all’Austria, escludono le coppie omosessuali dall’adozione. Una seppur esigua maggioranza, dunque, depone in favore della posizione opposta a quella sostenuta dal governo austriaco; eppure, osserva la Corte, si tratta di un campione troppo ristretto per essere significativo. Il consenso europeo non può dunque venire in aiuto nella determinazione del margine, secondo la Corte, che si lascia perciò guidare dai soli criteri dell’importanza del diritto in questione e della presenza di una discriminazione per trarre la conseguenza che lo Stato debba godere di un margine di apprezzamento ristretto, con le conseguenze sopra prospettate in termini di onere della prova della necessarietà e proporzionalità della misura.

È appena il caso di osservare come emerga ancora una volta, in questa sentenza, che il margine di apprezzamento e il consenso europeo sono invero tecniche argomentative più che strumenti interpretativi. A ben guardare, essi non costituiscono mai i criteri che fondano, in maniera autonoma e sufficiente, la ratio decidendi, ma fungono piuttosto da argomenti impiegati dalla Corte per giustificare una propria interpretazione diversamente costruita, alternando di volta in volta approccio attivista e self-restraint.

Esaurita, per quel che ci pare più rilevante, l’analisi della motivazione, veniamo ora al non detto della decisione o, melius, a ciò che è detto tra le righe e suscettibile di essere valorizzato nella giurisprudenza successiva.

È evidente, innanzitutto, che la sentenza è destinata a spiegare i suoi effetti non solo nell’ordinamento del Paese direttamente condannato, l’Austria, ma anche in quelli che presentino una legislazione analoga e che dovranno perciò adeguarsi alla presente giurisprudenza per porsi al riparo da un’eventuale condanna. Ma ci sembra che gli echi della decisione possano arrivare ben oltre, per quanto la Corte si sforzi di limitare gli effetti della decisione, invocandone il carattere di concretezza e sottolineando che perciò «la Corte non è chiamata a pronunciarsi sulla questione dell’adozione coparentale di per sé, e tanto meno su quella dell’adozione da parte delle coppie omosessuali in generale» (par. 134).

La Corte continua a sostenere la giurisprudenza secondo cui al matrimonio si possono legittimamente ricondurre effetti diversi da quelli previsti per altri tipi di unioni, in particolare per quel che riguarda i diritti e doveri connessi con la filiazione, l’adozione e la procreazione medicalmente assistita. È peraltro ricordato che le questioni attinenti al rapporto di genitorialità sono sempre improntate al principio dell’interesse superiore del minore, il quale deve orientare sia le misure legislative generali e astratte che le applicazioni concrete della disciplina. L’accesso all’adozione, dunque, non è concepito come un diritto, né delle coppie sposate né di quelle non sposate, eterosessuali o omosessuali che siano.

Proprio sotto questo profilo la pronuncia in esame è rivoluzionaria, in quanto si sofferma sull’esigenza di tutelare la vita familiare non solo della coppia, ma anche e soprattutto del minore che con essa va a comporre il nucleo familiare, e il cui interesse non si può considerare leso a priori dal riconoscimento giuridico di due madri. La Corte smonta così quella “presunzione di inidoneità ad adottare” delle coppie omosessuali in funzione dell’interesse superiore del minore, che ha fondato e continua a fondare la maggior parte delle scelte legislative in materia di unioni omosessuali e possibilità di avere dei figli.

Da ciò deriva, ci sembra, che ogni discriminazione legislativa fondata esclusivamente sull’assunto dell’inammissibilità della coesistenza di “due padri” o “due madri” debba ritenersi illegittima, si tratti di adozione o di procreazione assistita. .

E ancora, altri e più ampi interrogativi si aprono: in particolare, come conciliare la legittimità della differenziazione del regime matrimoniale con il divieto di discriminazione delle coppie omosessuali nell’accesso all’adozione davanti ad istituti che si propongano come la declinazione “senza figli” del matrimonio, riservata alle sole coppie omosessuali?

Ci sembra allora che tale decisione possa avere conseguenze interessanti anche per quanto riguarda quegli ordinamenti (come la Germania o la stessa Austria, in seguito all’adozione, nelle more del presente ricorso, della legge sulle unioni civili riservate alle coppie omosessuali), che hanno istituito un istituto analogo al matrimonio per le sole coppie omosessuali, con l’unica differenza sostanziale nel regime della filiazione, dell’adozione e della procreazione assistita. Premesso che la disparità di trattamento vietata dalla Convenzione sussiste solo tra situazioni analoghe, non sono forse da ritenere “analoghe” le situazioni in cui versano coppie legate da istituti analoghi in tutto fuorché sotto l’aspetto della possibilità di avere figli legalmente riconosciuti (e del nomen “matrimonio”)? È legittima la scelta del legislatore di escludere le coppie omosessuali dal matrimonio con il solo obiettivo di non consentire la crescita di un figlio con due padri o due madri, dopo che la Corte ha stabilito che le coppie omosessuali non possono essere ritenute inidonee e che pertanto la loro supposta inidoneità a crescere dei figli non può costituire un legittimo motivo di discriminazione? Ed è legittima, nell’interesse superiore del minore, la scelta di escludere le coppie registrate dall’accesso all’adozione, specialmente laddove l’adozione da parte dei single sia invece ammessa, preferendo così riconoscere al minore un solo genitore piuttosto che due genitori dello stesso sesso?

Tali interrogativi rischiano di diventare ben presto meri esercizi intellettuali, davanti alle evoluzioni che, in quegli Stati che hanno iniziato anni addietro ad aprire al riconoscimento delle coppie omosessuali, ne stanno modificando lo statuto, eliminando gradualmente le differenze tra queste e le coppie eterosessuali sposate, così che a breve la varietà dei regimi giuridici in materia sarà ridotta a due: quelli che riconoscono le famiglie fondate su coppie omosessuali e quelli che, come ad oggi l’Italia, non le riconoscono, se non in qualche sentenza lasciata lettera morta.

Ma è indubbiamente verso il riconoscimento che muove la tendenza europea, nonostante i numeri mostrino ancora lontana la formazione di un consenso. Intendendo letteralmente per tendenza «la direzione in cui evolve un fenomeno», è innegabile che dai primi anni Duemila si assista ad una graduale evoluzione dello statuto delle coppie omosessuali che, seppur con percorsi lenti e  variegati, non ha mai subito battute d’arresto, e non sembra destinata a subirne soprattutto ora che, in un momento di crisi, i governi europei stanno riscoprendo i diritti civili grazie alla loro natura di “diritti che non costano”.


Se la proposta di legge è “a lunga conservazione”: il Senato francese approva un’altra loi memorielle, votata dall’Assemblea nazionale oltre dieci anni prima

L’8 novembre il Senato ha approvato la proposta di legge (T.A. n° 23, entrato in vigore a seguito della decisione del Conseil constitutionnel come Legge n° 2012-1361 del 6 dicembre 2012), avente ad oggetto l’istituzione di una giornata commemorativa delle vittime della guerra d’Algeria, approvata dall’Assemblea nazionale il 22 gennaio 2002.

La proposta di legge “relativa al riconoscimento del 19 marzo quale giornata nazionale di ricordo e di raccoglimento in memoria delle vittime civili e militari della guerra d’Algeria e dei combattimenti in Tunisia e in Marocco”, composta da due soli articoli che proclamano la giornata della memoria (art. 1) e ne fissano la data (art. 2), è stata deferita al Conseil constitutionnel da oltre 60  senatori e da oltre 60 deputati, che ne hanno contestato la costituzionalità tanto sotto il profilo procedurale quanto nel contenuto.

Per quanto riguarda le contestazioni relative al merito della legge, essa presenta gli stesse profili di criticità propri di tutte le lois memorielles, concernenti il problema della consacrazione legislativa di un fatto storico (sul punto, si veda, in questa stessa sede, il post di I. Spigno “Ancora sulle lois memorielles: la parola del Conseil constitutionnel sull’antinegazionismo”, pubblicato il 19 marzo 2012).

Infatti, la legge sceglie come giornata della memoria il 19 marzo, anniversario degli accordi di Evian, definendolo come il giorno del “cessate il fuoco” in Algeria. Tuttavia, è fortemente contestato che tale data abbia sancito l’inizio della transizione verso la pace in Algeria, dal momento che proprio i tre mesi successivi al cessate il fuoco hanno rappresentato il periodo più sanguinoso nel conflitto algerino. Infatti, nell’intervallo di tempo trascorso tra gli accordi di Evian del 19 marzo 1962 e il referendum sull’indipendenza dell’Algeria, l’Organisation de l’armée secrète (OAS), gruppo clandestino che riuniva la resistenza francese che si opponeva ai ribelli algerini, tentò di sabotare la tregua ottenuta dal Fronte di liberazione nazionale algerino (FLN) dando luogo ad una violenta stagione di attacchi terroristici.

La data del 19 marzo è perciò contestata, soprattutto dalle associazioni dei rimpatriati, dei cosiddetti “piedi neri” (gli “europei” d’Algeria) e degli harkis (i musulmani d’Algeria arruolati tra le fila dell’esercito francese), per i quali il 19 marzo ha segnato una sconfitta o, se non altro, un peggioramento della loro situazione e un inasprimento del conflitto. Per questo motivo nel 2003, in occasione dell’emanazione di un’altra loi memorielle in omaggio ai caduti francesi in Algeria, si era scelta la data del 5 dicembre come giorno della memoria, in ricordo del 5 dicembre 2002, giorno dell’inaugurazione del memoriale dedicato ai soldati francesi e harkis uccisi in Algeria.

Per queste ragioni, nel ricorso proposto dai soli deputati veniva contestata, oltre alla procedura, l’assenza di portata normativa della legge e la violazione dei limiti di competenza del legislatore.

Tuttavia, il Conseil nella decisione n. 2012-657 DC del 29 novembre, respinge le censure, affermando che la legge, oltre ad avere pienamente un contenuto normativo, non viola il principio di chiarezza e comprensibilità della legge né alcuna altra esigenza costituzionale.

 

Maggiore curiosità può destare, soprattutto nell’osservatore italiano, la posizione assunta dal Conseil in merito alle censure sotto il profilo procedurale, per il fatto che la legge è stata approvata a seguito di due deliberazioni da parte dei due rami del Parlamento svoltesi a dieci anni di distanza l’una dall’altra.

In proposito, i parlamentari ricorrenti, sia deputati che senatori, hanno lamentato una violazione dei principi costituzionali che regolano l’esercizio del potere legislativo da parte del Parlamento, contestando in particolare la procedura in relazione al principio di trasparenza e lealtà del dibattito parlamentare, per l’approvazione da parte del Senato di una proposta di legge trasmessagli dall’Assemblea nazionale nel corso di una precedente legislatura, oltre dieci anni prima. Ciò avrebbe comportato, a detta dei ricorrenti, l’emanazione di una legge che non è espressione della volontà del Parlamento, non essendo stata esaminata dall’Assemblea nazionale nella sua composizione attuale.

Il Conseil, in due frasi stringate a conclusione del considerant n. 2 della decisione sopra richiamata, ha ritenuto che poiché la legge «è stata esaminata successivamente nelle due assemblee del Parlamento e adottata negli stessi termini conformemente all’articolo 45 della Costituzione» la sua procedura d’adozione non viola l’articolo 45 né «alcuna altra disposizione della Costituzione».

Maggiori delucidazioni su questo punto del ragionamento giudiziale, alla luce delle norme costituzionali che regolano il procedimento legislativo, vanno ricercate, come accade di consueto in relazione alle decisioni del giudice costituzionale francese, nel commento alla decisione a cura del Segretario generale del Conseil. Qui si rinviene come il giudice costituzionale francese abbia fondato i propri argomenti sia sulla prassi parlamentare e la “giurisprudenza” del Senato, sia su fonti dottrinali. A commento della decisone, e in particolare a supporto della conclusione cui sono pervenuti i Sages, il Segretario generale cita infatti un manuale di diritto parlamentare (il Traité de droit  politique, électoral et  parlementaire di E. Pierre) che, riportando l’evoluzione della prassi sul punto, spiega come dalla fine del XIX secolo sia invalsa l’interpretazione secondo cui i progetti di legge già approvati dall’Assemblea nazionale, e affidati ad una Commissione in seno al Senato, rimangono validi e possono essere condotti fino al termine del loro iter. Quest’orientamento, codificato nel 1894 nel Regolamento del Senato, non è stato invece espressamente recepito nei Regolamenti parlamentari sotto la Quinta Repubblica; esso ha tuttavia continuato a trovare applicazione, tanto che, com’è ricordato nel Commento alla decisione, diverse leggi sono state promulgate a conclusione di una navette a cavallo tra due legislature, come ad esempio l’importante legge sulla bioetica, approvata dall’Assemblea nazionale nel 2002, nel corso dell’XI legislatura, e divenuta legge a seguito dell’approvazione del Senato due anni dopo, nel corso della XII.

Quello che però desta maggiori perplessità, nel caso della legge in questione, è il lungo lasso di tempo intercorso tra le approvazioni delle due Camere, con una coincidenza pari a meno del 10% tra i componenti dell’Assemblea nazionale al momento dell’approvazione in prima lettura da parte dell’organo nel 2002 e i componenti della stessa al momento dell’approvazione definitiva e della promulgazione della legge.

Per queste ragioni, i parlamentari ricorrenti si sono appellati non soltanto al testo delle disposizioni costituzionali che regolano la funzione legislativa e il procedimento di formazione delle leggi (artt. 3, 24, 25, 27, 39 e 45), ma anche ai principi costituzionali desunti dalle stesse, ed in particolare all’«esigenza costituzionale di chiarezza e lealtà dei dibattiti parlamentari», dedotta dall’art. 3 Cost. in combinato disposto con l’art. 6 della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen. Quest’esigenza di chiarezza e lealtà avrebbe dovuto imporre al Senato di ritenere decaduta la proposta di legge approvata dieci anni prima, tanto più che nel frattempo erano stati emanati altre due atti normativi sullo stesso tema, rendendo così la stessa priva di oggetto, oltre che non più espressiva della volontà generale (si tratta del decreto n° 2003-925 del 26 settembre 2003, che ha istituito una giornata nazionale in memoria dei “morti per la Francia” durante la guerra di Algeria e i conflitti in Marocco e Tunisia, e della Legge n° 2005-158 del 23 febbraio 2005, in ricordo dei Francesi rimpatriati).

Il Conseil non ha tuttavia condiviso alcuno di questi argomenti. Ritenendo rispettati la lettera e lo spirito della Costituzione, è sembrato così privilegiare una concezione della sovranità popolare fondata su un’idea di ‘nazione’, di ‘popolo’ e di ‘assemblea rappresentativa’ come entità astratte, slegate dall’identità dei componenti che effettivamente le costituiscono.


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