La distanza della sicurezza
Alcune osservazioni a margine del recente discorso di Emmanuel Macron alla Corte europea dei Diritti dell’uomo

Lo scorso 31 ottobre il Presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, ha tenuto un lungo ed importante discorso alla presenza del Plenum della Corte europea dei Diritti dell’uomo a Strasburgo, in occasione della sua prima visita ufficiale al Consiglio d’Europa. Il discorso (reperibile qui) colpisce per la ricchezza di contenuti, oltre che per il numero di questioni affrontate, con uno stile niente affatto formale, anzi, in alcuni passaggi addirittura molto diretto e, per così dire, poco diplomatico. La prospettiva del dialogo tra le Corti, da un lato, ed il riconoscimento della funzione di controllo che i giudici di Strasburgo hanno assunto nel garantire uno standard minimo ed uniforme di tutela dei diritti umani in Europa, dall’altro, sono un dato di fatto ormai acquisito per Macron che, sotto questo punto di vista, dimostra di porsi in netta discontinuità, almeno prima facie, rispetto ai suoi predecessori nei confronti dell’attività istituzionale della Corte EDU.
Tuttavia, con uno stile che appare ormai la caratteristica peculiare della sua presidenza (su cui v. il post di Ylenia Citino), questa constatazione viene immediatamente accompagnata da un drastico ridimensionamento del ruolo della Corte di Strasburgo, in particolare rispetto alle Corti apicali transalpine che restano, per Macron, le garanti ultime dei diritti fondamentali dei cittadini francesi. Se il dialogo tra le Corti è un dato di fatto - e Macron, sul punto, auspica che finalmente la UE possa aderire alla CEDU -, tale dialogo si deve però svolgere nel rispetto della complementarietà dei ruoli dei giudici che non possono essere confusi o invertiti: “Je défends pour ma part une justice européenne, conçue comme un espace de dialogue et de complémentarité. Dialogue entre les juges européens, que je souhaite soutenu entre les Cours de Strasbourg et de Luxembourg en attendant l’adhésion de l’Union européenne à la Convention Européenne des Droits de l’Homme. Dialogue aussi entre le juge européen et le juge national. Ce qui fait la force du système de la Convention, c’est d’offrir un contrôle extérieur, donc un surcroît d’impartialité et d’objectivité sur les litiges”.
Ne consegue, secondo Macron, che la forza del sistema CEDU consiste nel fatto che non ci sia un controllo di ultima istanza della Corte di Strasburgo sulle decisioni delle Corti interne, in quanto “les juges nationaux sont les premiers juges de la Convention Européenne des Droits de l’Homme”. La riaffermazione della propria sovranità giudiziaria, quindi, anche se con toni apparentemente diversi dal passato, viene comunque ribadita con forza dal Presidente francese, soprattutto quando proclama che “Nous n’avons donc pas remis entre les mains de la Cour notre souveraineté juridique ! Nous avons donné aux Européens une garantie supplémentaire que les Droits de l’Homme sont préservés”.
Questo passaggio appare, sotto certi aspetti, addirittura in antitesi con le stesse premesse del discorso: il Presidente, infatti, si assesta su posizioni di grande chiusura per quanto concerne il ruolo della Corte di Strasburgo nei confronti dell’ordinamento giudiziario transalpino: “La Cour n’a pas vocation à s’y substituer et à constituer un quatrième degré de juridiction ! La place primordiale des juges nationaux n’est aucunement remise en cause, et je tiens à souligner la qualité du dialogue qui existe entre la Cour et les juridictions nationales”.
Coerentemente, quindi, con questo andamento sincopato del suo ragionamento, Macron auspica che il Protocollo n. 16 entri in vigore al più presto, così che il dialogo tra Corti possa rafforzarsi con il riconoscimento del ruolo delle più alte giurisdizioni francesi, quali giudici nomofilattici del testo convenzionale, attraverso un frequente impiego degli avis consultatifs. Ma l’andamento basculante del discorso di Macron è funzionale soprattutto a porre un argine alle critiche alla nuova legge anti-terrorismo che, nel corso delle ultime settimane, è stata oggetto di un ampio dibattito in Francia, una legge con cui il Presidente della Repubblica vorrebbe finalmente chiudere la stagione dell’état d’urgence che, pur proclamato nel rispetto della CEDU, precisa Macron, non può essere considerato un état d’exception.
Ed è a questo punto che il suo discorso assume un tono netto e deciso: “La sécurité est la première mission de l’État, qui doit protéger ses citoyens et assurer la sécurité de son territoire. […] Cette sécurité, c’est la condition pour que nos libertés puissent ensuite pleinement être respectées et trouver leur cadre. La Déclaration française des Droits de l’Homme garantit la sûreté, c’est-à-dire l’assurance, pour le citoyen, que le pouvoir de l’État ne s’exercera pas sur lui de façon arbitraire et excessive. Confondre la sûreté avec la passion sécuritaire serait faire fausse route”.
In questo passaggio la Corte di Strasburgo sembra quasi smaterializzarsi davanti agli occhi di Macron: la sicurezza è il primo dovere dello Stato, è la pre-condizione dell’esercizio dei diritti e delle libertà, non della CEDU, ma della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 che proclama la sûreté come garanzia, per ogni cittadino francese, che lo Stato eserciti questo suo principale compito sovrano in maniera non arbitraria o sproporzionata.
Macron invita, quindi, a non confondere la sûreté con la passion sécuritaire che anima una parte della politica europea e francese, anche se colpisce lo slittamento semantico del linguaggio presidenziale, quando passa ad utilizzare, al posto di sécurité, il termine sûreté. A ben vedere, infatti, la Declaration del 1789 parla di sécurité quale garanzia dei diritti fondamentali del cittadino, mentre lo slittamento lessicale del discorso di Macron tradisce, in sostanza, proprio quella deriva securitaria, a parole rifiutata, ma che di fatto permea interamente la nuova legge anti-terrorismo.
E non è un caso, allora, se Macron in un passaggio successivo del suo discorso si rivolga direttamente ai giudici di Strasburgo, quasi ammonendoli a non travalicare il loro ruolo istituzionale in questa materia: “J’ai entendu […] les critiques qui ont parfois été formulées contre le projet de loi. Le commissaire aux Droits de l’Homme du Conseil de l’Europe lui-même a formulé des craintes et des doutes, également exprimés par des organisations non gouvernementales en France. […] Mais il me semble plutôt que le processus d’adoption de la loi montre combien nous avons progressé et combien la France est un État de droit”.
Macron fa qui riferimento alle dichiarazioni del Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, Nils Muižnieks, che si è più volte espresso criticamente su alcuni istituti della nuova legge, i quali, pensati per essere applicati nel periodo emergenziale, sono stati poi recepiti nell’ordinamento francese come strumenti ordinari per la repressione del terrorismo. In particolare, le critiche più rilevanti sono state rivolte alla possibilità per i prefetti di istituire delle vere e proprie “zone rosse d’urgenza”, sottoposte ad un controllo capillare della polizia, in occasione di eventi pubblici, culturali e sportivi, “zone rosse” all’interno delle quali la pubblica sicurezza potrà perquisire persone e veicoli senza autorizzazione della magistratura.
I prefetti, inoltre, avranno la possibilità – sempre senza l’intervento preventivo della magistratura -  di chiudere i luoghi di culto, in particolare le moschee, anche fino a sei mesi di tempo, qualora gli imam o i predicatori che le frequentano esprimano idee o teorie anti-democratiche, ovvero “incitino alla violenza, all’odio o alla discriminazione, provocando degli atti di terrorismo o facendone apologia”.
Inoltre, un’altra delle critiche espresse dal Commissario del Consiglio d’Europa – e fatta propria anche da molte ONG nazionali ed internazionali – riguarda il potere che la nuova legge riconosce al Ministro dell’Interno di ordinare il domicilio coatto nei confronti di determinati soggetti, semplicemente perché sospettati di essere terroristi o simpatizzanti dell’islamismo radicale, anche quando nei confronti di queste persone non siano stati formulati capi di imputazione, ovvero formalmente aperte delle indagini da parte della magistratura.
La norma prevede, inoltre, che in questi casi, oltre al domicilio coatto sia possibile per il Ministero dell’Interno comminare la misura degli arresti domiciliari, per un periodo di tempo reiterabile fino ad un anno, senza la previa autorizzazione dei giudici competenti. Infine, la nuova legge consente ai servizi di intelligence di controllare i cellulari e le e-mail delle persone sospettate di terrorismo, al fine di “prevenire, individuare, indagare e perseguire i reati terroristici e gravi”, oltre che di accedere alle informazioni di viaggio delle stesse, comprese quelle fornite dalle agenzie di viaggio riguardanti i passeggeri delle linee aeree e marittime.
Indubbiamente, si tratta di una normativa che suscita non poche perplessità, che per l’appunto erano state manifestate già dal Commissario Muižnieks, perplessità e timori per una compressione dei diritti fondamentali che non appaiono del tutto infondate, soprattutto perché molte di queste misure, pensate per il periodo emergenziale, come detto, sono state poi recepite sic et simpliciter come ordinari strumenti di lotta contro il terrorismo, in deroga alle basilari garanzie costituzionali.
Sicuramente, memore di queste importanti e reiterate osservazioni critiche, Macron ha colto l’occasione di questo suo primo incontro ufficiale con i giudici di Strasburgo per rivendicare l’approvazione della legge, lanciando al contempo un monito agli stessi giudici sovranazionali, affinché non invadano un settore dell’ordinamento giuridico francese - quello della sicurezza e della lotta al terrorismo islamico - che per il Presidente della Repubblique resta di dominio riservato delle istituzioni transalpine.
Eppure, stando alle parole conclusive del suo discorso, Macron sembrerebbe propugnare una visione dei rapporti tra ordinamento interno e CEDU nuova, o comunque diversa rispetto al passato: “je veux être très clair, la France n’acceptera aucune critique des droits de l’homme destinée à camoufler un agenda, à promouvoir des intérêts nationaux prétendument supérieurs; elle ne se laissera pas entraîner dans des débats selon lesquels les droits de l’homme ne seraient que la traduction de «valeurs» occidentales inadaptables ailleurs dans le monde”.
Tuttavia, alla luce di quanto detto e tenendo conto del particolare momento storico e dell’attuale contesto istituzionale, questo discorso assume un significato quanto mai ambiguo. Lo stesso linguaggio utilizzato da Macron, del resto - un mélange di formule apparentemente progressiste, affiancate da frasi, tipiche di un certo gollismo d’antan, che riaffermano in maniera granitica i tradizionali valori repubblicani - sembra prospettare un nuovo periodo di tensioni tra Francia, Consiglio d’Europa e Corte EDU. Non sarebbe la prima volta che ciò accade, ma che le tensioni si manifestassero in maniera così evidente e, tra l’altro, in un incontro istituzionale e pubblico tra il Presidente della Repubblica ed i giudici della Corte di Strasburgo, è sicuramente un precedente di cui non ci si può certo rallegrare.


Lambert contro Lambert, ovvero la Corte di Strasburgo e la “morale provvisoria”

Un infermiere francese, vittima di un incidente automobilistico, subisce un grave trauma cranico e rimane in stato vegetativo cronico, collegato ad una macchina che lo alimenta e lo idrata artificialmente giorno e notte. Sebbene risponda agli stimoli esterni, i medici non riescono a trovare un codice comunicativo e certificano, dopo oltre 80 sedute di contatto, che il malato versa in uno stato vegetativo irreversibile. I famigliari sono divisi: la moglie (anche lei infermiera), il nipote e una sorellastra dichiarano che il loro congiunto avrebbe preferito lasciarsi morire, piuttosto che vivere in un limbo come molte delle persone che accudiva quotidianamente nel suo lavoro. I genitori, una sorella e un fratellastro, invece, ritengono che sia ancora cosciente e insistono nel chiedere che gli vengano assicurati tutti i trattamenti medici possibili, nella speranza di un possibile “risveglio” delle funzioni cognitive.

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“Illness” or “desease” ? La Corte di Strasburgo ritorna sulla legislazione svizzera in materia di “fine vita”

Con la sentenza in commento, la Corte di Strasburgo è tornata nuovamente a valutare la compatibilità della normativa svizzera in materia di “fine vita” alla luce dell’articolo 8 CEDU. In una sua precedente decisione, infatti, – si trattava del caso Haas contro Svizzera (ric. n. 31322/2007), del 20. 01. 2011, avente ad oggetto il diritto di un malato psichiatrico ad ottenere l’autorizzazione per l’acquisto di un farmaco mortale –, la Corte aveva avuto modo di affermare che l’articolo 8 della Convenzione obbliga gli Stati membri a garantire una procedura medica idonea ad assicurare che la decisione di porre fine alla propria vita, da parte di una persona malata, sia genuina e conforme alla libera volontà dell’interessato.

Nel caso de quo, invece, la signora Alda Gross – una donna nata nel 1931 e residente a Grefensee, nel cantone di Zurigo – pur non soffrendo di alcun tipo di patologia, desiderava porre termine alla sua vita al fine di evitare il proprio declino psico-fisico legato all’età: la donna, infatti, ormai giunta all’ottantesimo anno di vita, lamentava gravi difficoltà mnemoniche e affermava di non essere più in grado di fare lunghe passeggiate a piedi. Vistasi negare dalla direzione sanitaria del cantone di Zurigo la prescrizione medica per l’acquisto di una dose mortale di sodio pentobarbital  – in quanto, ad avviso dei medici interpellati, la donna non soffriva di alcun tipo di malattia degenerativa –, la ricorrente iniziava un lungo iter giudiziario che la conduceva innanzi alla Corte suprema federale svizzera.

Quest’ultima Corte, confermando le decisioni dei giudici precedentemente aditi, il 12 aprile 2010, rigettava il ricorso in quanto, a suo avviso, la signora Gross non soffriva di alcun tipo di malattia degenerativa in fase terminale e, pertanto, la sua condizione psico-fisica non rientrava tra quelle previste dalle linee-guida deontologiche, redatte dall’Accademia svizzera di medicina, linee-guida che stabilivano i criteri in base ai quali i medici elvetici possono prescrivere al proprio paziente una dose letale di sodio pentobarbital.

Ribaltando tutte le decisioni dei giudici nazionali, tuttavia, ad avviso della Corte di Strasburgo, nel caso della ricorrente si doveva rilevare una violazione del proprio diritto alla vita privata, così come garantito dall’articolo 8 della Convenzione. Partendo dal principio di diritto statuito nella precedente sentenza Haas, in ragione del quale – come già rilevato – deve essere garantita la soddisfazione della volontà del malato espressa in maniera autonoma e consapevole, i giudici di Strasburgo rilevano che il Codice penale svizzero non condanna l’istigazione o l’assistenza al suicidio, a meno che il reo abbia posto in essere una simile condotta per meri “motivi egoistici”. Pertanto, poiché nel caso de quo la ricorrente aveva manifestato una genuina ed autonoma volontà di volersi suicidare e poiché le linee-guida deontologiche non possono essere considerate come “legge” ai sensi della CEDU, in quanto emanate da un’organizzazione non statale, la Corte rileva una violazione della vita privata della ricorrente.

Del resto, sottolineano i giudici, il Governo elvetico non ha prodotto in giudizio alcuna prova concernente la vigenza, nell’ordinamento giuridico svizzero, di una norma in cui si indichi in quali circostanze un medico sia autorizzato a prescrivere una dose mortale di sodio pentobarbital, anche ad una persona che non versi in stato terminale di vita. Questa “lacuna” normativa - o forse sarebbe più corretto dire, questa mancata chiarezza della normativa elvetica sul punto - induce la Corte di Strasburgo ad affermare che “… the applicant must have found herself in a state of anguish and uncertainty regarding the extent of her right to end her life which would not have occurred if there had been clear, State-approved guidelines defining the circumstances under which medical practitioners are authorised to issue the requested prescription in cases where an individual has come to a serious decision, in the exercise of his or her free will, to end his or her life, but where death is not imminent as a result of a specific medical condition” (così il §. 66 della sentenza).

Pertanto, la Corte conclude affermando che la normativa svizzera, pur riconoscendo la possibilità di ottenere una dose letale di un farmaco – previa prescrizione medica – al fine di darsi autonomamente e volontariamente la morte, tuttavia, non stabilendo principi chiari sui requisiti necessari per poter accedere alla suddetta tipologia di farmaco, di fatto non delimita con la dovuta chiarezza la portata del diritto dei cittadini elvetici a darsi una “dolce morte”. Di conseguenza, la normativa in questione viola la vita privata di quei cittadini svizzeri che, pur volendo porre fine ai propri giorni e pur convinte di poter godere di un simile diritto, si vedono poi concretamente negato l’accesso alla dose mortale del sodio pentobarbital.

La decisione in commento è stata presa da un’esigua maggioranza di giudici: tre dei sette membri del collegio giudicante (ossia i giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş), infatti, hanno votato contro la dichiarazione di una lesione dell’articolo 8 della CEDU e hanno espresso le proprie perplessità con un’importante opinione dissenziente. Ad avviso dei giudici di minoranza, la sezione 24 (a) della legge elvetica sui farmaci stabilisce che il sodio pentobarbital è disponibile solo su prescrizione medica e che un simile principio di diritto non è suscettibile di deroga, come del resto più volte affermato dalla Corte suprema federale elvetica. Pertanto, si deve desumere, ad avviso dei giudici di minoranza, che la ricorrente non sia riuscita ad ottenere la prescrizione medica semplicemente perché non era affetta da alcuna malattia incurabile.

Di conseguenza, la fattispecie de quo risulta ben diversa da quella oggetto del caso Haas: in quest’ultimo caso, infatti, il ricorrente voleva porre fine alla propria vita perché era affetto da un disturbo psichiatrico grave ed aveva provato più volte a suicidarsi, mentre la signora Gross non risultava essere affetta da alcuna malattia grave, semplicemente non voleva più continuare a vivere, perché con l’avanzare dell’età vedeva le proprie capacità psico-fisiche fortemente compromesse.

Ad avviso dei giudici dissenzienti, quindi, la Corte avrebbe dovuto considerare quanto da essa stessa affermato al §. 58 della sentenza Haas, allorché si sottolineava come i rischi di un abuso giuridico, insiti in un sistema normativo che facilitasse l’accesso al suicidio assistito, non dovessero essere sottovalutati da quegli Stati che – come la Svizzera – garantivano un simile diritto ai propri cittadini. In quella occasione, inoltre, la Corte aveva affermato che il requisito della prescrizione medica, rilasciata sulla base di una valutazione psichiatrica completa del soggetto richiedente una dose mortale di sodio pentobarbital, fosse un mezzo legittimo e proporzionato rispetto ai beni giuridici che entravano in gioco in casi di questo tipo.

La sentenza in commento, ad avviso di chi scrive, è suscettibile di critica sotto due differenti profili: il primo, che concerne il concetto di “legge” utilizzato dai giudici di Strasburgo, al fine di dichiarare la violazione dell’articolo 8 della CEDU; il secondo, che riguarda il concetto di “malattia” impiegato dalla Corte nella propria giurisprudenza in materia di “fine vita”, un profilo questo che è stato evidenziato con estrema efficacia nell’opinione dissenziente dei giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş.

Per quanto riguarda il primo profilo di criticità della sentenza Gross, la Corte di Strasburgo afferma che la normativa svizzera viola l’articolo 8 della CEDU perché non risulterebbero chiari i presupposti legali per ottenere una dose letale di sodio pentobarbital, in ragione del fatto che le linee-guida deontologiche, a cui si sono riferiti i medici per motivare il loro diniego alla prescrizione del farmaco, non possono essere considerati come “legge” dello Stato, in quanto emanate da un’organizzazione non statale, l’Accademia svizzera di medicina. Ora, una simile affermazione non sembra trovare riscontro nella costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul punto, una giurisprudenza questa che da sempre ha accolto una concezione ampia del concetto di “legge”, anche al fine di neutralizzare una serie di problematiche legate agli ordinamenti di quegli Stati di common law che fanno parte del Consiglio d’Europa.

Pertanto, in passato la Corte aveva avuto modo di affermare più volte che il termine “legge”, utilizzato nel testo della Convenzione, non fa soltanto riferimento al diritto scritto, ma anche a quello non scritto (cfr. Sunday Times contro Regno Unito, 26. 04. 1979, §. 47), e che esso deve essere inteso in senso “materiale”, ossia come comprendente l’insieme del diritto vigente a livello legislativo, a livello amministrativo e a livello giurisprudenziale. In questa ottica, i giudici di Strasburgo sono addirittura giunti a riconoscere lo status di “legge” alle interpretazioni giurisprudenziali costanti di una determinata disposizione legislativa da parte delle Corti nazionali apicali (cfr. Coëme contro Belgio, 22. 06. 2000, §. 98), agli atti amministrativi (cfr. Andersson contro Svezia, 25. 02. 1992, §. 84) e persino alle circolari interne delle autorità militari (cfr. Vereinigung Democratischer Soldaten Osterreichs e Gubi contro Austria, 19. 12. 1994, §. 31).

Del resto, nel già citato caso Sunday Times, la Corte aveva chiarito che assumono il carattere di “legge”, ai sensi della CEDU, tutte quelle “disposizioni che hanno una valenza normativa” (sia consentito, in questa sede, impiegare questa locuzione, per rendere meglio in italiano il concetto di “loi matérielle”) che assumono cioè, in concreto, i caratteri di “accessibilité” e “prévisibilité”, con il primo termine intendendo la possibilità che “le citoyen doit pouvoir disposer de renseignements suffisants, dans les circostances de la cause, sur les normes juridiques applicables à un cas donné” (così Sunday Times, cit., §. 49), con il secondo, invece, l’idea che la regola di diritto da applicarsi al caso concreto presupponga “une norme énoncée avec assez de précision pour permettre au citoyen de régler sa conduite” (ivi).

Nel caso in commento, del resto, non soltanto la Corte riconosceva esplicitamente che le linee-guida deontologiche dell’Accademia svizzera di medicina rientrassero nella “Relevant domestic law and practice” (cfr. il punto D, della II sezione della sentenza, pp. 10-12), ma più volte nel corso della decisione, si riconosce che le suddette linee-guida sono pacificamente oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza della Corte suprema federale elvetica e, quindi, sono a tutti gli effetti un parametro normativo rispetto al quale valutare la legalità delle procedure di prescrizione del sodio pentobarbital.

Per quanto riguarda il secondo profilo di criticità della sentenza in commento, come già evidenziato in precedenza, esso attiene al concetto di “malattia” utilizzato dalla Corte di Strasburgo nelle proprie motivazioni. Già nell’opinione dissenziente, i giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş avevano avuto modo di evidenziare come la fattispecie de quo non fosse affatto riconducibile alla precedente decisione Haas, poiché  in quest’ultimo caso, il ricorrente voleva porre fine alla sua vita in quanto affetto da un grave disturbo psichiatrico, mentre la signora Gross non era affetta da alcun tipo di malattia, ma semplicemente voleva darsi la morte per evitare di patire i mali naturalmente legati alla vecchiaia.

Una prova evidente della validità degli argomenti utilizzata dai giudici dissenzienti, ad avviso di chi scrive, è forse desumibile anche dal linguaggio impiegato nelle motivazioni della sentenza: se si fa attenzione al termine adoperato dai giudici maggioritari per indicare la malattia di cui è afflitta la ricorrente, si noterà che il termine utilizzato è sempre “illness”, mentre non vengono mai utilizzati i termini “desease” e “sickness”. Al riguardo, è forse utile un breve approfondimento semantico: i tre sostantivi, infatti, nella lingua inglese sono considerati generalmente come sinonimi di “malattia”, sebbene il loro impiego, in senso tecnico, stia ad indicare tre diverse tipologie di status patologico.

Con “disease”, infatti, si intende la malattia in senso biomedico, ossia la lesione organica e/o l’aggressione di agenti esterni ad un organismo vivente, un evento questo oggettivabile mediante una serie di protocolli ed indici medico-scientifici empiricamente verificabili (ad esempio, l’aumento della temperatura del corpo, un’alterazione delle componenti sanguigne e così via). Con il termine “illness”, invece, si indica la mera esperienza soggettiva dello “stare male” vissuta dal soggetto, ossia la semplice percezione del proprio malessere che non trova però riscontri oggettivi nella scienza medica e che, pertanto, risulta sempre culturalmente (e ambientalmente) mediata. “Sickness”, infine, è il termine con cui si indica il riconoscimento sociale della malattia, la parola insomma che la società, in senso lato, utilizza per etichettare qualcuno come malato.

Per tornare al caso della signora Gross, la donna percepisce sé stessa come ormai anziana e, quindi, incapace di svolgere alcune elementari azioni della propria vita quotidiana (fare lunghi tragitti a piedi, ricordarsi di fare determinate cose e così via): ma la vecchiaia non è una malattia, bensì una naturale condizione umana legata all’allungamento della vita nelle società contemporanee. Una persona anziana, quindi, può sentirsi malata o addirittura limitata nei suoi comportamenti proprio perché incapace di svolgere le normali attività quotidiane, ciò non significa però che sia “malata”. È significativo che i giudici di Strasburgo abbiano sempre utilizzato, per indicare lo stato di salute in cui versava la ricorrente, il termine “illness” e mai il termine “desease”: la “malattia”, insomma, se c’è, in questo caso è tutta nella percezione dello scadimento delle proprie capacità psico-fisiche da parte della ricorrente, non certo in una “oggettiva” diagnosi da parte dei medici di un male degenerativo ed incurabile.

I medici del cantone di Zurigo, insomma, si erano trovati di fronte semplicemente ad una persona anziana come tante altre che soffriva, come tante persone anziane, del fatto di essere diventata fragile: la vecchiaia, per fortuna, non è né una “sickness” né una “desease”, anche se il caso della signora Gross dovrebbe spingerci a riflettere sui diritti e sul ruolo che gli anziani hanno nelle società occidentali – delle società, le nostre, che fanno del dinamismo, della sicurezza di sé e della propria prestanza fisica dei valori assoluti e spesso non suscettibili di critica –, piuttosto che delle questioni legate ai presupposti giuridici in base ai quali sia giusto morire con dignità.

Il post è già stato pubblicato su https://diritti-cedu.unipg.it/


“Fra lo scrittoio e la vita": una critica al formalismo integrazionista in materia di diritti fondamentali

Recensione al volume di A. Schillaci, Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Jovene, Napoli, 2012, pp. 1-514

Credo si possa ormai affermare che, nel corso dell’ultimo decennio, il dibattito dottrinario italiano sia stato quasi completamente monopolizzato dal tema dei rapporti tra ordinamenti e Corti europee e che una giovane generazione di studiosi si sia dedicata, con passione ed originalità, ad affrontare le problematiche connesse alla tutela multilivello dei diritti fondamentali (se si vuole, questo blog è la prova più evidente di quanto appena affermato).

E’ all’interno di questo “orizzonte di senso”, quindi, che la giovane dottrina italiana è stata educata ed ha affinato la propria metodologia scientifica, rinnovando il bagaglio concettuale fornitole dai suoi maestri, contaminandolo con gli sviluppi istituzionali e dogmatici provenienti dal livello sovranazionale. A mancare forse era ancora una ricostruzione più ampia delle evoluzioni del costituzionalismo europeo degli ultimi decenni, una storia dei concetti giuridici e delle tecniche argomentative delle Corti interne che, utilizzando i parametri di giudizio provenienti dall’ “esterno”, andavano poi – attraverso, come è stato detto, una “integrazione silente” – a ridisegnare la fisionomia degli ordinamenti nazionali, sia sotto il versante legislativo, sia sotto quello giurisprudenziale.

Il libro di Angelo Schillaci (Diritti fondamentali e parametro di giudizio. Per una storia concettuale delle relazioni tra ordinamenti, Jovene, Napoli, 2012, pp. 1-514) prova a colmare egregiamente questa lacuna della giovane dottrina giuspubblicistica italiana che, pur caratterizzata da una notevole innovazione metodologica, spesso appare un pò troppo focalizzata sulla contingenza, sul caso specifico, sulla singola questione giurisprudenziale.

L’obiettivo del lavoro è chiaro sin dalle prime pagine: partendo dall’assunto condivisibile che “una lettura solo formalistica dell’integrazione del parametro di giudizio rischierebbe di perdere di vista il contesto in cui tali operazioni avvengono” (p. 5, quello cioè dei processi di integrazione sovranazionale, con specifico riferimento alla tutela dei diritti fondamentali), l’autore si prefigge di dimostrare “l’insufficienza del paradigma esclusivista come strumento euristico idoneo alla piena comprensione dell’incidenza delle relazioni tra ordinamenti sulla costruzione del parametro di giudizio in materia di diritti” (p. 6). A voler essere affrontata, insomma, in una prospettiva diacronica, è la questione radicale della frontiera tra “interno” ed “esterno” nella costruzione del parametro di giudizio delle Corti nazionali, come questa frontiera sia stata teorizzata nel corso dei secoli dalla dottrina gius-filosofica, come si sia consolidata e divenuta egemone nella scienza giuridica moderna e come, invece, sia stata messa in discussione (se non in crisi) nel corso degli ultimi cinquant’anni.

La strada è stretta ma ambiziosa: “Le due posizioni di massima introversione e di massima estroversione rinviano ad assetti rigidi, esclusivi, che determinano rispettivamente la negazione dell’alterità e dell’identità” (p. 26). Al contrario, ad avviso dell’autore, questa relazione tra alterità e identità deve essere sottoposta ad un vaglio critico, bisogna cioè mettere in tensione questi due poli e calarli nella realtà delle concrete istanze di giustizia, sostituire approcci trascendentali “con realizzazioni pratiche fondate su valutazioni critiche di tipo comparativo, tentando di costruire un percorso di arricchimento mutuo, di progressiva condivisione, che si apre in senso cooperativo senza annullare l’alterità e senza disperdere identità e alterità in un superiore indistinto” (pp. 26-27).

Il volume si snoda in un percorso teorico denso e complesso, che parte affrontando il problema storico dell’elaborazione del diritto internazionale (da Grozio fino ad Heller, passando per Jellinek e Preuß), per poi soffermarsi sulle virtù e i limiti tanto delle dottrine dualiste, quanto di quelle moniste. E’ soprattutto il monismo kelseniano l’oggetto critico dell’analisi dell’autore, il quale sottolinea come l’adesione da parte del filosofo austriaco al primato del diritto internazionale in chiave oggettivistica sembrerebbe, nella prospettiva della dottrina pura del diritto, l’unica in grado di conservare e garantire la coerenza dello Stufenbau e dei suoi postulati di autonomia, unità e sostanziale astrazione della sfera del dover essere. Ma questa ricostruzione, ad avviso di Schillaci, paga un prezzo altissimo, tutto ai danni del soggetto e dell’individualità: “la riduzione della concezione oggettivistica ad assoluto non solo impone, sul piano delle relazioni tra diritto interno e internazionale, di sottrarre ai singoli stati il carattere di «unità definitive e supreme», ma deve coerentemente condurre alla stessa dissoluzione della personalità in un «elemento dell’ordinamento giuridico», in una «personificazione di un ordinamento giuridico parziale»” (p. 169, nota 71). Accogliendo la prospettiva helleriana, invece, l’autore ritiene che la contrapposizione tra monismo e dualismo non si debba più giocare sulla maggiore coerenza logica della prima teoria a discapito della seconda: questo perché è la realtà (rectius la storia costituzionale) ad essersi, nei fatti, orientata verso il pluralismo istituzionale, la molteplicità di norme fondamentali e la possibilità di conflitti. E’ la storia costituzionale, insomma, che ha prodotto “una fitta trama di relazioni, che chiede di essere compresa, dimostrando che l’unità, lungi dall’essere un dato di logica evidenza, da elevare a presupposto della conoscenza in generale, e della conoscenza giuridica in particolare, è realtà complessa, articolata, compito di integrazione” (p. 199).

La seconda parte del volume di Schillaci si sofferma sulle esperienze costituzionali concrete e, in particolare, sull’integrazione internazionalistica del parametro di giudizio nell’esperienza spagnola e in quella italiana. Per quanto riguarda la Spagna, ad avviso dell’autore l’articolo 10, secondo comma della Costituzione denoterebbe l’emersione di una clausola di “diritto costituzionale internazionale” che non si occupa dell’adeguata disciplina giuridica delle relazioni tra ordinamenti, ma che si interessa esclusivamente dell’effettività e dell’adempimento degli obblighi internazionali. L’articolo 10, secondo comma, insomma, “inserisce la Costituzione spagnola in un sistema di protezione dei diritti fondamentali aperto ed integrato con l’ordinamento internazionale, recependo… gli orientamenti della prassi internazionale, e precorrendo gli esiti più avanzati del costituzionalismo multilivello” (p. 431).

Nell’esperienza costituzionale italiana, invece, l’autore registra – a seguito delle sentenze “gemelle” del 2007 –  una serie di rigidità (da parte della Corte costituzionale) e, allo stesso tempo, una serie di disagi (da parte dei giudici comuni), nel modo in cui si è letta la nuova clausola di “diritto costituzionale internazionale” da parte della Consulta (ossia l’articolo 117, primo comma della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001). L’apertura dei processi di integrazione multilivello, infatti, ad avviso di Schillaci, coincide con l’apertura delle dinamiche di interpretazione della Costituzione, condivise attraverso la cooperazione tra giudici comuni e Corte. Il problema, pertanto, non è quello di scegliere rigidamente tra gli uni o l’altra, bensì consiste nel “chiedersi quale attitudine, nella Corte costituzionale come nel giudice comune, favorisca la piena operatività di un sistema di protezione dei diritti orientato in senso cooperativo” (p. 479).

Il lavoro di Angelo Schillaci, in conclusione, è un lavoro importante, una disamina critica, attenta e scrupolosa del lungo percorso evolutivo del sistema costituzionale multilivello europeo, un lavoro che in qualche modo potrebbe essere considerato come “definitivo” nella propria ricostruzione “sistematica”, se non fosse che in questo ambito – è l’autore stesso a ricordarcelo più volte nel corso dell’esposizione – simili pretese devono essere fermamente respinte. Proprio perché opera sul piano storico e della “esperienza giuridica”, una ricerca simile, per sua natura, rifiuta aggettivi riconducibili a quel metodo formalistico ed astratto del quale Schillaci ha fatto emergere tutti i limiti e le incongruenze.

Tuttavia, bisogna riconoscere che la prospettiva dell’integrazione e della cooperazione tra ordinamenti nel “sistema” multilivello europeo rischia di scivolare nella neutralizzazione dei conflitti che, soprattutto negli ultimi anni, sono emersi in tutta la loro portata e che difficilmente potranno essere risolti tramite la via giurisprudenziale. Infatti, la centralità delle Corti e delle giurisprudenze dell’ultimo decennio se, da un lato, deve essere apprezzata ed esaltata per le dinamiche cooperative e sinergiche che ha prodotto, dall’altro, sembra ormai dimostrare il proprio carattere suppletivo rispetto alle dinamiche politico-istituzionali che, invece, fanno registrare criticità difficilmente risolvibili, se non veri e propri processi di arretramento della cultura giuridica del Vecchio continente, soprattutto in materia di diritti sociali.

In questa ottica, quindi, non mi sembra condivisibile la ricostruzione che l’autore fa della cd. “teoria dei controlimiti” che, nel corso degli anni, avrebbe manifestato “una sempre più marcata virtualità integrativa, determinando la progressiva presa di coscienza, a livello europeo, della rilevanza centrale delle identità costituzionali nazionali nella costruzione del processo di integrazione” (p. 343). L’idea che i controlimiti oggi vengano assunti – rispetto alla loro originaria funzione integrante “su basi oppositive” –, come un ulteriore strumento giurisprudenziale in grado di sprigionare sempre più forti “implicazioni cooperative”, non sembra – ad avviso di chi scrive – essere suffragata neppure dalla più recente giurisprudenza della Corte costituzionale tedesca che pure ha assunto posizioni molto esplicite al riguardo.

L’impressione, al contrario, è che all’orizzonte si stiano delineando imponenti ostacoli allo spontaneo moto centrifugo delle giurisprudenze delle Corti, ostacoli che ancora una volta confermano l’impossibilità di risolvere le criticità strutturali soltanto attraverso il ricorso alla giurisprudenza. Questa spinta fortissima che le Corti hanno dato al processo di integrazione europeo, infatti, sembra oggi destinata a rallentare: il processo di integrazione e cooperazione giurisprudenziale degli ultimi trent’anni, infatti, resta comunque legato al rilancio dei valori europei da parte delle istituzioni politiche. Integrazione e cooperazione giurisprudenziali, ad avviso di chi scrive, restano comunque subordinate a dinamiche progressive istituzionali: le une non si danno se le altre non si innescano. Cooperazione giurisprudenziale e integrazione istituzionale, insomma, stanno insieme, vanno di pari passo, simul stabunt, simul cadent. Ma al di là dei percorsi (più o meno accidentati) che istituzioni e Corti europee imboccheranno nel prossimo futuro, non si può negare che la strada che le ha condotte sino ad oggi, sia stata segnata da quelle virtù cooperative che l’autore ricostruisce egregiamente in questo suo importante lavoro.


Penser solidairement la fin de vie”: brevi osservazioni in margine ai lavori della Commissione Sicard

Al termine di un breve ma approfondito percorso di ricerca e di indagine sociale, il 18 dicembre 2012 è stato pubblicato il dossier della “Commission de reflexion sur la fin de vie en France” presieduta dal Prof. Didier Sicard, Professore di medicina all’Università “Paris Descartes”, primario di medicina interna all’Ospedale Cochin di Parigi e già Presidente della Commissione Nazionale di Bioetica dal 1999 al 2008. Il Prof. Sicard ha coordinato i lavori della Commissione in ragione dell’incarico conferitogli direttamente dal Presidente della Repubblica,  François Hollande, incarico finalizzato ad accertare in che modo, sino ad oggi, fosse stata applicata nella prassi la normativa in materia di cure palliative e quale fosse il livello di conoscenza della legge a tutela dei diritti del malato.

Il quadro normativo transalpino in materia, infatti, risulta assai articolato. Innanzitutto, con la legge del 9 giugno 1999, il legislatore aveva avuto modo di garantire il diritto all’accesso alle cure palliative, fissando due principi generali, ossia: a) il diritto alle cure palliative sotto controllo medico a favore di tutti i richiedenti e b) il diritto per i malati di rifiutare i suddetti trattamenti sanitari in qualsiasi momento. La successiva legge del 4 marzo 2002 (la c. d. “Loi Kouchner”), relativa più specificamente ai diritti del malato, tendeva a rafforzare il diritto di ogni paziente a non essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori senza il proprio consenso, ferma restando comunque la possibilità del medico curante di convincere il paziente a revocare il proprio rifiuto, nell’ipotesi in cui il medico stesso fosse stato convinto che l’accettazione del trattamento risultasse indispensabile per un miglioramento dello stato di salute psico-fisico del malato.

Infine, la legge del 22 aprile 2005 (meglio nota come “Loi Léonetti”) – finalizzata a rafforzare ulteriormente i diritti del malato in relazione alle questioni del “fin de vie” –, nel colmare una serie di limiti evidenziatesi nella prassi da parte della normativa precedente, consentiva al malato di domandare al proprio medico di sospendere ovvero non intraprendere un trattamento sanitario, giudicato dal malato stesso come una “obstination déraisonnable” ovvero un “acharnement thérapeutique”. Sebbene lo scopo della “Loi Léonetti” sia stato quello di garantire la “primauté à la qualité de vie sur la durée de la vie”, tuttavia, il legislatore francese ha ritenuto opportuno tutelare ulteriormente il malato incosciente, ovvero incapace di esprimere la propria volontà, stabilendo che il proprio medico curante ha comunque la possibilità di prendere una decisione – nell’ipotesi di sospensione di un trattamento sanitario – soltanto a seguito di una procedura consultiva con altri medici della struttura ospedaliera (comunque nel rispetto, qualora ci fossero, delle “direttive anticipate di trattamento” redatte dal malato), con il tutore del paziente ovvero con i suoi parenti prossimi.

In particolare, la rilevanza e la vincolatività per il medico delle “direttive anticipate di trattamento” redatte dal paziente è stata espressamente prevista all’articolo sette della “Loi Léonetti”, articolo in cui il legislatore ha stabilito che ogni persona maggiorenne può redigere e sottoscrivere il suddetto documento “pour le cas où elle serait un jour hors d'état d'exprimer sa volonté”. Le direttive, a loro volta, possono prevedere anche le modalità con cui una persona decide la propria “fin de vie”, stabilendo così le condizioni e i limiti delle modalità di sottoposizione a determinati trattamenti sanitari. Sebbene le direttive siano revocabili dal malato in qualsiasi momento, tuttavia esse sono vincolanti per il medico curante soltanto se sono state redatte nei tre anni antecedenti al sopravvenire dello stato di incoscienza del malato stesso.

E’ alla luce di questo articolato quadro normativo, pertanto, che si sono svolti – tra il mese di luglio e quello di dicembre del 2012 – i lavori della Commissione Sicard. Il dossier conclusivo (pubblicato on-line e reperibile all’URL, http://www.sante.gouv.fr/mission-presidentielle-de-reflexion-sur-la-fin-de-vie,12160.html) si costituisce di sette parti e raccoglie, in particolar modo, i risultati di una serie di incontri e dibattiti pubblici svoltisi nelle più importanti città francesi (Strasburgo, Montpellier, Grenoble, Besançon, Clermont-Ferrand, Lille, Nantes, Lyon e Le Havre), alla presenza di cittadini, medici ed esponenti delle varie comunità religiose, oltre che dei famigliari di persone decedute a seguito di malattie incurabili. Inoltre, i lavori della Commissione si sono focalizzati, da un lato, sullo studio dell’attuazione della “Loi Léonetti” da parte del personale medico e, più in generale, delle strutture ospedaliere del sistema sanitario nazionale e, dall’altro, sul grado di conoscenza della normativa in questione da parte degli stessi cittadini francesi.

Le sintetiche conclusioni a cui è giunta la Commissione fanno particolare rifermento alla “reale inquietudine” e alle “preoccupanti condizioni”, troppo spesso occultate nel dibattito pubblico, delle problematiche legate alle questioni giuridiche del “fine vita”. In particolare, la Commissione ha evidenziato, da un lato, la non soddisfacente applicazione della normativa francese in materia, nonostante i tredici anni intercorsi dall’entrata in vigore della legge che garantiva l’accesso alle cure palliative e nonostante i dieci anni intercorsi dall’entrata in vigore della più dettagliata “Loi Kouchner”; dall’altro, la Commissione ha rilevato il drammatico fenomeno della disuguaglianza nell’accesso alle procedure che garantiscono la “fin de vie” ai malati terminali, nonostante il chiaro e dettagliato testo della “Loi Léonetti”.

Inoltre, la Commissione ha ribadito con forza come sia imprescindibile, per il personale medico-ospedaliero, il rispetto della volontà e dell’autonomia del malato e che, in futuro, sarà assolutamente necessario superare quella distinzione – non prevista dalla normativa, ma che assai spesso invece si è rilevata nella prassi –, tra “soin curatif” e “soin palliatif”. A questo primo monito nei confronti del personale medico-ospedaliero del sistema sanitario nazionale, si deve poi aggiungere un ancor più importante monito nei confronti del legislatore, affinché desista in futuro dal modificare nuovamente la normativa in materia, anche soltanto per finalità di semplificazione e di chiarezza legislativa. L’auspicio della Commissione, infatti, è che l’Assemblea Nazionale si impegni a dare piena ed effettiva attuazione alla normativa vigente, in qualche modo criticando il tradizionale approccio giuridico francese legi-centrico e alla sua correlata “utopie de résoudre par une loi la grande complexité des situations de fin de vie”.

Poiché uno dei temi di maggiore discussione, emerso soprattutto nelle assemblee pubbliche tenutesi nei vari capoluoghi dipartimentali, verteva sull’opportunità, da parte del legislatore, di depenalizzare il reato di “assistance au suicide”, pur senza prendere posizione sul punto, la Commissione Sicard ha evidenziato come la priorità del legislatore dovrebbe essere quella di garantire rigorosamente la libertà di scelta del malato e di ripensare l’organizzazione della pubblica amministrazione sanitaria in funzione di questo superiore interesse.

Per quanto concerne, invece, la possibilità che in futuro il legislatore possa depenalizzare le pratiche eutanasiche, la Commissione, nelle sue conclusioni, ha sottolineato come una simile scelta di politica legislativa assumerebbe un’importanza simbolica considerevole: tuttavia, al riguardo, la Commissione ha rivolto al legislatore un forte invito ad agire con prudenza. Una simile scelta, infatti, potrebbe essere compiuta soltanto dopo un serio ed approfondito dibattito sul ruolo della scienza medica nella società francese contemporanea e dopo aver tenuto in considerazione il fatto che una molteplicità di casi-limite costringerebbe di volta in volta il legislatore a rimettere mano alla normativa vigente, al fine di consentire che ogni specifico caso possa essere ricondotto alle previsioni generali ed astratte di una normativa de iure condendo.

La Commissione, infine, ha concluso i propri lavori sottolineando come soltanto una società solidale sia in grado di affrontare le problematiche legate al “fine vita”, una società cioè che sia capace di prendersi cura degli individui senza lasciarli soli, che riesca ad ascoltarli e a rispettare le loro coscienze ed il proprio vissuto, senza però mai sostituirsi ad essi.

La lettura del dossier conclusivo dei lavori della Commissione Sicard stimola una serie di riflessioni su un tema assai delicato e fortemente sentito, non soltanto dalla pubblica opinione francese, ma anche da quella di altri Paesi europei, inclusa quella italiana.

Innanzitutto, bisogna rilevare come l’approccio della Commissione rispetto a questi temi, in continuità con la tradizione giuridica transalpina, sia caratterizzato da una impostazione fortemente laica, finalizzata cioè a far emergere l’esperienza concreta ed il punto di vista dei cittadini, senza però mai dimenticare l’importante ruolo degli esponenti dei differenti gruppi religiosi presenti sui territori interessati dall’indagine, oltre a quello del personale medico-ospedaliero. Ciò che la Commissione ha poi più volte auspicato, inoltre, è che proprio il personale medico-ospedaliero possa approcciarsi nei confronti del malato e della sua famiglia in maniera “dialettica”, discutendo direttamente con l’interessato e rispettandone le volontà, quando ciò risulta possibile.

Soltanto in un secondo momento, infatti, quando cioè non è fattivamente possibile instaurare questo “dialogo di cura” direttamente tra malato e medico, quest’ultimo dovrà assumersi la responsabilità di decidere sulle terapie a cui sottoporre il paziente. Ma anche in questo caso, la Commissione auspica che si prediliga comunque un metodo decisionale di tipo consultivo e collegiale, in cui cioè si tenga conto innanzitutto (quando ci sono) delle “direttive anticipate di trattamento” del malato, del punto di vista del tutore e dei parenti stretti, oltre che degli altri medici presenti nelle strutture di cura.

Tuttavia, bisogna registrare che, oltre ad un approccio ai temi del “fine vita” di tipo laico (caratteristico della tradizione giuridica francese) e “dialettico” (ossia finalizzato ad esaudire fino in fondo la volontà individuale del malato, senza però isolarla dal contesto famigliare, in una prospettiva che è stata definita di tipo “solidale” o “sociale”), la Commissione Sicard auspica che il legislatore transalpino limiti il più possibile in futuro il proprio intervento su questa materia, disincentivandolo di fatto dal depenalizzare l’aiuto al suicidio e le pratiche eutanasiche.

In questa ottica, quindi, la Commissione sembra valutare in maniera assai scettica la possibilità che normative generali ed astratte, potenzialmente valide per tutti i casi ed in tutte le circostanze, possano garantire la risoluzione delle numerose problematiche e questioni giuridiche legate al “fine vita”. Ad avviso della Commissione, infatti, bisogna riconoscere, da un lato, che la  società francese – ma questa considerazione può essere riferita, forse più in generale, a tutti i Paesi europei ed occidentali – considera il tema della morte come un “tabù”, una questione rimossa sia nel dibattito pubblico sia in quello privato; dall’altro, tuttavia, quello della “buona morte” viene considerato dai cittadini francesi – nonostante la legislazione transalpina in questo senso sia molto garantista – come un diritto ancora tutto da conquistare.

Piuttosto che intervenire in via legislativa, quindi, magari giungendo a depenalizzare il suicidio assistito o le pratiche eutanasiche, per la Commissione Sicard sarebbe necessario, invece, incominciare ad aprire un dibattito pubblico su questi temi, anche perché risulta praticamente impossibile pensare di prevedere e di rendere lecite, semplicemente introducendo una normativa ad hoc nell’ordinamento, tutta quella complessa ed articolata fenomenologia di casi che in concreto si possono verificare in questo ambito. Viceversa, il compito delle istituzioni dovrebbe essere quello di dare il via ad una discussione pubblica senza reticenze, non soltanto sull’idea della morte in una società post-moderna e secolarizzata, ma anche sul tema della vita e, soprattutto, sul ruolo della scienza medica.

In effetti, la possibilità che la medicina possa garantire, in futuro, una durata maggiore e una qualità della vita migliore rispetto al passato, non significa che essa possa garantire anche la possibilità, per gli uomini e le donne, di concludere la propria vita senza inutili sofferenze e sempre nel pieno rispetto della loro dignità individuale e “sociale”. Aprire un dibattito lungo e meditato su questi temi, ad avviso della Commissione Sicard, sarebbe molto più utile che procedere in tempi brevi e con approssimazione,  anche mediante una legge, ad ampliare (forse solo in astratto) la sfera di libertà degli individui.


Il "miglio verde": note a prima lettura alla sentenza "Hirsi"

Nei primi giorni del mese di maggio del 2009, circa 200 persone salpano clandestinamente dalle coste libiche su tre imbarcazioni di fortuna per raggiungere le coste italiane. Tra di loro ci sono 11 cittadini somali e 13 eritrei che, in questo modo, cercano di raggiungere il territorio del nostro paese al fine di richiedere asilo. Il 6 maggio le imbarcazioni si trovano a circa 35 miglia marine a sud di Lampedusa, in acque maltesi, quando vengono raggiunte da tre ammiraglie della guardia di finanza che, intercettate le imbarcazioni, le riconducono al porto di Tripoli dopo aver fatto salire a bordo tutti i passeggeri, senza però porre in essere alcuna procedura di identificazione. Dopo 10 ore di navigazione, le ammiraglie giungono al porto di Tripoli dove costringono con la forza i migranti a scendere dalla banchina e, in questo modo, li affidano alle autorità di pubblica sicurezza libiche, così come stabilito dal trattato internazionale stipulato tra i due paesi il 29 dicembre del 2007.

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L’insostenibile leggerezza del margine di apprezzamento. Il problema dell’eutanasia davanti ai giudici di Strasburgo: in margine al caso Haas c. Svizzera

Al contrario di quanto avviene per i casi concernenti l’inizio della vita umana, le questioni proposte dinanzi ai giudici di Strasburgo aventi ad oggetto il tema dell’eutanasia sono sostanzialmente sporadiche. La Corte non ha mai preso una posizione netta a favore di determinate pratiche, anzi, assai spesso le argomentazioni da essa impiegate sembrano piuttosto volte ad eludere il merito delle questioni oggetto del giudizio, determinando così una serie di aporie sotto il profilo argomentativo che risaltano in maniera inequivocabile agli occhi dello studioso.

Ciò è riscontrabile sin dalla prima sentenza con cui i giudici di Strasburgo hanno risolto un problema che riguardava l’eutanasia passiva: si tratta del caso Widmer contro Svizzera (sentenza di ammissibilità del 24.08.1998, ric. n. 20527/92) con cui la Commissione dichiarò inammissibile la richiesta di un cittadino svizzero che chiedeva la condanna del suo paese proprio perché non prevedeva una disposizione penale specifica in tema di eutanasia passiva. Il ricorrente si lamentava, infatti, che la morte del padre, avvenuta in una clinica della cittadina di Gorgier (nel cantone di Neuchâtel), non fosse stata considerata una forma di eutanasia passiva dalle autorità elvetiche e si lamentava della mancanza di una specifica norma al riguardo, all’interno dell’ordinamento giuridico svizzero.

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Da Babele a Strasburgo. Leggendo "Diritti fondamentali europei", a cura di Alberto Vespaziani

Negli ultimi anni, gli studiosi di Diritto pubblico comparato si sono sempre più interessati, oltre che alle tradizionali questioni scientifiche riconducibili alla “forma di Stato” ed alla “forma di governo”, anche all’analisi della protezione e del riconoscimento dei Diritti fondamentali da parte delle Corti europee, sia nazionali che sovranazionali. Il risultato di questo ampliamento dell’orizzonte della ricerca scientifica ha determinato una frattura evidente nella metodologia d’insegnamento del Diritto pubblico comparato, soprattutto per quanto concerne la didattica, sempre più incentrata sullo studio della giurisprudenza e degli argomenti utilizzati dalle Corti europee nelle loro decisioni.

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Comparare i diritti fondamentali in Europa ... Ovvero del rischio di prendere un granchio

Con una decisione del 20 gennaio 2009, passata sotto silenzio in dottrina, la III sezione della Corte di Strasburgo è ritornata sul tema della protezione equivalente dei Diritti fondamentali tra ordinamento comunitario ed ordinamento convenzionale, precisando una serie di rilievi precedentemente formulati nella sentenza Bosphorus: stiamo parlando del caso Cooperatieve Producentenorganisatue van de Nederlandse Kokkelvisserij c. Olanda (Application n. 13645/05).

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