Una sincretica sinergia? Recensione a “Diritto: storia e comparazione. Nuovi propositi per un binomio antico”, di Massimo Brutti e Alessandro Somma (a cura di), Max Planck Institute for European Legal History, Frankfurt am Main, 2018

L'opera collettanea dal titolo “Diritto: storia e comparazione. Nuovi propositi per un binomio antico” è il risultato di lavoro del Simposio organizzato dai Professori Massimo Brutti e Alessandro Somma, il 7-8 ottobre 2018, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.
Il Volume, fin dalle sue prime battute, riesce a imporre una componente essenziale della “nuova” sinergia – del manifesto ideale congiunto – che si vorrebbe (ri-)affermare tra storia del diritto e della comparazione giuridica. E ciò già grazie alle riflessioni sull’invenzione del passato, quale sistema di legittimazione dei discorsi politico-giuridici, perno del contributo di Aragoneses (5 ss.), che contribuisce da subito a “smascherare” parte della retorica sulla c.d. neutralità delle due discipline.
Lungo dinamiche analoghe si muovono le pagine di Augusti (31 ss.), dove si ricostruisce il percorso intrapreso, sotto la spinta della globalità, dalla storiografia giuridica italiana in direzione di una pluralistic legal mind, nel senso di una sincretica interdisciplinarietà; da qui l’incontro sia voluto sia necessitato con la comparatistica, e che ha finito per consegnarci, tra gli altri, studi e ricerche di storia del diritto internazionale e delle relazioni internazionali.
Il saggio di Brutti (49 ss.) si può senz’altro leggere come un cappello teorico-propositivo all’interno del quale si diramano l’insieme degli interventi raccolti nel Volume. Per il tramite di un attento vaglio del pensiero di Savigny, si sottolinea innanzitutto come sia piuttosto risalente l’idea che un certo approccio c.d. unificante – tutto volto all’edificazione del diritto comune (allgemeines Recht /ius commune) – sia opera esclusiva e necessitata del giurista dottrinale, chiamato a ridurre a unità ciò che appare frammentato (muovendosi nella Storia, e tra i Popoli, con la lente della “tradizione”), ricomponendo l’insieme come Sistema con le sue unità dogmatiche, ed escludendo quanto con queste stesse unità – ricavate dal diritto romano – appare come disarmonico. Un meccanismo che verrà poi riproposto in successive occasioni (anche con riferimento al processo di edificazione di un diritto privato europeo comune), e sempre con l’intento di produrre un ordine normativo che, in quanto “meramente” tecnico-concettuale – per via di sistematizzazione – non può che essere spoliticizzato. Ebbene, secondo Brutti il binomio tra storia e comparazione, all’opposto, può e deve muoversi da una storia e comparazione dei dogmi verso una storia e comparazione dei contesti.
Raccogliendo l’invito da ultimo sintetizzato, nel caso dello scritto di Calore (81 ss.), muovendo da una lettura dell’esperienza romana, ci si impegna con attenzione nell’utilizzare la pratica della contestualizzazione, per arrivare da ultimo a una definizione di civitas che appare molto più articolata e poliforme rispetto a quanto talvolta emerso in passato; una cittadinanza, quella romana, che ha saputo arricchirsi, non fosse altro per ragioni di gestione dell’accoglienza, anche del dato dell’inclusione. Un’operazione che presenta dei tratti di similitudine – quanto a contestualizzazione – con quella perfezionata da Casabona (95 e ss.): in questo caso si tratta di far dialogare microstoria (i.e. storia dal basso, rappresentazione del vissuto) e comparazione giuridica, che bene sembrano accompagnarsi sia per la loro comune affezione per il contesto, sia per la loro condivisa disaffezione nei confronti delle categorie dogmatiche. Il tutto contribuisce a riconsiderare alcune delle narrazioni giusnaturalistiche in tema di obbligazioni alimentari e del loro sotteso fondamento di solidarietà familiare.
Il contributo di dalla Massara (111 ss.) mette a raffronto critico – con metodo storico-comparatistico (comparazione diacronica) – la declinazione contemporanea (e in special modo della Corte di cassazione) del concetto di abuso del diritto con quella romana dell’istituto dell’exceptio doli generalis: emerge un rapporto che, fuori dagli “automatistici” richiami a favore della sovrapposizione/identità, presenta sia degli elementi di comunanza che di dissonanza.
Riprendendo idealmente alcune delle risultanze che sono affiorate dai saggi che lo precedono, Duve (149 ss.) suggerisce che storia del diritto e comparazione giuridica possano – e in una certa misura (volenti o nolenti) debbano – incrociarsi sul terreno dell’analisi degli ordinamenti transnazionali e della Legal Global History: così ad esempio, sottolinea l’Autore, non si potrebbe seriamente affrontare il fenomeno del “pluralismo normativo” senza spendersi in una ricerca diacronica e genuinamente anti-positivista. Eppure, osserva efficacemente Ferrari (187 ss.), non sempre i manuali italiani di giuscomparatistica si dedicano analiticamente al metodo storico, e questo anche laddove i loro autori ne facciano poi un effettivo impiego. E similmente nel contesto statunitense – qui però per ragioni strettamente connesse al confronto tra originalisti e non – anche coloro che si sono avvicinati alla comparazione sembrano rifiutare l’impiego del metodo storico.
Sviluppando le riflessioni sul ruolo della comparatistica nel contemporaneo contesto c.d. global-oriented, tra le altre cose Frosini (207 ss.) sottolinea la funzione che la comparazione dovrebbe assumere, da un lato, nel rapporto dialogico e di raffronto – ma non assimilazionista – tra i legislatori nazionali in tema di policies (rapporto ancora in via di definizione), e dall’altro in tema di drafting e better regulation (al momento più avanzato del primo).
Proseguendo lungo le pagine del Volume ci si confronta con la proposta di Grondona (219 ss.) che, avvalendosi di uno scritto di Ascarelli di introduzione critica ad alcuni testi di Hobbes e Leibniz, si spende nel circoscrivere il contributo della giurisprudenza all’interno delle odierne società liberal-democratiche, particolarmente interessate da una rete plurale di fonti nuove. Queste ulteriori fonti, assieme alle dinamiche politiche, sociali ed economiche che ne rappresentano il sostrato, pongono in seria discussione l’essenza degli ordinamenti statali-nazionali, che da tempo non sono più attori principali di un’esperienza giuridica oramai immersa nell’epoca del diritto transnazionale. Un’epoca che per essere pienamente intelligibile, argomenta Lacchè (245 ss.), necessita di una ridefinizione (anche) della storia comparata del diritto, dei suoi concetti e categorie. Tra gli altri proponimenti e impegni suggeriti, si sostiene che occorrerebbe dotare la “cassetta degli attrezzi” di una (innovativa poiché inclusiva) definizione di cultura giuridica, che sia capace di tenere assieme pratica professionale e teorica, tradizione e mutamento, norme giuridiche e norme sociali.
Un ripensamento, quello che riguarda il rapporto storia-comparazione, che rappresenta il corpo sul quale Monateri (267 ss.) innesta una lettura organica del “problema” delle tradizioni giuridiche e delle loro nervature – ovverosia, di alcuni dei capisaldi classici della riflessione storico-comparatistica, ridefinendo da ultimo i connotati di talune delle narrazioni sul tema: così accade, ad esempio, per il rapporto tra sovranità e dominio sul “giuridico” che in ambito continentale sembra consolidarsi già prima della codificazione, per il tramite di una giurisdizione che veicola (in quanto rappresentante “plenipotenziario”) la persona del sovrano financo all’interno del recinto-giudizio.
Una lettura che si può definire anch’essa inserita nel solco della ri-maturazione delle classificazioni è quella offerta da Mostacci (291 ss.), che sviluppa un’indagine improntata alla comparazione diacronica, e con oggetto l’incidenza dei sistemi economici sull’evoluzione della forma di Stato, per concludere rappresentando una contemporaneità nella quale l’ordinamento politico pare funzionalizzato agli equilibri economici di volta in volta raggiunti dai e tra i privati.
Sempre al tema della sistematologia, si può certamente ascrivere il saggio di Nicolini (323 ss.), le cui considerazioni sui contesti africani consegnano – come in passato già accaduto per l’esperienza (“periferica”) sudamericana, la possibilità di circoscrivere tradizioni nuove che, se non interamente sorte fuori dall’influenza europea-coloniale, hanno comunque saputo esprimere fattori (ad esempio linguistici) propriamente identitari di conformazione giuridica. Proseguendo lungo la traccia della c.d. de-occidentalizzazione, si trova il contributo di Nuzzo (359 ss.) che, affidandosi a una disamina critica di materiali giusinternazionalistici classici (dottrinali e non), perviene a una destrutturazione (si potrebbe dire post-coloniale) di alcuni fondamentali del diritto internazionale.
Le facciate dello scritto di Pascuzzi (379 ss.) sono invece dedicate alla questione della matrice essenziale – verrebbe da dire ontologica più che epistemologica – della comparatistica giuridica. Un’essenza che va ricercata non certo nell’oggetto di studio (matrice, quest’ultima, propria di ben altri settori), quanto semmai nel modus adoperato per tentare di conoscere/comprendere (per l’appunto, il comparare); il che tra le altre cose porta a una consequenziale apertura per ogni possibile aspetto e metodo che arricchisca/permetta il modus, non da ultimo quello storico.
Tra gli aspetti/metodi che s’impongono quasi come indispensabili senz’altro vi si individua quello della contestualizzazione, che trova un’interessante applicazione (anche) nello scritto di Pavani (410 ss.), con oggetto le resistenze del continente sudamericano rispetto al processo di decentralizzazione. La quasi immutabilità della struttura amministrativa sembra sia causata da un sostrato (si parla di crittotipo) marcatamente “centralista instillatosi lungo secoli, soprattutto a causa della colonizzazione. Un’ulteriore e possibile declinazione dell’approccio contestualista è presente nel saggio di Poggeschi (419 ss.), all’interno del quale ci si concentra sulla relazione tra fenomeno linguistico e giuridico (con “vantaggi” per il secondo laddove mutuasse le conquiste scientifiche più recenti del primo), suggerendo, tra le altre cose, una possibile reciproca interferenza tra comparazione in ambito giuridico e quella di tipo linguistico (con ricadute, ad esempio, in tema di classificazione delle famiglie).
Al contempo, l’eventualità che scenari non originariamente giuridici possano talvolta falsare alcuni dei paradigmi che compongono lo statuto della giuscomparatistica è sottoposta ad analisi critica da parte di Resta (457 ss.): nello specifico, si tratta innanzitutto di evidenziare l’insieme delle problematiche che si potrebbero verificare – e che in parte sembrano già essersi verificate – a causa dell’imporsi della c.d. New comparative law and economics; quest’ultima riproponendo alcuni dei principi dell’economia neo-classica, per lo più imposti alla stregua di assiomi universali propri di un sistema di mercato che si (rap-)presenta tanto “naturale” quanto ineluttabile, rischia di compromettere la valenza del contesto. Il risultato sarebbe diverso, secondo l’Autore, se ci si avvicinasse ad interpretazioni (così nel pensiero di Polanyi) che tengono in debito conto il profilo del fattore storico. Un simile profilo è integralmente recuperato da Scarciglia (477 ss.), che sottolinea l’intreccio pressoché coessenziale tra storia del diritto e comparazione, specie in vista dell’edificazione di una possibile “storia globale del diritto comparato”: perché ciò possa verificarsi, occorre che storia e comparazione consolidino una metodologia efficacemente pluralistica e un campo di osservazione effettivamente extra-occidentale.
All’interno di tale prospettiva, un posto di primaria importanza andrebbe attribuito alla letteratura, così come pare suggerire il contributo di Serio (491 ss.), per il quale non si può cogliere l’evoluzione del sistema inglese di inizio Ottocento se non ci si sofferma adeguatamente sulle pagine dello “storico del diritto” Charles Dickens. Ciò perché, da un lato, Dickens denunciò argutamente inefficienze e complicazioni del sistema processuale/giurisdizionale proprio per il tramite dei suoi personaggi; dall’altro, perché anche grazie ai suoi romanzi si avviò un processo legislativo riformista, che alla fine ci consegna uno dei primissimi casi di literature as law.
Riallacciandosi ad alcune delle osservazioni di altri autori del volume (in particolare: Brutti, Mostacci e Resta), Somma (509 ss.) – attraverso un’opera di comparazione propriamente diacronica – propone il tema della messa in discussione della (presunta) neutralità del giurista (rispetto alle variabili storiche, sociali, economiche, e quindi politiche). Una neutralità che ha condotto il giurista, talvolta a promuovere, talaltra a legittimare, progetti di ingegneria sociale – spesso pubblicizzati come “comparatistici” (Doing Business Reports), altrove come “storico-comparatistici” (positivismo neo-pandettista) – strutturati nel senso di voler subordinare l’ordinamento politico rispetto a quello economico, e quindi a imporre le sole istituzioni giuridiche del common law (individuate come benchmark per eccellenza) quale veicolo per l’ineluttabile fine della Storia, ovverosia come percorso di convergenza (forzosa) verso il solo modello capitalista definito dall’Autore “neoamericano”. In questi termini, la storia del diritto e la comparatistica, accomunati da una prospettiva contestualista rispetto al fenomeno giuridico, rappresentano le due discipline chiamate a un impegno critico nei confronti di tali dinamiche di spoliticizzazione del dibattito pubblico e delle sue istituzioni.
In relazione a taluni progetti di c.d. Comparative legal history, interessati, ad esempio, nell’includere “a pieno titolo” anche le esperienze scandinave, la Russia e l’Europa dell’Est, Sordi (542 ss.) mette in luce le complicazioni – solo in parte agevolmente affrontabili – di una simile impresa: su tutte, resistenze nell’abbandonare le proprie “specificità” nazionali (così in ambito europeo), nonché la mole pressoché sterminata di materiale (fonti, epoche, contesti geografici, istituti, autori) che bisognerebbe compendiare.
Simili difficoltà emergono anche nella storiografia comparatistica sui diritti antichi, della quale Stolfi (551 ss.) offre una lucida rappresentazione, aggiungendo un ulteriore elemento di considerazione, ovverosia la necessità di ridurre entro schemi di approssimazione vicende che si snodano lungo secoli; operazione che tuttavia licenzia il conto di una fittizia sovrapposizione di contesti tra loro distanti e dunque in tal misura forse lato sensu incomparabili.
Da ultimo, a chiusura della collettanea, Zeno-Zencovich (575 ss.) propone un percorso di “storia giudiziaria contemporanea”, che andrebbe alternato tra “microstoria” (singole significative vicende processuali) e “macrostoria” (del contesto, delle dinamiche sociali di contorno e di influenza, delle istituzioni giudiziarie considerate) e che presto diviene anche terreno fecondo per la comparazione giuridica. Ciò non fosse altro perché l’attenzione per la dimensione giudiziaria – così come intesa dall’Autore (micro e macro) – porta a considerare anche le c.d. catene – per dirla alla Dworkin – dei precedenti e quindi la loro incidenza sull’ordinamento, congiuntamente, politico-sociale e giuridico.

In conclusione di questa scheda di lettura, non resta che una breve considerazione. Pur nella varietà dei contributi che compongono il Volume, per cui ogni opportuna e definitiva metabolizzazione ovviamente non può che rinviarsi al lettore, sembra potersi dire che gli organizzatori del Simposio - dal quale è stata ricavata la collattanea - abbiano promosso un confronto nel quale studiosi e studiose della storia del diritto e del diritto comparato siano riusciti a dare pieno significato a parte delle parole che Stefano Rodotà pose ad apertura del suo illuminante “Il problema della responsabilità civile”:

«Nel dibattito sul tradizionalismo accade spesso di veder confusi due diversi problemi: l’atteggiamento che il giurista positivo deve assumere verso il diritto romano, da un canto, e il modo in cui lo stesso giurista deve considerare i fatti sociali, dall’altro. […] E quando s’usa discutere con tono scandalizzato di queste affermazioni, non ci si accorge che una cosa è la sostituzione degli schemi romanistici con altri più aderenti alla realtà dei tempi, altro sarebbe rinnegare l’importanza culturale del diritto romano. La tradizione s’identifica così con l’esperienza culturale di un ambiente, conosciuta storicamente: non già comodo schermo, al riparo del quale far prosperare il conformismo e la pigrizia, ma coscienza della dimensione vera dei fatti».