L’importanza di essere unici.
L’agenda europea sulla migrazione e i difficili sviluppi dell’accordo di Malta.

Lo scorso 16 ottobre, la Commissione europea ha presentato una relazione sui principali sviluppi delle politiche europee messe in campo dalle istituzioni di Bruxelles in materia di migrazioni e gestione dei richiedenti protezione internazionale. Una materia dove il sottile velo che differenzia le competenze dell’UE e quelle degli Stati membri è difficile da intravedere, dove il termine “unico” si ripete nei documenti giuridici, nelle dichiarazioni e nelle intenzioni dei differenti organi coinvolti.
Unico e comune, ad esempio, è il sistema di asilo europeo, prospettato già dal 2015, e che dovrebbe concretizzare quanto già contenuto nel Trattato di Lisbona, ovvero la realizzazione di uno «status uniforme in materia di asilo per i cittadini di paesi terzi» (art. 78 TFUE). Da qui, le diverse fasi di implementazione del cd. CEAS (Common European Asylum System) sancite a livello intergovernativo nel Programma di Stoccolma, i cui risultati più tangibili sono stati sintetizzati, senza dubbio, nei testi normativi delle Direttive 2001/95/UE (Qualifiche), 2013/32/UE (Procedure) e 2013/33/UE (Accoglienza); a ciò si aggiunga - almeno per completezza - il tanto discusso regolamento n. 604/2013, comunemente conosciuto come Reg. Dublino, in merito alla determinazione del Paese competente ad esaminare la domanda di protezione del migrante all’interno dell’UE. Un quadro che, di per sé, lascia molto spazio all’azione dei Paesi membri, siano essi di arrivo, di transito o di accoglienza. Già nelle parole della Commissione, infatti, si evince che sono «stati compiuti progressi su cinque delle sette proposte» e, quindi, la riforma di questo sistema «non è ancora una realtà e rimane aperta l'esigenza di un approccio comune».
Unica, ma forse non troppo condivisa, è anche l’esigenza di rinnovare i procedimenti amministrativi per il riconoscimento dei diversi titoli di protezione internazionale nei singoli Stati membri. In tal senso, sembrava muoversi proprio il cd. Regolamento Dublino III che, ormai in forza dal 2014, ha avuto comunque il merito di garantire una lieve armonizzazione del sistema rispetto al passato e - laddove è stata riscontrata la collaborazione attiva degli Stati - un’attenzione verso i diritti personali del richiedente. Tuttavia, questi testi normativi nel loro insieme sono anche un inevitabile simbolo della stratificazione di cui soffre questo particolare ambito dell’azione europea, probabilmente troppo intriso di quel timore preventivo che gli stessi governi non mancano di manifestare verso il cd. “asylum shopping”, vale a dire quel meccanismo che sembra innescarsi, non solo in seguito al sistema Dublino, e che consentirebbe al migrante di scegliere il luogo dove richiedere la protezione, contravvenendo all’ormai nota regola del Paese di primo approdo. Tuttavia, queste deduzioni, che si soffermano soltanto sulle ormai risapute criticità di una “regola” di diritto derivato, sarebbero troppo semplicistiche se non rapportate ad altre variabili che necessariamente influenzano il sistema europeo.
È indubbio, infatti, che la gestione del fenomeno migratorio si anima di altri peculiari strumenti, che vanno dalla cooperazione rafforzata con gli Stati terzi alla prevenzione di situazioni in cui lo straniero potrebbe essere leso nei suoi diritti fondamentali o - peggio ancora - rischiare ulteriori trattamenti inumani o degradanti. Eppure, è altrettanto vero che lo stesso Regolamento Dublino III stabilisce che «Uno Stato membro dovrebbe poter derogare ai criteri di competenza, [..] al fine di consentire il ricongiungimento di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela ed esaminare una domanda di protezione internazionale presentata in quello o in un altro Stato membro, anche se tale esame non è di sua competenza» (art. 17). Pertanto, sebbene si tratti di una eccezionalità, gli Stati membri - già a legislazione vigente - potrebbero usufruire di tale strumento per scongiurare il protrarsi di situazioni emergenziali. L’approccio interno, tuttavia, sembra ancora cristallizzato su posizioni scarsamente collaborative che  - anche in virtù di riforme delle legislazioni nazionali - rallentano ancora di più la creazione di quello spazio unico di protezione europea che la stessa Agenda sulla migrazione si prefigge di perseguire. Ecco, quindi, che appaiono come sbiaditi quei precetti di fiducia reciproca fra gli Stati, nel rispetto dei diritti delle persone migranti (il cd. mutual trust) e la condivisione degli oneri per la presa in carico dei richiedenti asilo (il cd. burden sharing).
Rispetto alla realizzazione di un sistema di protezione unico, sommessamente, si ha ragione di credere che abbia guadagnato più enfasi la difesa da quelli che la Direttiva 2011/95/UE chiama “movimenti secondari”. Eppure, questo fenomeno - se considerato nella sua essenza giuridica e, perciò, non solo come elemento del dibattere politico, porterebbe a soffermarsi su un’altra importante questione: l’eccessiva stratificazione normativa e la differenziazione amministrativa che ancora sussiste all’interno degli ordinamenti statali ha come plausibile conseguenza la mancata percezione di un sistema di tutela unitario, anche da parte dello stesso migrante. Certamente, tutto ciò può essere generato da questioni interne agli stessi Stati e che riguardano la sostenibilità del procedimento di esame delle domande di protezione; sarebbe comunque errato sottovalutare l’influenza dettata dall’azione del legislatore, ogni qual volta essa sia ispirata da logiche securitarie, che vanno esattamente in senso contrario a quanto previsto dall’Agenda europea: in questo modo, l’intento redistributivo corre il rischio di essere facilmente confuso con quello punitivo.
È all’interno di questo contesto che si inserisce l’accordo raggiunto a Malta lo scorso 3 settembre  e che prevede, almeno nella sua versione attuale, la creazione di un sistema preliminare e temporaneo di gestione dei richiedenti protezione internazionale che provengono - si badi bene - dalle rotte del Mediterraneo centrale. L’intento redistributivo, inoltre, verrebbe assicurato da un sistema di rotazione dei porti di attracco, atto ad rendere più efficiente l’approdo e lo sbarco dei migranti e non gravare verosimilmente sulla singola e spesso indotta volontarietà delle autorità costiere di taluni Stati membri. Il meccanismo di ricollocazione - nel documento - dovrebbe essere celere e non superare le quattro settimane dall’arrivo delle imbarcazioni, derogando - nei desiderata dei contraenti - la regola del Paese di primo approdo, attraverso la gestione coordinata con la Commissione europea. Va precisato - tuttavia - che le negoziazioni hanno portato a considerare l’applicazione dell’accordo solo rispetto ai salvataggi compiuti in mare dalle organizzazioni e dalle autorità marittime già impegnate nelle operazioni SAR (ricerca e soccorso), escludendo tutte le altre possibilità di approdo.
Dal punto di vista più squisitamente giuridico, emergono subito alcuni elementi che rendono l’accordo più simile ad un “progetto” che a un documento di cooperazione interstatale: in primo luogo, la sottoscrizione è volontaria ed ha una prima validità di sei mesi, che può essere tuttavia estesa attraverso il placet di tutti i Paesi contraenti. La volontarietà dell’impegno, infatti, si trasferisce anche sul menzionato meccanismo di rotazione dei porti di approdo, giacchè la garanzia di un attracco viene assicurata sempre grazie alla collaborazione dello Stato membro e non in virtù di un obbligo. Del resto, la funzionalità di un simile strumento normativo si basa, inevitabilmente, anche sul mutual consent dei Paesi interessati e, non di meno, sulla capacità di ampliare la platea dei governi contraenti. Tuttavia, va senz’altro ricordato che un documento di questo tipo sarebbe - almeno in via potenziale - pienamente in linea con quella potestà di concludere accordi inter se che è in capo agli Stati membri nelle materie di loro competenza e, quindi, potrebbe essere incluso nel diritto UE, senza però essere annoverato tra le fonti (es. Convenzione di Prüm). Infine, bisognerebbe sondare la portata di tutti i precetti dell’accordo alla luce del diritto internazionale vigente, in particolare rispetto ad alcune clausole (tra le tante, quella del minimum further deviation) che potrebbero influenzarne l’applicazione. Gli sviluppi di un simile strumento, quindi, così come la capacità di essere realmente effettivo ed efficace sono fortemente garantiti - ancora una volta - dall’impegno solidaristico degli Stati membri. In ogni caso, qualora si mantenesse l’impianto originario, il documento firmato a Malta sfiorerebbe lievemente l’ambito di applicazione del regolamento n. 604/2013, anche perché riguarderebbe solo in parte le possibilità di arrivo all’interno dei confini europei: il carattere “geografico” della redistribuzione, infatti, non tiene conto delle ulteriori rotte di migrazione verso i Paesi dell’Unione europea.
Certamente, la collaborazione volenterosa degli Stati va accolta come provvida e quantomai necessaria, tenuto conto che in passato è stata una delle grandi lacune riscontrabili nell’azione europea. Tuttavia, è opportuno che alla mera gestione dei flussi, si rafforzi la protezione degli individui. Da qui deriva la rinnovata importanza nell’essere unici, poiché un sistema comune non si esaurisce con la condivisione degli intenti e la protezione dei confini ma deve estendersi - con umile auspicio - alla protezione dei diritti e alla considerazione del richiedente asilo nel suo complesso, vale a dire non solo relativamente alla presa in carico da parte degli Stati, bensì assicurando una procedura - unica e univoca - per il riconoscimento della protezione internazionale. Da qui, si spera che possa (ri)partire l’azione delle istituzioni europee.


Questa iscrizione s’ha da fare. A proposito del requisito di abitualità della dimora dei richiedenti protezione internazionale

Le novità introdotte dal cd. Decreto “Immigrazione e Sicurezza” n. 113/2018 sono state molteplici e forse non sempre facili da comprendere. Alcune, tuttavia, hanno sin da subito esplicato effetti giuridici assai rilevanti (come già discusso su questo blog), specie per ciò che concerne la peculiare, ma non per questo meno importante, condizione giuridica dei richiedenti protezione internazionale. Quest’ultima, sul piano della tutela, è stata oggetto di un preciso e talvolta ingiustificato ridimensionamento. In ogni caso, si ricordi che tali soggetti sono sottoposti al vaglio della Commissione Territoriale per la concessione di un titolo che consente loro non solo la mera permanenza sul territorio, bensì identifica la natura della protezione stessa da eventuali pericoli o timori di persecuzione. Ciò nonostante, il legislatore ha ritenuto che fosse possibile la preclusione dell’iscrizione anagrafica per questa tipologia di stranieri presso il Comune di competenza, ovvero l’amministrazione del territorio che “ospita” il migrante in attesa di un responso. Allo stesso tempo, va altresì ricordato che la già citata normativa, così come confermata in fase di conversione, ha stabilito che gli stessi richiedenti asilo non possano più accedere al servizio di protezione ordinario (sinora, SPRAR) e quindi usufruire dell’accoglienza integrata che – all’atto pratico – accompagna il beneficiario verso un inserimento autonomo all’interno della comunità locale. Quale sorte, quindi, per l’identificazione della loro presenza sul territorio?
Nello specifico, l’art. 13 del DL n. 113/2018, così come convertito dalla legge n. 132/2018, ha introdotto il nuovo art. 4.1-bis nel D.lgs. 142/2015, in virtù del quale si stabilisce che «il permesso di soggiorno di cui al comma 1 non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223, e dell’articolo 6, comma 7, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». Una semplice lettura, quindi, sembrerebbe escludere la possibilità di registrare anagraficamente tali soggetti poiché non in possesso di tutti i requisiti di legge. Tuttavia, è bene sin da ora sottolineare che nell’ordinamento giuridico italiano il concetto di regolarità del soggiorno non coincide in maniera esplicita e diretta con il mero possesso di un permesso di autorizzazione per lo straniero, bensì tale condizione deve desumersi da un’analisi più ampia delle disposizioni di legge. È quanto si evince, tra i tanti esempi possibili, dall’art. 5 del Testo Unico Immigrazione (d’ora in poi, TUI) il quale identifica tra le ammissibili situazioni giuridiche atte a concretizzare la regolarità del soggiorno anche eventuali titoli equipollenti rilasciati dalle autorità degli Stati membri dell’Unione europea. A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 6, comma 7 del TUI, e dell’art. 15, comma 1 del DPR 31 agosto del 1999, n. 394, l’iscrizione (così come le successive variazioni o cancellazioni) nel registro anagrafico per quanto riguarda lo straniero sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani, fatti salvi i casi e secondo i criteri previsti dalla legge e dallo stesso regolamento anagrafico.
Su questo delicato punto, vale a dire per ciò che concerne l’interpretazione della disposizione introdotta dal DL n. 113/2018, ha avuto modo di esprimersi il Tribunale di Firenze attraverso una dettagliata e ben suffragata argomentazione giuridica, prescrivendo per l’amministrazione comunale l’immediata trascrizione del ricorrente, a seguito di quella che potremmo definire una interpretazione della normativa alla luce dei dettami costituzionali. Vale la pena sottolineare che, in suddetta ordinanza, si precisa come il precetto in questione debba intendersi come «un testo legislativo inserito nell’insieme dell’ordinamento giuridico», senza per questo assumere per predominante qualsivoglia interpretazione dell’organo che lo ha emanato. Va da sé l’esigenza di utilizzare il «canone della coerenza con l’intero sistema normativo», unita ad una più certa «coerenza che andrà evidentemente ricercata anche sul piano costituzionale». Sul punto, si fa esplicito riferimento a quanto già sancito dalla Corte di Cassazione, tra le altre, nella sentenza n. 3550/1988.
Proprio questa interpretazione onnicomprensiva delle norme vigenti fa concludere in maniera netta che «ogni richiedente asilo, una volta che abbia presentato la domanda di protezione internazionale, deve intendersi comunque regolarmente soggiornante». Su questo ultimo punto, tuttavia, occorre precisare che l’eventuale regolarità dell’autorizzazione a sostare sul territorio dello Stato sarebbe comprovata dall’avvio del procedimento atto al riconoscimento della protezione internazionale, nonché attraverso il susseguente attestato rilasciato dalla Questura a qualsiasi soggetto inizi tale iter innanzi alla Commissione Territoriale. Come dire che, almeno per ciò che riguarda questo lasso di tempo e rispetto alle questioni documentali, non esiste alcun impedimento per la PA di iscrivere il soggetto all’interno dei propri registri comunali. Peraltro – come giustamente si osserva nell’ordinanza del 18 marzo 2019 – ciò che la recente normativa sembra abrogare è la cd. convivenza anagrafica, vale a dire quell’istituto che consentiva al responsabile della struttura di accoglienza dove risiede lo straniero di richiedere l’iscrizione anagrafica grazie ad una semplice comunicazione e sotto la sua responsabilità, ovvero attraverso l’invio del mero permesso rilasciato a seguito della richiesta di protezione (ex DL 17 febbraio 2017, n. 13). In effetti, con l’eliminazione di questa procedura semplificata il legislatore ha ripristinato la piena parità di trattamento (anche sul piano dell’accertamento) tra tutti i soggetti, a prescindere dalla propria condizione giuridica, ivi compresi i cittadini italiani.
Proprio sulla necessità di leggere la normativa appena riformata dalla legge n. 132/2018 in combinato disposto con tutti gli obblighi vigenti nell’ordinamento italiano, è intervenuta una decisione del Tribunale di Bologna, con ordinanza dello scorso 2 maggio 2019, che ribadisce alcuni punti essenziali già analizzati dal giudice fiorentino. In particolare, a seguito di un ricorso d’urgenza presentato in virtù delle medesime cause di diniego, il magistrato emiliano ritiene che quanto introdotto a seguito della riforma debba comunque essere interpretato alla luce degli artt. 2 e 117 Cost., l’art. 14 CEDU, nonché l’art. 2 del TUI. Tale rilevanza dei diritti fondamentali, in ogni caso, sarebbe comunque correlata da una legittimazione al soggiorno conferita dal permesso per richiesta asilo che - a parere del giudice - contemplerebbe a pieno quel requisito di abitualità della dimora necessaria per ottenere la iscrizione nei registri di residenza, ex art. 6, comma VII del TUI. Durante questo periodo, infatti, corrisponde allo straniero «l’interesse dei privati ad ottenere le certificazioni anagrafiche ad essi necessarie per l’esercizio dei diritti civili e politici» (cfr. Sentenza della Corte di Cassazione SS.UU. n. 449/00).
Nell’ordinanza di Bologna, in modo chiaro, si evidenzia come la nuova normativa e relative circolari emanate dal Ministero degli Interni non aiutino «a risolvere le complessità di compatibilità costituzionale» dei precetti in esame. Spetta, dunque, al potere giurisdizionale «la lettura costituzionalmente orientata della disposizione in parola» accogliendo l’istanza della richiedente, poiché la mancata iscrizione impedirebbe «l’esercizio di diritti di rilievo costituzionale ad essa connessi, quali solo ad esempio quello all’istruzione ed al lavoro».
Questo filone interpretativo sembra essere ancor più rafforzato anche dalla recentissima ordinanza del Tribunale di Genova del 22 maggio 2019, attraverso la quale è stato ribadito che l’iscrizione anagrafica è un diritto soggettivo perfetto del soggetto, il cui diniego implicherebbe una violazione della legge anagrafica del 1954, del successivo DPR n. 223/1989, nonché del principio di non discriminazione degli stranieri regolarmente soggiornanti, per ciò che riguarda l’accesso alla residenza. Anche in questo caso, prescrivendo l’iscrizione dello straniero nei registri, il giudice ordinario fa riferimento alla regolarità conferita dal deposito del modello C3 di richiesta protezione presso la questura, che conferma - qualora ve ne sia dubbio - l’autorizzazione pro tempore al soggiorno. Abrogato l’automatismo che prevedeva una sorta di procedura accelerata di iscrizione, quindi, si ristabilisce il precedente procedimento amministrativo ma va, comunque, fatto salvo il diritto al pari trattamento e, non ultima, la tutela dei diritti fondamentali della persona umana.


Dopo gli stranieri.
Brevi riflessioni su immigrazione e (in)sicurezza

Cosa significa essere protetti? Qualche anno fa, in un celebre esercizio di ricostruzione sociologica e politica, Robert Castel si interrogava sulle diverse declinazioni che il termine «sicurezza» è in grado di assumere nelle società contemporanee: considerando l’evoluzione odierna, Castel identificava una «sicurezza civile», che difende il cittadino dai cambiamenti sociali e morali e che è relativa ai beni e alle libertà; accanto a questa, vi è la più nota «sicurezza «sociale», che garantisce al cittadino un reddito contro i rischi della vita e del mercato. Come ricordava lo studioso, in queste società permeate da innumerevoli protezioni, il cittadino è pervaso da un «sentimento di insicurezza», talmente diffuso da generare «effetti sociali e politici» così apprezzabili «da entrare davvero a far parte della nostra realtà e da strutturare, in larga misura, la nostra esperienza sociale».
Questa (in)sicurezza si associa inevitabilmente alla percezione comune e corrente che si ha dei fenomeni migratori. Basti pensare che termini come “sbarchi”, “asilo”, “rifugio”, “protezione” e “flussi” sono stati spesso abbinati – e talvolta in modo incauto - ad altrettanti vocaboli e neologismi quali “invasione”, “clandestini” e “islamizzazione”. Accostamenti che, malgrado tutto, hanno risvegliato l’interesse verso concetti più radicati ed insiti nella cultura occidentale: razza, popolo, territorio e cittadinanza. Al di là del discorso semantico, è proprio da questo complicato incrocio dialettico - maldestramente ricomposto - che oggi riappare dalle ceneri di una recessione economica lo slogan “prima gli italiani”: una premessa posticcia che ispira coalizioni, manovre e atti legislativi orientati proprio alla regolamentazione di determinati ambiti della vita pubblica e dell’immigrazione.
Come è noto, il Decreto-legge n. 113 del 4 ottobre 2018 (denominato “decreto Salvini - immigrazione e sicurezza”) è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale (serie generale n. 231), ed è entrato in vigore il 5 ottobre 2018, con numerose disposizioni in materia di protezione internazionale, immigrazione e sicurezza pubblica. Tre settori - come si diceva, apparentemente accomunabili - in cui lo Stato agisce in funzione dei cittadini e della popolazione residente. Per questo motivo, il Titolo I del suddetto decreto elenca alcune misure dettate da «esigenze di carattere umanitario nonché in materia di protezione internazionale». Proprio sulla protezione a richiedenti asilo e rifugiati, il decreto n. 113/2018 interviene nel ridisegnare completamente l’impianto del Testo Unico Immigrazione (TUI), poiché abroga completamente dagli enunciati l’espressione «per motivi umanitari», restringendo questa peculiare (ma non isolata) forma di protezione temporanea ai soli casi di gravi motivi di salute, catastrofi naturali, abusi e atti di particolare valore civile verso l’Italia.
Su questo punto – di per sé molto critico e dibattuto – è facile rinvenire l’estrema difformità di questa decisione rispetto a quanto adottato dalla legislazione interna di alcuni Paesi membri dell’UE (da ultimo, Spagna e Grecia). Va precisato che le forme di protezione internazionale attualmente concesse dal nostro ordinamento, oltre a quelle previste dalla Convenzione di Ginevra del 1951, hanno prerequisiti ben delineati: si accorda, infatti, la cd. “protezione sussidiaria” a qualunque soggetto che non dimostri di aver subito una persecuzione personale ai sensi dell’art. 1 della Convenzione, ma tuttavia corra il rischio di soffrire un danno grave qualora tornasse nel suo Paese di origine (es. condanna a morte, tortura, minaccia grave e individuale alla vita, etc.). Per tutte le altre situazioni residuali, vale a dire dovute a seri motivi di carattere umanitario (es. vittime di sfruttamento lavorativo o di tratta) o risultanti da obblighi costituzionali stabiliti dallo Stato italiano, la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale è in grado di accordare una terza - e non meno importante - figura temporanea che assicura, in primis, «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana» (art. 10.3 Cost.).
Certamente, la natura dei flussi migratori è mutata rispetto al periodo in cui queste forme di protezione sono state recepite all’interno del nostro ordinamento. Eppure, sarebbe altrettanto miope non considerare che accanto alla metamorfosi delle “ragioni” (push factors) che spingono lo straniero a migrare, è cambiata anche l’entità e le motivazioni (pull factors) che caratterizzano questo fenomeno, oltre al reale e concreto aumento delle difficoltà di inserimento nelle comunità di accoglienza. Proprio per questo motivo, la protezione umanitaria è (e ci si augura che continui ad esserlo) una formula talvolta necessaria, a cui le Commissioni Territoriali hanno sempre fatto ricorso - previa audizione, seppur con discrezionalità - al fine di garantire copertura legale ad uno status che - vale la pena ricordarlo - è sancito a livello costituzionale.
La scelta operata dal legislatore nel comprimere il livello di protezione si riscontra anche nelle successive parti del Capo I e II del decreto, attraverso un approccio ancora più restrittivo in materia di trattenimento e rimpatrio del migrante: sono raddoppiati (da 90 a 180) i giorni di trattenimento all’interno dei “Centri di permanenza per il rimpatrio” (ex CIE) dove lo straniero attende che si concludano le procedure identificative o resta in attesa di tornare in patria. Rispetto a quest’ultimo punto - come annunciato dagli stessi estensori del decreto - si concentra anche una maggiore spesa finanziaria (art. 6), con un aumento stimato di € 3.500.000 fino al 2020. A ciò si aggiunga - per maggiore chiarezza - che l’atto legislativo autorizza il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando di gara, seppur per beni e servizi con un importo sotto la soglia comunitaria, al fine di costruire o “ammodernare” i centri di detenzione amministrativa. Tale misura potrebbe essere dettata dalla supposta necessità e urgenza di contenere gli arrivi e velocizzare le procedure di rimpatrio verso i Paesi che hanno sottoscritto i cd. accordi di riammissione con lo Stato italiano. Per quanto concerne il primo punto, al momento in cui si scrive è assai poco giustificabile il ricorso a questi strumenti (incluso ad una procedura negoziata per gli appalti) giacché i dati del Ministero degli interni confortano i timori di un incremento a riguardo (–80,14% rispetto allo stesso periodo nel 2017). Sul secondo punto, è certamente vero che l’Italia dal 1996 ha sottoscritto numerosi accordi per il rimpatrio - alcuni dei quali non entrati mai in vigore - ma, dall’altro verso, è bene segnalare che la riammissione avviene solo se l’autorità diplomatica del presunto Paese d’origine accerta e convalida l’identità del soggetto che, sinora, doveva concludersi nei 90 giorni di trattenimento. In caso contrario, le procedure possono essere ancora più complicate per la ritrosia di alcuni Paesi a riaccogliere i loro connazionali, vista la provenienza di molti di essi da territori a forte vocazione migratoria.
Sempre sul versante dell’accertamento dell’identità, il decreto n. 113/2018 interviene nel rendere possibile l’identificazione dello straniero anche in luoghi “speciali” posti ai valichi di frontiera (i cd. hotspot) con la possibilità per l’autorità di pubblica sicurezza (art. 3) di accordare un fermo di 30 giorni (cumulabili con i 180 dei CPR). In mancanza di disponibilità di posti, infine, previa autorizzazione del giudice di pace e su richiesta del questore, i migranti possono essere trattenuti anche in Uffici di frontiera (art. 4). Su questo punto, dove rilevante dottrina ha già avuto modo di esprimersi, si potrebbe obiettare ciò che da tempo appare evidente, ovvero la poca efficacia di queste misure detentive, tra l’altro assai dispendiose e poco rispettose di quanto previsto dall’art. 13 Cost. per ciò che concerne la tutela della libertà personale. Per non parlare, poi, delle possibilità “accessorie” di trattenimento che l’autorità pubblica può disporre in non meglio definiti “locali idonei”, assai discrezionale nell’applicazione, visto l’approccio lacunoso della legge vigente a riguardo.
Tra le tante novità, inoltre, vi sono importanti e profonde misure che trasformano - ancora più nello specifico - l’ambito dei richiedenti asilo e rifugio. In particolare, l’atto in commento agisce in modo assai peculiare, estendendo la lista dei reati per cui il soggetto potrebbe incorrere nella revoca dello status di rifugiato o - si badi bene - di protezione sussidiaria: tra queste, così come annunciato in precedenza dal governo, vengono inserite anche fattispecie ritenute ricorrenti quali la minaccia o violenza a pubblico ufficiale. Ciò che più desta attenzione, tuttavia, è il fatto che la domanda potrà essere sospesa anche quando lo straniero sia imputato - ovvero abbia un procedimento in corso - per uno dei reati elencati nel decreto. Allo stesso modo, se il rifugiato lascerà temporaneamente il territorio dello Stato perderà la protezione internazionale e quella sussidiaria. Si desume, quindi, l’intenzione da parte del legislatore di rendere più arguta la già non facile procedura per ottenere una forma di protezione internazionale, con una piena equiparazione della figura del rifugiato a quella della protezione sussidiaria (di origine comunitaria); quest’ultima forma, in realtà, acquisterebbe maggiore peso qualora le Commissioni territoriali fossero de facto impossibilitate ad accordare altre formule secondarie o accessorie, così come prevedono le stesse Direttive n. 2004/83/CE e n. 2011/95/UE. Sulla possibilità di revoca, infine, si assiste ad un inasprimento sproporzionato e spesso poco giustificato, se si considera l’eventuale diniego della protezione anche per i procedimenti ancora non passati in giudicato.
Ulteriore attenzione, infine, va riservata ad un altro ambito, di notevole importanza e talvolta non analizzato con la dovuta chiarezza: il settore dell’accoglienza. Dal decreto Salvini – in estrema sintesi – si desume che il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), uno strumento ordinario di politica sociale che viene gestito dai comuni italiani - in base ad un accordo con ANCI e UNHCR, rimodellato nell’agosto 2016 - sarà limitato solo a chi è già titolare di protezione internazionale (eliminando i “richiedenti”) e i minori stranieri non accompagnati. A questo, si aggiunge che i suddetti richiedenti (art. 13) non possono iscriversi ai registri anagrafici e, quindi, non avranno accesso alla residenza sul territorio. Sul sistema SPRAR, in realtà, sarebbe necessaria un’analisi più approfondita per delinearne gli effetti diretti e i rispettivi benefici a livello locale. Certo è che, ad oggi, siamo in presenza di circa 880 progetti, per un totale di 1.200 Comuni che – va precisato - aderiscono a questa rete di seconda accoglienza integrata esclusivamente su base volontaria e che, sino a quando sarà consentito, offre servizi per circa 36.000 beneficiari. Questo settore, più volte messo sotto accusa, è in realtà ben delimitato nelle sue azioni e nella rendicontazione dei fondi, poiché supervisionato da un Servizio Centrale che ne gestisce anche gli ingressi e le uscite dalla rete. A tal proposito, va altresì ribadito che l’amministrazione locale capofila è l’ente garante di tutto ciò che concerne l’andamento dei progetti. L’impatto di questo “esperimento” di gestione integrata, inoltre, ha delle enormi ricadute anche nella definizione dello status del migrante, nell’avvio verso l’indipendenza personale e nell’integrazione attiva, così come è stato già analizzato in studi recenti. Per questo motivo – al di là delle recenti vicissitudini – sarebbe opportuno osservare che l’esclusione dei “richiedenti” da un sistema di inclusione potrebbe restringere i benefici diretti per la popolazione residente (es. inserimento socio-lavorativo, assistenza legale e socio-sanitaria) generando ipotesi di diffusa irregolarità, anche tra gli stranieri già presenti sul territorio.
Il suddetto decreto, quindi, che si propone di sistematizzare la già complicata materia dell’immigrazione alla luce di una presunta necessità e urgenza di sicurezza pubblica, si avvia alla discussione parlamentare con ulteriori punti critici: tra i tanti, si aggiunga l’istituzione di una revoca della cittadinanza (art. 14) o il divieto di accedere ai presidi sanitari (art. 21) che, insieme all’intero corpus della riforma, dovranno essere esaminati con estrema attenzione e cautela, nel rispetto dei vincoli (ovvero dei Trattati sottoscritti e ratificati) siano essi internazionali o europei. Tuttavia, è logico fermarsi a riflettere se veramente sussiste quel nesso, che ci sembra quantomai debole, tra il restringimento del regime di protezione e la sicurezza pubblica, così come su taluni eventi (es. commissione di reati) che contribuiscono a stigmatizzare la presenza – e la relativa permanenza – della popolazione straniera sul territorio. Seppur con la solerzia dei controlli e il rispetto delle regole, sarebbe opportuno altresì ragionare sull’efficacia dei modi, dei metodi (e delle scelte di spesa pubblica) al fine di gestire – piuttosto che contenere – un fenomeno che ci appare come umano, ancor prima che politico e sociale.


Chi può definirsi “partner” di un cittadino UE? La Corte chiarisce (e rende più ampia?) la condizione di relazione stabile

È cosa ben nota, ormai, che il legislatore europeo sia ben predisposto nel considerare un concetto ben più ampio di “nucleo familiare”, rispetto a quanto disposto dalle legislazioni di alcuni Stati membri. Tale atteggiamento verso il coniuge e/o il semplice componente della famiglia diventa assai più rilevante se si considerano le implicazioni derivanti dall’esercizio della libera circolazione e, quindi, la possibilità per il partner cittadino non-UE di fare rientro nello Stato membro d’origine dopo aver soggiornato in un Paese diverso da quello di cui si ha la cittadinanza. Trattasi, in sostanza, di quel diritto di residenza derivato che viene accordato al nazionale non-UE, di cui si è già parlato in questo blog (ragionando sulla causa C-456/12) e che attiene la sfera più estesa dei diritti di tutti i soggetti extra-europei vincolati al cittadino di uno Stato membro (si pensi, ad esempio, a quanto già espresso in questo post).
Questa possibilità di ricongiungersi con il proprio familiare cittadino dell’Unione, infatti, è stata ben rappresentata in numerose sentenze dalla CGUE, a partire dalla più celebre decisione nella causa C-370/90, che qualche attento studioso ha già ribattezzato come “Surinder Singh immigration route”. Si tratta di una possibile via d’uscita, particolarmente utilizzata nel Regno Unito, per evitare che le legislazioni restrittive di alcuni Paesi impediscano al coniuge di un cittadino UE la possibilità di usufruire di quanto previsto dalla direttiva 2004/38/CE, che – si badi bene – mira ad agevolare l’esercizio del diritto originario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. Questa libertà è conferita direttamente ai cittadini dell’Unione dall’articolo 21, paragrafo 1, TFUE e ai rispettivi familiari dal combinato disposto degli artt. 2 e 3 della suddetta direttiva (questione che, tra le altre, è già stata affrontata nel caso McCarthy, C-202/13, nonché nel caso Lounes, C-165/16).
Semplificando drasticamente, la “clausola Surinder Sigh”, così come confermata da successive decisioni, si basa sull’assunto che il diritto di spostarsi in un altro Stato membro deve necessariamente includere (e non scoraggiare) la possibilità di rientro nel Paese d’origine, sia per il cittadino UE che per i suoi familiari. Secondo questa consolidata giurisprudenza, quando un cittadino dell’Unione fa ritorno nello Stato membro di cui ha la cittadinanza, dopo aver esercitato il diritto di soggiorno in un altro Paese UE, i suoi familiari hanno diritto di ingresso e di soggiorno nel primo Stato e devono beneficiare, quantomeno, degli stessi diritti che spetterebbero loro, in forza del diritto dell’Unione (e non della legislazione nazionale). Peraltro, le condizioni per la concessione di quel diritto di residenza derivato - come chiarito nel già citato caso O. e B. - non possono essere più rigorose di quanto già previsto dalla stessa direttiva. Tuttavia, è bene ricordare che il soggetto di tutte queste passate sentenze è sempre stato un coniuge e/o partener stabile, così come comunemente inteso nella legislazione statale. Cosa succederebbe se a chiedere l’applicazione di questo disposto sia un partner “non registrato” con il nazionale europeo?
È quanto ha richiesto di accertare la sig.ra Banger, cittadina del Sudafrica e compagna stabile del sig. Philip Rado, quest’ultimo cittadino del Regno Unito. La coppia, dopo aver convissuto per diversi anni proprio in Sudafrica, decide di trasferirsi nei Paesi Bassi: in questo caso, la suddetta nazionale extra-UE viene considerata favorevolmente meritoria di una carta di soggiorno, in quanto membro della famiglia allargata di un cittadino dell’Unione. Successivamente, il Sig. Rado decide di fare rientro nel Regno Unito, insieme alla sua compagna. Quest’ultima richiede la medesima autorizzazione a stabilirsi sul territorio che, in questa occasione, viene negata dal Secretary of State for the Home Department. In base alla legislazione interna, infatti, per essere riconosciuto come familiare di un cittadino del Regno Unito, il soggetto deve poter dimostrare di essere coniuge e/o partner registrato del nazionale britannico. Nel caso di specie, la richiedente non soddisfa nessuno dei due requisiti. Così, l’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) ha deciso di sottoporre alla Corte di giustizia precise questioni pregiudiziali relativamente all’interpretazione della suddetta direttiva e le implicazioni derivanti dalla giurisprudenza appena citata.
Con la decisione sul caso C-89/17 del 12 luglio 2018, i giudici europei stabiliscono che il principio derivante dalla sua precedente giurisprudenza, desumibile dalle sentenza Surinder Sigh e successive, si possa applicare anche nei casi in cui il soggetto  familiare del cittadino dell’Unione mantiene una relazione stabile ma essa non è né registrata, né assimilabile alla figura di coniuge. Certamente, la sentenza chiarisce che questo meccanismo non è automatico, vale a dire non costituisce un motivo per il rilascio incondizionato di una autorizzazione al soggiorno per il familiare allargato. Tuttavia, precisa la Corte, è necessario che le autorità competenti operino un esame attento delle condizioni personali del soggetto, al fine di non compromettere - attraverso il diniego - il godimento dei diritti di cui all’art. 3 della direttiva 2004/38/CE. Pertanto, per lo Stato membro a cui viene recapitata tale richiesta non esiste un vero e proprio obbligo. Semmai - e qui sta l’elemento di novità - si può prefigurare l’onere di concedere un determinato vantaggio alle domande presentate da questi ultimi rispetto a quelle di altri cittadini di Stati terzi.
Ciò deriva, in primis, dall’interpretazione che gli stessi giudici hanno dato dell’articolo 21 TFUE, il quale prescrive, allo Stato membro di cui il cittadino dell’Unione possiede la cittadinanza, il rilascio agevolato di un titolo di soggiorno al partner, cittadino di uno Stato extra-UE, con il quale il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile, quando detto cittadino dell’Unione abbia esercitato il suo diritto di libera circolazione e faccia ritorno con il suo partner nello Stato membro di cui possiede la cittadinanza per soggiornarvi. In analogia con i casi precedenti ed in virtù di un’analisi accurata, le autorità hanno il compito di motivare un eventuale diniego del permesso di soggiorno. Infine, la Corte stabilisce che i cittadini di Stati terzi devono disporre di un mezzo di impugnazione per contestare il provvedimento di diniego di rilascio di un’autorizzazione al soggiorno. In tale contesto, il giudice nazionale deve poter verificare se tale provvedimento si fondi su una base di fatto sufficientemente solida e se le garanzie procedurali siano state rispettate.
La decisione in esame, quindi, non fa altro che ampliare - ancora di più - l’ambito di applicazione del diritto europeo e le sue possibili ricadute sulla legislazione nazionale. Rimane ferma l’intenzione per i giudici di Lussemburgo di svincolare i diritti derivanti dalla libera circolazione da qualsiasi possibile restrizione che possa desumersi dalla normativa interna agli Stati che, come nel caso di specie, hanno l’obbligo di adeguare il trattamento di questi casi specifici - non pochi, se si considera l’attuale contesto politico istituzionale del Regno Unito - come la stessa Corte ha stabilito. Per altri versi, sebbene non direttamente collegata alla sentenza in commento, è bene ricordare quanto recentemente stabilito nella attesissima sentenza C‑673/16 pronunciata all'inizio di questo mese, relativa al caso Coman: la Corte di giustizia ha sancito nel caso di specie che il termine “coniuge" ai sensi della regolamentazione sulla libertà di movimento nell'UE include anche il soggetto dello stesso sesso, quale componente familiare di un cittadino UE. In questa diversa occasione, la questione pregiudiziale verteva sulla possibilità o meno di richiedere un ricongiungimento familiare, ma la situazione originaria del soggetto contemplava sempre il trasferimento da uno Stato membro all’altro. Anche in tali situazioni, pertanto, il cittadino dell'Unione può richiedere allo Stato di destinazione di ammettere nel proprio territorio il coniuge, indipendentemente dal fatto che lo Stato contempli nel suo ordinamento l’unione tra coppie dello stesso sesso. Un solco, quindi, che diventa sempre più profondo e una visione ben nitida su queste questioni. Un atteggiamento che, ad onor del vero, è stato ben difeso in illo tempore anche in sede istituzionale e che oggi, in virtù della vis giurisprudenziale, costituisce un chiaro monito per il legislatore interno.


La investor citizenship mette alla prova la cittadinanza europea? Qualche considerazione sull’evoluzione del caso maltese

Lo ius civitatis costituisce, ancora oggi, la parte più intima del potere statale. Ogni Stato, come è noto, stabilisce le modalità di acquisto e perdita della cittadinanza secondo una sua legittima potestà (si ricordi la cd. clausola Micheletti nella causa C-369/90 e l’art. 3.1 della Convenzione europea sulla nazionalità). Tuttavia, al trattarsi di uno Stato Membro dell’Unione europea, tale ordinamento è tenuto a rispettare e non limitare l’effetto utile delle norme europee, che agiscono anche a «tutela dei principi internazionali» (Ballarino, 2007). Tale specifica è necessaria poiché la cittadinanza europea si configura come un istituto accessorio ma foriero di specifici diritti, capace di trasformare l’individuo in soggetto transnazionale e «membro di due comunità politiche», il cui regime identitario «viene posto sul piano della effettiva localizzazione della persona nell’Unione» (Parisi, 2013).
È proprio all’interno di questo contesto dicotomico che alcuni Stati membri (per ultimo, quello maltese) hanno deciso di favorire l’ingresso di alcuni soggetti stranieri, intenzionati a realizzare un cospicuo investimento all’interno del proprio territorio. Sulla scorta di un previo impegno economico, quindi, detti soggetti hanno la possibilità di accedere a permessi di residenza di lunga durata o, in taluni e specifici casi, alla cittadinanza pleno jure. Questo approccio, sebbene non sia consueto, ha radici giuridiche ben più profonde. Va detto, infatti, che la cittadinanza si compone di due dimensioni: la prima è prettamente politica e si esplica in tutta la sua essenza attraverso la partecipazione; l’altra, invece, è più squisitamente normativa e si realizza attraverso le differenti leggi nazionali sulla cittadinanza.
Proprio in quest’ultimo ambito, esiste una prerogativa, interna agli Stati, che consente il riconoscimento dello status civitatis ad una persona che si è distinta «per grandi atti di servizio alla comunità» (Spiro, 2007). Trattasi di potere ben delimitato di naturalizzazione, che oggi ha assunto caratteristiche sempre più flessibili, rafforzando anche la sfera limitrofa della discrezionalità amministrativa. Nell’ordinamento italiano, ad esempio, l’art. 9 della Legge 91/1992 stabilisce le modalità con cui il Presidente della Repubblica ha il potere di concedere (e non riconoscere) la cittadinanza a coloro che, stante i requisiti minimi richiesti, possiedono una posizione giuridica per cui sia possibile abbreviare il naturale percorso di integrazione. I cittadini europei, ad esempio, dovranno dimostrare di aver soggiornato ininterrottamente per quattro anni, non essendo esenti dal chiarire la loro regolare posizione rispetto agli altri dettami di legge (art. 9 bis). Esiste, quindi, la legittima potestà in capo allo Stato di includere determinati soggetti all’interno della propria comunità.
A dispetto di qualsiasi procedimento nazionale, i metodi di attribuzione dell’istituto di stampo comunitario non hanno mai subito modifiche concrete, nonostante il lungo processo di riforma dei Trattati istitutivi. In tal senso, è ancora opportuno parlare di una «cittadinanza senza nazionalità» (Rossi, 2006), poiché «non implica l’esistenza di un popolo europeo» (causa C-135/08, p. 23) bensì di un corpo sociale e politico che «si modella sulla base delle diverse sensibilità dei singoli Stati membri» (Diez Picazo, 2003). Per ciò che concerne l’attribuzione dello status civitatis europeo, infatti, la stessa Corte di Giustizia ha specificato che i soggetti devono semplicemente risiedere o mantenere un proprio domicilio all’interno dell’ambito di applicazione dei Trattati europei (Causa C-300/04, p. 27). A tal proposito, è bene ricordare che «spetta alla Corte pronunciarsi sulle questioni […] che riguardano i presupposti in presenza dei quali un cittadino dell’Unione può vedersi privato di tale qualità» (Causa C-135/08, p. 46). Considerati questi limiti, quale natura può assumere questo «nesso di diritto pubblico» (Conclusioni C-135/08, p. 17) che unisce un individuo ad un determinato Stato? Il caso maltese, che analizzeremo da un punto di vista squisitamente giuridico, ci avverte che qualcosa evidentemente sta cambiando circa il modo di intendere questo status personale che, perlomeno nella giurisprudenza internazionale, viene descritto come un rapporto giuridico «avente alla base un fatto sociale di collegamento, una solidarietà effettiva di esistenza, di interessi e di sentimenti unita a una reciprocità di diritti e doveri» (causa Nottebohm - Liechtenstein v. Guatemala, p. 23).
Negli ultimi mesi del 2013, il governo di Malta ha annunciato la creazione di un Programma per gli investimenti al fine di attrarre qualunque soggetto fosse interessato a realizzare un impegno economico, più o meno duraturo, nel sistema finanziario del Paese. Tale scelta, evidentemente dettata dalle condizioni di crisi economico-finanziaria, ha influenzato anche l’ambito della cittadinanza, incrementandone alcuni aspetti che, nelle diverse riforme che hanno interessato l’assetto normativo, rimanevano residuali o connotate da un carattere di eccezionalità.
Con l’approvazione dell’Act XV del 2013, accompagnato dalla Legal Notice n. 450 e dal regolamento attuativo di un Individual Investor Programme of the Republic of Malta (da ora, IIP), si è scelto di emendare la regolamentazione vigente. L’impianto legislativo fa perno proprio su quel potere di naturalizzazione a cui si è fatto già riferimento e che era stato ampliato attraverso una precedente riforma nel 2007. Per incardinare questa prerogativa, destinata a coloro che contribuiscono allo sviluppo economico dell’isola di Malta (art. 3 dell’IIP), è stata incoraggiata la previsione di una fast-track naturalization per tutti i titolari di un investimento, con la possibilità di includere tra i beneficiari della suddetta misura anche i familiari diretti e/o i minori a carico.
Al di là delle soglie di spesa annunciate nel primo disegno di riforma, questa misura comporta un’ampia discrezionalità da parte del Ministero degli interni nel concedere il titolo di soggiorno e una evidente scarsità di pre-condizioni per i potenziali richiedenti. A ciò si aggiunga che le autorità maltesi hanno successivamente deciso di esternalizzare la gestione amministrativa del procedimento ad una agenzia governativa (Identity Malta Agency), riservandosi la mera soprintendenza nel procedimento. Questa agenzia è stata istituita attraverso la Legal Notice n. 269 del 2013,sotto la competenza del Ministero degli Interni. Tuttavia, l’organismo viene agevolato in questo compito di raccolta delle candidature da un’ulteriore entità esterna, che ha una personalità giuridica separata. Si tratta, nello specifico, della Società Henley & Partners: una Law Firm internazionale specializzata in programmi di cittadinanza, che assume un ruolo di esclusività nel IIP Process ed è responsabile della promozione e dell’elaborazione delle richieste da parte dei soggetti stranieri.
Il Parlamento europeo ha manifestato preoccupazione per questi eventi, avvertendo con più risoluzioni la Commissione circa il pericolo che «queste forme di ottenimento della cittadinanza maltese […] possano compromettere il concetto stesso di cittadinanza europea» (Risoluzione 2013/2995, p. 1) fornendo, così, una base su cui iniziare i negoziati tra l’organo centrale europeo e il governo de La Valletta. Da qui, la seconda proposta modifica contenuta nella L.N. 47/2014 che, per la prima volta, è stata frutto di una vera e propria negoziazione con gli organi di Bruxelles: il secondo pacchetto di emendamenti, infatti, introduce una prova di residenza previa di almeno 12 mesi nel territorio dello Stato per poter essere considerati meritevoli di questa particolare forma di naturalizzazione. Tale requisito non era richiesto per l’accesso alla cittadinanza dello Stato nel disegno originale. A ciò si aggiunga che le istanze, essendo legate ad una prerogativa dell’esecutivo, non sono appellabili, né suscettibili di modifica in seguito ad un diniego, poiché spetta solo al Ministero competente o all’autorità preposta la responsabilità del procedimento. (DE BONO, 2013).
Ciò nonostante, i soggetti che beneficiano di questa misura - va specificato - assumono in sé una posizione giuridica assai più vantaggiosa rispetto ad altre e similari categorie di stranieri ammessi nel territorio dello Stato (si pensi, tra gli altri, ai titolari di permesso UE per soggiornanti di lungo periodo). Ad essi vengono riconosciuti – sic et simpliciter –  i diritti elettorali, insieme alla lunga cerchia dei diritti accessori derivanti dalla cittadinanza dell’Unione europea. Rispetto a quest’ultimo punto, l’esempio maltese accende i riflettori su una lacuna che – sic stantibus rebus – sembra incolmabile per le autorità di Bruxelles: la decisione, da parte degli Stati Membri, di considerare la cittadinanza UE come accessoria e non foriera di uno status autonomo non combacia con un altrettanto meccanismo di armonizzazione delle leggi nazionali. Questa tendenza, più volte auspicata ma evidentemente difficile da realizzare, lascia aperti evidenti spazi di discrezionale riconoscimento, all’interno di una difficile dialettica tra beneficiario di diritti e titolare di precisi doveri. La legge maltese approfitta di questa mancanza di uniformità tra gli ordinamenti e dell’evidente impossibilità da parte dell’Unione – se si esclude i consueti margini del negoziato – di poter incidere all’interno di questo che appare come uno degli ultimi esempi di sovranità statale.
Questa misura, a tratti controversa, non è unica nel suo genere all’interno del Vecchio Continente: similari provvedimenti sono rinvenibili nelle legislazioni di Cipro, Bulgaria, Spagna, Portogallo e, seppur con qualche distinguo, anche in Austria. Ciò nonostante, questa citizenship-by-investment costituisce per l’ordinamento de La Valletta un’evoluzione di quel concetto implementato dopo le riforme del 2001 ma che modifica i contorni e la natura stessa di quanto previsto dal legislatore nel testo del l965, successivo all’indipendenza. È indubbio che si tratta di una visione assai estensiva del potere di naturalizzazione, con ricadute rilevanti per ciò che concerne la tutela del principio democratico e del pari trattamento dello straniero. Allo stesso tempo, dobbiamo constatare l’esigua presenza di strumenti normativi che consentano, al netto delle competenze espresse, un intervento da parte delle istituzioni europee in tal senso. Soltanto una pronuncia specifica da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea, semmai si preavvisino i presupposti e qualora i giudici ne intravedano la necessità, potrebbe cercare di delimitare o più semplicemente individuare i contorni di questo fenomeno. Ad oggi, gli Stati membri – descritti spesso come «padroni dei Trattati» – rimangono ben saldi nel preservare gli ultimi indizi di una sovranità che si aggancia all’evolversi delle necessità interne (siano esse politiche o economiche) ma non all’avanzare dei tempi. La cittadinanza, così come altri istituti di notoria pertinenza interna, sta subendo un evidente e inesorabile processo di trasformazione. In questo divenire, probabilmente, dovremmo cominciare a ragionare su come rinforzare la cittadinanza dell’UE, accessoria nei diritti ma fondamentale nelle situazioni giuridiche che può e sa creare.
Dal canto suo, la dottrina giuridica è stata sempre concorde nell’affermare che «la mutevolezza della categoria della cittadinanza […] è data dal fatto che è tramite quest’espressione che si tende a richiamare il rapporto giuridico fondamentale che lega l’individuo […] sia all’ordine politico, sia all’ordine sociale» (AZZARITI, 2011). Tuttavia, la concretezza del vincolo non deve mai oltrepassare l’eccessiva discrezionalità e la poca trasparenza, poiché porterebbe al rischio che una «marketable commodity» (BAUBÖCK, 2014) possa alterare la natura di un così determinato e concreto status giuridico.


L’iniziativa economica dello straniero nel mercato europeo

Nonostante la crisi economica, che ha influenzato soprattutto le realtà urbane di piccole e medie dimensioni, l’apertura di nuove attività da parte di soggetti migranti ha contribuito ad aumentare l’aspetto multiculturale e la dinamicità delle città europee. Ciò nonostante, il cd. Ethnic business, sul territorio nazionale, è stato talvolta interpretato come una preoccupazione, considerato complice delle problematiche strutturali relative al mercato del lavoro, e non come una possibile risorsa per stimolare l’avanzamento delle comunità locali. Con queste premesse, la presente relazione svolge un’indagine sulla natura di questo fenomeno, ispirandosi al lavoro non solo come strumento per concorrere al progresso sociale e materiale, bensì come principio fondante di una possibile integrazione dello straniero. Partendo dagli aspetti concettuali e teorici, lo studio esamina la figura dello straniero, così come si è evoluta nello spazio europeo, sino ad arrivare al ruolo del migrante come lavoratore autonomo e imprenditore. Questa metamorfosi verrà poi riletta alla luce delle istanze di tutela innanzi alle Corti nazionali e sovrannazionali, così come in relazione al meccanismo di programmazione dei flussi migratori. Sarà poi analizzata la strategia europea in tema di promozione dell’imprenditoria immigrata, raccordandola con l’impostazione teorica in materia. In ultimo, sarà dato spazio ad alcuni esempi di promozione del talento e promozione dell’investimento (Start-up Visa), quali nuove forme di inclusione economica dello straniero nel mercato.


Libera circolazione e diritti “derivati” dalla (doppia) cittadinanza UE: la vita familiare al vaglio della CGUE nel caso Lounes

La libertà di circolazione, per i cittadini europei, è uno di quei diritti acquisiti al quale sarebbe difficile rinunciare. Oltretutto, l’esercizio di quest’ultima da parte di un nazionale comunitario è stato più volte esaminato dai giudici di Lussemburgo, poiché invocabile da tutti coloro che si spostano (o intendono spostarsi) in uno «Stato membro diverso da quello di cui [hanno] la cittadinanza», ivi compresi i rispettivi familiari, per come si evince dall’art. 3, paragrafo 1, della direttiva 2004/38. Eppure, verrebbe da chiedersi cosa succederebbe se il soggetto che rivendica una serie di diritti accessori, proprio sulla scorta di quanto stabilito dalla suddetta direttiva, possegga la cittadinanza di due Stati membri.
In realtà, seppur con specifiche prerogative (come già detto su questo blog) la CGUE si è già trovata a dover discutere di questi temi: nel caso della sig.ra McCarthy (C-434-09), è stato stabilito, ad esempio, che è proprio grazie all’esercizio della libera circolazione che il soggetto diventa meritevole di tutela e può richiedere il riconoscimento dei diritti di cittadino UE. Tuttavia, proprio nella pronuncia in questione, la Corte ha interpretato la legislazione di riferimento in maniera «letterale, teleologica e sistematica», escludendo l’applicabilità diretta, anche ai coniugi provenienti da Stati terzi, poiché il suddetto richiamo normativo si occupa solo «delle modalità di esercizio del diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri» (vd. Morviducci, 2017, 51). Dunque, come applicare tale direttiva nel caso in cui si sia prodotto un trasferimento in un altro Stato e il soggetto vi sia diventato cittadino, in virtù di una normativa nazionale?
È quanto la Corte ha cercato di chiarire con la sentenza nel caso Lounes (C-165/16) relativamente ad una questione tutt’altro che sopita, bensì destinata ad essere oggetto di numerose discussioni, anche in virtù degli ordinamenti a cui si riferisce. La vicenda riguarda una cittadina spagnola, trasferitasi nel Regno Unito nel 1996. Nel rispetto della legislazione vigente, la sig.ra Ormazabal ha successivamente acquisito la residenza permanente nel territorio, concessagli automaticamente e in virtù del suo soggiorno. Dopo alcuni anni, anche a seguito di una situazione personale stabile, il soggetto ha acquisito la cittadinanza britannica per naturalizzazione. La sig.ra Ormazabal ha, poi, sposato un cittadino algerino nel Regno Unito, il quale era entrato nel territorio con un visto valido per sei mesi, successivamente scaduto e mai rinnovato.
Dopo aver contratto matrimonio, quest’ultimo ha richiesto un titolo di soggiorno in qualità di familiare di un cittadino dello Spazio economico europeo (SEE). L’istanza è stata rigettata dal Ministero competente, giacché - a parere dello stesso - la sig.ra Ormazabal non era più da considerarsi come cittadina UE, perché già in possesso della cittadinanza britannica. Dopo il ricorso alla High Court of Justice, il giudice nazionale decide di predisporre un rinvio pregiudiziale, al fine di sondare la compatibilità della legislazione britannica con il diritto dell’Unione. La questione verte sulla possibilità da parte del coniuge di un cittadino UE, proveniente da uno Stato terzo, di ricevere l’autorizzazione al soggiorno nel Paese di residenza del familiare: in particolare, il giudice si interroga sulla possibilità di accordare il soggiorno sulla base del diritto dell'UE o in virtù di quanto richiesto dalle regole di diritto interno (tra l’altro riformate dopo la sentenza McCarthy), in virtù delle quali il soggetto non avrebbe potuto continuare a vivere nel Regno Unito. Tale decisione avrebbe, de facto, costretto la coppia a trasferirsi in un altro Paese.
Con la decisione in esame, l’Alto Tribunale europeo ha stabilito che il cittadino dell’Unione non è autorizzato a invocare i diritti di libera circolazione (ivi comprese le eventuali norme sul ricongiungimento familiare) contenute nella direttiva 2004/38/CE, nel momento in cui acquisisce la cittadinanza di un altro Stato membro. Tale posizione è suffragata dal fatto che la legislazione comunitaria richiamata non pretende disciplinare il soggiorno dei soggetti in uno Stato di cui sono già cittadini, visto che tale diritto è frutto, in primis, di un principio di diritto internazionale e, pertanto, diventa incondizionato. Sulla base di questa prima conclusione, i giudici sanciscono che il coniuge, il sig. Lounes, non può vantare un diritto di soggiorno “derivato” nel Regno Unito sulla base della stessa direttiva.
Tuttavia, la Corte ha dichiarato che la sig.ra Ormazabal potrebbe invocare la sua cittadinanza europea sulla scorta di quanto stabilito dai Trattati istitutivi e, in particolare, dall’art. 21, par. 1 del TFUE. Nell’istanza di remissione, infatti, la ricorrente era stata considerata come una cittadina spagnola che si era trasferita in un altro Paese dell’UE. A tal proposito, le disposizioni sulla cittadinanza europea contenute all’interno dei Trattati, a differenza della direttiva 2004/38, seppur non contengono norme specifiche sui membri della famiglia, danno luogo - e qui l’elemento di novità - ad un diritto per i suoi destinatari a condurre «una vita normale […] beneficiando della vicinanza dei loro familiari».
Questo richiamo esplicito alla vis dei Trattati istitutivi, darebbe al coniuge la possibilità di usufruire di un diritto di soggiorno derivato nello Stato membro di residenza del cittadino dell’Unione. Tale decisione si rende necessaria, a parere dei giudici di Lussemburgo, al fine di mantenere l’effetto utile dei diritti conferiti dai Trattati. Su questo punto, poi, la Corte si sofferma con particolare riguardo, argomentando che sarebbe ingiusto trattare la ricorrente in maniera meno favorevole, non riconoscendo che si tratta pur sempre di un soggetto che si è trasferito nel Regno Unito, conservando la nazionalità spagnola. Inoltre - continua la Corte -  ledere il diritto di condurre una normale vita familiare, per solo il fatto di aver ricercato (mediante la naturalizzazione) un inserimento più profondo in un altro Stato membro, sarebbe contrario alla logica dell’integrazione progressiva nella società del Paese ospitante, perseguita proprio dall'articolo 21, paragrafo 1, TFUE.
Pertanto, con tale sentenza, si stabilisce che un nazionale di un Paese terzo che si trovi nella situazione del sig. Lounes può beneficiare di un diritto di soggiorno derivato nel Regno Unito sulla base dell’articolo 21, paragrafo 1, TFUE, in condizioni che non devono essere più rigorose di quelle previste dalla direttiva per la concessione di tale diritto a un medesimo soggetto, familiare di un cittadino dell’Unione, che ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione stabilendosi in uno Stato membro diverso da quello di cui possiede la cittadinanza.
Vi è, quindi, la necessità di considerare la natura dei soggetti coinvolti. Coloro che posseggono un doppio titolo e che si spostano all'interno del territorio dell’UE (in un certo senso, già oggetto delle cause riunite C‑7/10 e C‑9/10) costituiscono quasi un’eccezione alla regola. Infatti, sarebbe ingenuo non osservare che sussiste un legame ben solido tra i le implicazioni inerenti l’esercizio della libera circolazione e i diritti di cittadinanza derivati nei confronti dello Stato membro di cui essi hanno la cittadinanza.  È proprio la Corte a suggerirlo ogniqualvolta ha considerato rilevante la situazione dei cittadini dell’UE, dei relativi coniugi extra-europei e le norme sul ricongiungimento familiare: tra i molti casi, si pensi a quanto stabilito relativamente a coloro che si trasferiscono in un altro Stato membro e fanno successivo ritorno nel proprio Paese d’origine (causa C-370/90, chiarita poi con la causa C-127/08); analogamente, anche sullo status di quei cittadini dell'UE che vivono nel Paese di cui posseggono la cittadinanza ma che svolgono un'attività economica al di fuori di esso (causa C-60/00). In un secondo momento, la CGUE ha ulteriormente chiarito e delimitato la posizione giuridica imputabile proprio a queste categorie di soggetti (come già discusso su questo blog).
La sentenza in esame, invece, ci impone di ragionare scindendo i due termini del discorso, vale a dire dando il giusto peso giuridico al concetto di cittadinanza (così come inteso a livello sovranazionale) e di nazionalità. È abbastanza evidente che questa dicotomia assume maggior valore, soprattutto se viene messa in rilievo la tutela del familiare, in quanto nazionale extra-UE. Se da un lato, la Corte ribadisce l’importanza dello status civitatis nazionale, dall’altro muove un piccolo passo in avanti, nel considerare gli effetti transfrontaliere che ne possono derivare, seppur utilizzando (stavolta in senso includente) il vincolo dell’unità familiare.
Ciò nonostante, sorge l’interrogativo se tale decisione è da intendersi valevole per tutti i soggetti che acquisiscono una doppia cittadinanza o, più semplicemente, per tutti coloro che ne siano già in possesso (per i motivi più vari). Allo stesso modo, sarebbe giusto comprendere se tali diritti derivati, poiché provengono dall’applicazione dei Trattati e non dalla direttiva 2004/38, possono portare ad acquisire un diritto di residenza più stabile e duratura (in tal senso, si confronti con quanto già deciso nella causa C-529/11).
Ciò che, al contrario, appare certa è la valenza soggettiva della sentenza. Tra l’altro, la decisione è applicata nei confronti di un ordinamento che, verosimilmente, dovrà prendere una decisione più chiara su quale status destinare ai cittadini UE residenti nel proprio territorio (ivi compresi i loro familiari) e verso i quali la CGUE sembra dare maggiore riguardo. Sullo sfondo di questo giudizio, che già presagisce una serie di ricadute dirette e rilevanti, resta il nodo su quale peso (e limite) darà il Regno Unito alla libera circolazione e alle situazioni giuridiche pregresse, che da essa sono derivate.


Refugees’ access to health services in the EU framework: what role for primary healthcare?

The contemporary conception of health is characterized by amplitude and complexity. These are features that need to be taken into account when analyzing the migratory phenomenon. With regards to its content, the definition given by the World Health Organization already in 1948, according to the WHO, health is "a state of complete physical, psychological and social well-being" and not simply the absence of an infirmity. However, such a broad definition of health prevents to make the content of a fundamental right, which could not be directly guaranteed in such broad terms only for citizens. A second profile of complexity of health, in fact, concerns the perimeter and the depth with which the legal order guarantees it. In this sense, we may speak of the right to health in positive terms, that is, individual and social right to receive a specific medical or health performance, which may be essential or ancillary, both in negative terms as an individual protection coordinated with the principle of personal freedom (by torture or inhuman and degrading treatment, by unwanted attention, by clinical trials).

European Constitutions acknowledge the right to health in different terms. For example, the Spanish Constitution of 1978 (Article 43) recognizes the right to health protection, entrusting it with public powers (as a generic concept involving both local authorities and peripheral organs) exercising a sovereign State power. They must organize and protect public health through preventive measures and necessary services. However, in the Italian Constitution (article 32), health is protected as part of the ethical and social relations, which are placed in a fruitful link with the principle of solidarity; that is why health takes on a dual role, both a fundamental right and a collective interest. Solidarity is therefore declined in both directions: solidarity with people in need of care, but also solidarity with each other towards the needs of public health. Depending on the more or less extensive content of the right to health, the legal order recognizes protection in more or less intense terms. This intensity is conditioned by the costs and requires balancing the right to health with other relevant or constitutional interests, which can sometimes also be linked to the specific legal condition of a foreign person.

In terms of the right to freedom from degrading treatment or unwanted medical treatment, for example, the status of citizen or foreigner is not relevant, since such acts are prohibited to any person. At a time when a foreign person requires a particular treatment for the health service, even in order to promote what may be subjectively perceived as a state of health, the legal order intervenes in a selective way allowing treatments that are not considered essential; national law may also charge the state healthcare system for treatments that are considered specific and essential for migrants. Finally, the State may also prohibit treatments that are considered prejudicial to the subject's health (in 2006, for example, Italy approved a new Article 583 bis of the Criminal Code, punishing from 4 to 12 years of imprisonment for anyone who causes female genital mutilation in the absence of therapeutic needs).

Among the main rights recognized as fundamental to the sick person can be called: the right to life, the right to privacy, the right to non-discrimination, the right to be properly informed, the right to express their informed consent. Therefore, the protection of health must be considered as a social right of the citizen and the foreigner, with roots in the principle of solidarity, which implies the refusal of separation between people and the recognition of the necessary interrelation between different life projects.

Here the specific condition of refugees and asylum seekers comes into play. It is a very simple legal concept to recall but very difficult to define. As many know, nowadays there is no single way to determine the legal protection regime. In a macro-group of migrants who are protected by the Geneva Convention, there are more precise legal situations in which the foreigner can enter and receive the same treatment.

The finding of inhuman and degrading treatment comes from international law and gives rise to the common forms of asylum and refuge. Additionally, the European framework has established subsidiary protection that binds the Member State to creating a reception system that does not violate the principle of discrimination, particularly in access to healthcare. However, a specific protection may also be provided by individual Member States through a domestic legislation, which gives rise to the so-called "constitutional asylum", as happens in the Italian legal system. In this tripartite judicial status, where some are more enduring than others, what kind of access should be granted to a foreigner in the protection of his or her health status?

Probably, we should change the terms of our question. Even before identifying "what" access to guarantee, we should determine "where" this access should be provided. Currently, holders of any form of international protection are not always in a healthy and dignified condition, especially because they stay in places where the prevention and maintenance of the external environment does not promote a proper prevention and monitoring of pathologies related to special travel conditions. Undoubtedly, the complexity of the migration routes influences the precarious state of mental and physical subjects. However, individual preconditions are a definite object of the national reception system.

European Union Member States have responded to this need in a discontinuous and schizophrenic way, elaborating multiple places (and non-places) where to ascertain, examine and ultimately provide international protection. The migrant arrives today and is conducted in hot-spots, collection centers, self-managed camps, refugee camps, reception centers, detention centers. So many names to identify the same place and the same state of personal insecurity, which complicates access to medical care. Even for these reasons, it is not possible to develop a single European reception model. Yet, we will strive to outline the different stages between the arrival and the achievement of refugee status, to understand the intensity of access to health services.

In the first phase, which we will call "first-time hubs", medical staff are called to provide the first medical care, participate in photo reporting and request for international protection. In the second phase, which takes place in the transit centers, doctors must generally prepare a Census, a health screening and participate in the reception, waiting for the next transfer. In the third phase, the migrant is "temporarily" conducted to centers of greater capacity for the completion of the procedures relating to international protection.

At this point, the fate of the migrant can be distinguished, depending on how his request will be considered. We can identify three main and possible outcomes: insertion into a local protection system until the refugee title is obtained; relocation to other centers, including other Member States; transfer to other detention centers and repatriation, for all foreigners deemed irregular and not holders of international protection. According to the legal system, in each of these stages medical and health care must be guaranteed.

Regarding the first case, the European legislative framework has been sufficiently harmonized with the EU Qualification Directive (2011//995//EU), which lays down rules on the granting of uniform status for refugees or persons covered by subsidiary form as well as on the content of the protection granted. The new Qualification Directive seeks to achieve closer approximation of national recognition standards and essential elements of protection. On access to healthcare and to integration facilities, the subsidiary status is put on the same level as a refugee (art. 26, 30 and 34); similarly, it adds the obligation for Member States to provide the necessary treatment of psychological and mental distress (art. 30).

These are very important changes, which bind both the powers of the receiving States and the healthcare providers involved in ensuring the protection of the right to health. The European directives, although not self-executing, must be transposed by each Member State. In this case, the Qualification Directive is no longer talking of “minimum standards”, but simply to "standards" (art. 1). Member States have always the right to introduce or maintain more favourable provisions (Art. 3) that are appropriate to the current European legislation.

Regarding the second and third cases, both the relocation and the repatriation reveal various  critical profiles. This system has been replaced by a new resettlement scheme but it has been reinforced through the jurisprudential decisions in cases C-643/15 and C-647/15: it provides only the displacement of those people in obvious need of international protection, belonging to the nationalities whose security recognition rate is equal to or greater than 75%. At this point, we are entitled to ask whether the "state of health" can be a "clear need" for granting refugee status.

The ECJ judgment in the case M'Bodj (C-542/13) attempted to provide some answers, which are not too exhaustive. According to this Decision, Member States must grant health care as provided in Articles 28 and 29 of the Qualification Directive, only to beneficiaries of refugee status or subsidiary protection. They are not required to grant such benefits to foreigners who are allowed to remain on the basis of a domestic legislation, although for reasons of health. According to the Court, the actual deterioration risk of the health status of a migrant, who suffers from a serious disease - for which there is no adequate treatment in his country - is not equivalent to the recognition of refugee status or subsidiary protection, unless such neglect is not due to a deprivation of care inflicted intentionally.

Although in a separate context, the European Court of Human Rights seems to have an opinion in the opposite direction. With the Paposhvili Decision (application no. 41738/10), the Strasbourg Court, in fact, confirms that the power to decide on the expulsion of persons, residing illegally in its territory, remains a prerogative of the States. However, this decree must be done in accordance with international conventions to which the States have joined, including the ECHR. As stated in previous judgments [D. v. United Kingdom (application no. 30240/96) and N. v. The United Kingdom (application no. 26565//005)], there are cases where the health conditions of the person subject to expulsion measures prevent it from being enforced. In the present case, the severity of the disease must be established by a medical certificate, which must be produced after hearing the subject. In addition, within the threshold of gravity, the death of the patient must be predicted within three months. The Immigration Office must also assess the availability and accessibility of medical care in the country of return or origin, before disposing a departure, including respect for additional human rights related. Therefore, the expulsion cannot be completed, since many would violate the applicant's rights (health, privacy, family unit).

As can be deduced from these two judgments, the protection of the right to a migrant's health is a dichotomous and complex task: State is not the only regulator, the doctor and the patient are not the only subjects. So, on the basis of these brief considerations, let me outline three simple questions:

1) as regards the differentiation of status and places, on the one hand migration law has a strong "derogatory" component with respect to the common rules in force for citizens. In other terms migration rules differ from general rules, as for instance is the case for criminal law; this approach has allowed the legislator to entrust the authorities concerned with a more or less wide margin of discretion. However, healthcare can hardly be derogated in order to comply with constitutional and international obligations. Therefore, are we sure that compliance with these obligations is carried out correctly, in those places, centers and camps where the health and dignity are sacrificed every day?

2) Regarding the relationship between health and the migrant reception system, we should finally abandon the logic of emergency with which we face the phenomenon of migration. The differences and uncertainties affecting the foreigner in seeking a legal status are still too obvious. This condition inevitably conflicts with refugees and their lack of awareness of their rights and the health system in the host country. There are still in the host societies linguistic and social barriers that, despite the commitment of health personnel, can lead to diagnostic errors, ineffective treatments, as well as cultural, religious and gender issues. Do we really believe that the refugees crisis is the real cause of other endemic difficulties in the national health care system?

3) So, I conclude, focusing on the relationship between the State, the right to health and the refugees deserve a more subtle and practical reflection. Public authorities are often perceived as the sole responsible for managing a social and political phenomenon. In this case, subsidiarity and interaction between the different institutional levels and actors involved is essential. There is a duty to defend public health, which corresponds to the right to care for each person. However, if the subject is a refugee or asylum seeker, is it fair to think that this inalienable human right is enriched with other decisive facets (the protection of human dignity, the prevention of torture, the elimination of inhuman and degrading treatment) also in the transit and reception territories?

Probably, it is necessary to understand that the vulnerability of these subjects, also as physical integrity, can and should be a reason for granting international protection. The certainty of the legal status, equal access to medical care and informed prevention are some of the goals that we must achieve to overcome the migration crisis. If we pursue other ways, we may be trapped in the so-called "paradigm of Polyphemus": our supposed superiority will prevent us from acknowledging the real nature the real nature of our limits.


Da chi “dipende” l’interesse del minore? La CGUE definisce (ancora) la portata della “clausola Zambrano”.

Per stabilire quali siano i diritti dei cittadini extra-europei all’interno del territorio dell’Unione, è necessario fare riferimento alla legislazione sovrannazionale in materia di immigrazione e asilo, allargando lo spazio di analisi anche a tutti i Trattati sottoscritti dagli Stati membri e, infine, alle direttive in materia di libera circolazione. Quest’ultima, come è noto, è garantita a tutti i cittadini dell’UE, unitamente ai loro familiari, anche se provenienti da Stati terzi. Il godimento di questo diritto è ormai esteso sia nel caso in cui il nucleo decida di spostarsi in un altro Paese membro, sia in virtù di un’eventuale rientro del nazionale europeo e dei suoi familiari nel territorio d’origine (v. Cause C-370/90; C‑291/05 e, più recentemente, nel caso C‑456/12).

Tuttavia, la situazione è ben diversa qualora nessuno dei soggetti abbia esercitato il proprio diritto alla libera circolazione: in tal caso, è evidente che sarebbe prevalente la legislazione nazionale in materia di immigrazione. In alcune situazioni, invece, la semplice tutela dei diritti di cittadinanza europea, in capo ad un minore di età, può generare un diritto derivato al soggiorno nello Stato membro d’origine del soggetto anche per coloro che, essendone tutori o genitori, posseggono una nazionalità extra-UE (v. la nota Causa C-34/09). Tali ipotesi possono essere qualificate come peculiari e specifiche, allontanando persino il pericolo dell’espulsione (v. la più recente decisione nel caso C-304/14). Tuttavia, esse portano concretamente al riconoscimento di un titolo di soggiorno per lo straniero, anche se quest’ultimo interrompe la relazione coniugale con il cittadino dell’Unione, sempre che il suo allontanamento nuocerebbe alla delicata sfera di taluni diritti supremi (es. unità familiare o interesse del minore) e comporterebbe l’abbandono del territorio anche da parte del minore-cittadino. A fronte di questa eventualità, è possibile qualificare la cd. «relazione di dipendenza» che sussiste tra il nazionale di un Paese extra-UE, genitore o tutore di un cittadino di uno Stato membro?

Questo è il tema centrale che riguarda la decisione presa dalla CGUE nel caso Chavez-Vilchez e altri (C-133/15), avente come ricorrenti un gruppo di genitori extra-europei, coniugi di cittadini dell’UE e tutori di bambini con nazionalità olandese, residenti nei Paesi Bassi. Seppur con qualche distinzione di merito, i suddetti soggetti hanno invocato un diritto di soggiorno basandosi sul rapporto di primaria dipendenza con i minori di cui sono responsabili, in conformità con quanto sancito dalla già citata sentenza nel caso Ruiz Zambrano. Per le autorità olandesi, il semplice fatto che una madre, nazionale di un Paese terzo, si occupi quotidianamente del minore, non consente di stabilire che quest’ultimo sarebbe obbligato a lasciare il territorio dell'Unione europea a causa di un diniego del permesso di soggiorno per il soggetto extra-europeo. Inoltre, la presenza nel territorio dello Stato dell'altro genitore, che è anch’egli cittadino dell'Unione, per il governo olandese sarebbe un fattore ben determinante nell’applicazione della cd. “clausola Zambrano”. Per queste ragioni, sono state rigettate anche le istanze di sussidio sociale e di assegni familiari presentate dai ricorrenti. La Corte d’Appello olandese in materia di sicurezza sociale, quindi, ha deciso di adire la CGUE chiedendo se tali soggetti, in quanto madri di figli minorenni e cittadini UE, potessero far valere il loro diritto al soggiorno ex art. 20 TFUE e, eventualmente, beneficiare di un aiuto sociale previsto della normativa olandese, considerando che il padre, cittadino dell’Unione, è soggiornante nei confini nazionali o in un altro Stato membro.

Relativamente alla causa principale, i giudici di Lussemburgo determinano che la situazione della sig.ra Chavez-Vilchez e di suo figlio deve essere esaminata alla luce dell’articolo 21 TFUE e della direttiva 2004/38/CE, poiché entrambi hanno esercitato il diritto alla libera circolazione; a tale proposito, è compito del giudice nazionale stabilire se i ricorrenti possano avvalersi di un diritto di soggiorno derivato. Nell’ipotesi in cui non si verificassero determinati presupposti, sarebbe comunque ammissibile l’esame delle istanze secondo quanto previsto dall’art. 20 TFUE. la Corte di Giustizia, da un lato, concorda sul fatto che i soggetti extra-UE non possono essere considerati automaticamente come “tutori primari” del minore-cittadino UE ma, in virtù della giurisprudenza sopracitata, la decisione in commento mantiene un approccio abbastanza aperto su altre questioni. Servendosi proprio dei casi precedenti, i giudici fanno riferimento alla necessità concreta per le autorità nazionali di determinare se esista un rapporto di dipendenza tra il figlio e il genitore proveniente da un Paese terzo. A tal fine, le autorità preposte hanno l’obbligo di appurare e valutare tutte le circostanze, tenendo conto del diritto al rispetto della vita familiare (art. 7 della Carta dei diritti fondamentali UE) e adottando la misura che tuteli maggiormente l'interesse superiore del fanciullo, ex art. 24, par. 2, della stessa Carta.

Per ciò che concerne, poi, la questione relativa all’altro genitore, nella sua condizione di cittadino dell’Unione, l’Alto Tribunale afferma che, sebbene egli sia nelle condizioni di assumere la tutela quotidiana del fanciullo, questo è di per sé un elemento determinante ma non sufficiente per poter asserire che non sussista una relazione di dipendenza tra il minore e l’altro coniuge, tale per cui quest’ultimo sarebbe costretto a lasciare il territorio dell’Unione. Per sondare la portata di questo rapporto – qui l’elemento di novità – è necessario tenere conto di ulteriori circostanze specifiche: l'età del bambino, il suo sviluppo fisico, la natura dei suoi legami emotivi con entrambe i genitori, nonché i rischi che la separazione da questi potrebbe comportare per l'equilibrio generale del soggetto. Infine, per ciò che attiene l’onere della prova (applicabile nei cd. “casi Zambrano”) la CGUE coglie l’occasione per chiarire alcuni punti controversi: nonostante tale giustificazione ricada sul soggetto extraeuropeo, è compito del giudice nazionale – afferma la Corte – garantire che l'applicazione della legislazione in materia non comprometta in nessun caso l’efficacia dei diritti di cittadinanza dell'Unione europea.

La presente sentenza, quindi, va a sanare alcune questioni che, in realtà, erano state solamente accennate in altre decisioni (v. la causa C-165/14), sebbene la casistica in questione sia lievemente distinta e apparentemente circoscritta. Senza dubbio, la giurisprudenza in materia di stranieri extra-UE e cittadinanza stavolta viene arricchita di termini come «sviluppo fisico», «legami emotivi» e attraverso un chiaro riferimento agli effetti che queste situazioni potrebbero avere sul fanciullo; per di più, come dimostra il caso di specie, queste considerazioni sono in grado, inevitabilmente, di influenzare anche la situazione del genitore. Nonostante quest’ultimo sia in grado di acquisire una posizione maggiormente tutelata, non vi è dubbio che essa possa avvenire in modo differenziato, sia per questioni puramente economiche, sia per possibili considerazioni di genere. Il rinvio al giudice nazionale, relativamente al giudizio di merito, potrebbe portare ad una condizione del tutore non sempre equilibrata, sia esso cittadino dell’UE o extra-europeo. A tale riguardo, si pensi ai casi di affidamento condiviso o, per assurdo, al bilanciamento del rapporto tra il minore e uno dei genitori, non beneficiari della tutela stabilita dalla presente sentenza. Un impianto sufficientemente giustificato ma che lascia, a nostro modesto avviso, ancora tanti interrogativi.


The Duty to Integrate? Valori condivisi e Popolo nella riforma dell’Australian Citizenship Act

Sembrano ben lontani i tempi in cui Mr. Loyd Garrison, dalle colonne del suo “The Liberator”, ammoniva la comunità statunitense in chiave riformista con la celeberrima espressione «il nostro Paese è il mondo e la cittadinanza l’umanità intera». Proprio l’essere cittadino, ovvero quell’individuo a cui si riconosce il diritto a diventare membro stabile di un determinato popolo, è sempre più oggetto di revisioni e cambi legislativi, non sempre in chiave evolutiva. Talvolta, infatti, la strenua tutela dell’identità nazionale, ovvero dei valori condivisi da un gruppo sociale organizzato, mette in questione anche l’intero impianto normativo che regola l’accesso allo status civitatis, determinandone la relativa fruizione e la successiva tutela.

È quanto si evince dal comunicato, con intenti non solo dichiarativi, del Primo Ministro australiano Malcom Turnbull con il quale sintetizza, seppur con dovizia di particolari, le prossime misure che il Parlamento si troverà a discutere al fine di rafforzare «l’integrità della cittadinanza australiana». Si tratta di una serie di emendamenti all’Australian Citizenship Act del 2007, già riformato nel 2015. Il nodo cruciale riguarda l’introduzione di un sistema di certificazione e valutazione per gli stranieri che presentano domanda per poter conseguire la cittadinanza  e che fa tesoro, a nostro modesto avviso, di altre esperienze straniere, adattandole ad una presunta necessità di ammodernamento legislativo. In primis, si fa riferimento alla previsione di un test di lingua in modalità stand-alone, che mira a determinare le effettive capacità linguistiche del richiedente. Su questo punto, molti sono gli strumenti normativi già in vigore nei Paesi europei, a partire da le Contrat d’Intégration Républicaine francese, di cui all’art. 1 della LOI n° 2016-274 del 7 marzo 2016. Sullo stesso tenore, seppur con un carattere spiccatamente sanzionatorio, anche l’art. 7, comma 1 del Wet Inburgering olandese sull’integrazione degli stranieri, che prevede addirittura differenti livelli di ammenda pecuniaria per coloro che non hanno concluso con profitto l’examination test. Nel caso australiano, la prova sarebbe arricchita da domande più significative atte a valutare la comprensione e l’impegno del candidato nei confronti dei valori nazionali e delle responsabilità condivise. Su quali siano i criteri, il Governo avvierà una consultazione pubblica che si propone di terminare in tempi brevi.

Ulteriore proposta di riforma riguarda il periodo di soggiorno previo nel territorio dello Stato. La legge attualmente in discussione, innalzerebbe da 12 a 48 mesi il tempo di permanenza legale richiesto allo straniero per presentare un’istanza per il conseguimento della cittadinanza. Questa modifica, in realtà, va letta anche alla luce di altri importanti cambiamenti che hanno già riguardato la politica dei visti nel Paese. È ormai in atto, infatti, un processo che porterà alla sostituzione dell’attuale Temporary Work Skilled Visa – subclass 457, ovvero la più comune forma di permesso di soggiorno per motivi di lavoro, che verrà rimpiazzata da un unico Temporary Skill Shortage (TSS) che restringe, in realtà, gli ambiti di applicazione al fabbisogno delle imprese nazionali, sebbene lasci invariato il termine da 2 a 4 anni di validità. Tale meccanismo, poi, si interseca con una rinnovata lista degli ambiti d’occupazione riservati ai migranti, ritenuta maggiormente attenta alle dinamiche del mercato interno e che supererebbe il trattamento previsto per anni dalla Medium and Long-term Strategic Skills List (MLTSSL). Il nuovo documento allo studio del Governo, in verità, porterebbe ad un decremento di circa 200 posizioni lavorative rispetto a quanto previsto in passato.

La strada scelta dall’esecutivo prosegue con l’inserimento di un ulteriore pre-requisito, che invita lo straniero a dimostrare in forma certa le iniziative intraprese per integrarsi e contribuire alla comunità australiana. Tali prove consistono nell’allegare alla domanda il certificato di occupazione in corso di validità, indicare l’appartenenza a organizzazioni sociali e/o a forme associative riconosciute e, in ultimo, presentare l’avvenuta iscrizione agli istituti di istruzione scolastica per tutti i minori ammissibili, ovvero a carico dell’interessato. Questo punto, non troppo scontato, rimanda alla condizione, in realtà molto critica, in cui versano i centri di detenzione australiani, i quali ospitano al loro interno numerosi minori richiedenti asilo: il governo è stato recentemente costretto a demolire alcune strutture e mettere in atto un’opera di riconversione dei centri in “community detention”, anche al fine di migliorarne le condizioni di vita.

Infine, in virtù di quanto sarebbe emerso dalla National Consultation on Citizenship del 2015 e dal Report Migrant Intake into Australia del 2016, l’esecutivo ha ritenuto di dover limitare a tre il numero di volte in cui un candidato può tentare il test di cittadinanza, considerando che nella legislazione sinora in vigore non esiste alcun divieto di ripresentare l’istanza a seguito di un diniego. A ciò si aggiunga l’intenzione di prevedere l’annullamento automatico della prova, con conseguente decadimento della domanda, per coloro che si ritiene abbiano truccato o alterato gli esiti dell’examination test. In ogni caso, qualsiasi comportamento non conforme ai suddetti valori australiani sarà considerato come prova discriminante per la risoluzione del procedimento.

Come già evidenziato in passato per il caso italiano, il tentativo di “contenere” all’interno di un qualsivoglia documento i caratteri fondanti che possano definire e misurare in maniera univoca il grado di integrazione dello straniero all’interno di un dato territorio, finisce molto spesso per accentuare quell’insano e talvolta inconsapevole processo di “amministrativizzazione” che pervade il già complicato ambito della gestione dei flussi migratori. Sebbene sia ammissibile l’idea per cui l’inserimento debba necessariamente passare per la dimestichezza nell’utilizzo di taluni mezzi comunicativi (es. conoscenza della lingua), si ritiene abbastanza articolato e istintivo l’intento del legislatore, con il conseguente timore che esso dia spazio ad una discrezionalità del potere pubblico sulla sfera personale: a nostro avviso, lo Stato dovrebbe scacciare ogni ragionevole dubbio su probabili comportamenti discriminatori o sul rispetto di principi ben meno scontati in questo procedimento.  È sufficientemente chiaro, inoltre, che determinate scelte di policy legislativa determinano ricadute abbastanza rilevanti e che, probabilmente, intaccano la stessa tutela dei diritti di cittadinanza, la quale risulterebbe compressa dall’eccessiva preponderanza di valori e costumi non sempre condivisi dalla totalità del popolo. Nondimeno, la necessità di regolamentare l’accesso al mercato del lavoro e, con esso, l’esigenza di far incontrare la domanda e l’offerta autoctona con il flusso di manodopera straniera, rischierebbe di creare maggiori disparità e situazioni soggettive sfavorevoli, ben distanti dalla sostanza dei diritti di cittadino. Infine, l’estrema somiglianza di queste misure con l’impervio tentativo di legare lo straniero al rispetto tassativo (più tipico della forma contrattualistica) di determinate clausole, rischia di compromettere definitivamente quel concetto inclusivo che la citoyenneté ha sempre rappresentato, fatto salvo sempre il diritto di ogni Stato di prevedere le prerogative per l’accesso nei propri confini. In definitiva, nell’attuale e sovente coniugazione protezionista del paradigma Popolo-Sovranità-Territorio, per ciò che concerne la condizione giuridica dello straniero, è veramente ammissibile un “dovere” ad essere integrati?