Questa casa non è un albergo! A proposito della sentenza Wightman

La Brexit pare insegnare come non sia mai facile separarsi. La ben nota opposizione scozzese e nord-irlandese alla Brexit, le incertezze politiche degli ultimi giorni nel Regno Unito e il recentissimo caso della Corte di Giustizia dell’Unione Europea relativo alla possibilità di revocare l’intenzione di ritirarsi dall’Unione Europea (UE)  (Case C-621/18 Wightman del 10 dicembre 2018) dimostrano che, quand’anche si domi la “bestia” giuridificando  quel tabù (costituzionale) che è la secessione, non è poi così facile “esercitare” il diritto, riconosciuto, a dividersi.
Tutto ciò mi convince ancora di più della difficile relazione fra ordinamento costituzionale e secessione: se si parte dal presupposto, confermato peraltro dal recente parere Wightman, che l’approccio al diritto europeo possa, e in questo caso debba, essere di tipo costituzionale, l’articolo 50 TUE deve essere interpretato come clausola costituzionale piuttosto che dal punto di vista del diritto internazionale in base alla Convenzione di Vienna sui Trattati. Di conseguenza il sistema giuridico dell’UE avrebbe rotto, insieme a pochi altri ordinamenti interni, il c.d. tabù costituzionale giuridificando la secessione: una rottura che, negli ultimi anni, è stata auspicata da molta parte della dottrina costituzionalistica con giustificazioni anche diverse, ma che si possono comunque riassumere nell’idea che proceduralizzare e “addomesticare” la separazione potrebbe scongiurare i pericoli e gli eccessi più gravi dei movimenti secessionisti. Il recente dibattito sulla secessione si è poi incentrato sul “come” costituzionalizzare il fenomeno giacché, per parte della dottrina, lasciare la secessione nella sfera del non-diritto, delle circostanze di natura squisitamente politica, finirebbe per incoraggiare le rivendicazioni secessioniste, mentre gli strumenti giuridici che potrebbero disciplinarla sarebbero alla portata dei nomoteti.
Al di là della difficoltà di individuare i giusti procedimenti con cui arrivare a una secessione legittima e del rischio di abuso della clausola sulla secessione dovuto a una utilizzazione strategica della minaccia dell’uscita per negoziare condizioni più favorevoli, rendere la secessione un’opzione costituzionale dovrebbe impedire l’uso della forza, della coercizione o della violenza (Brexit, Montenegro per fare due esempi) ma, in ogni caso, una volta presa (democraticamente) la decisione di separarsi, la questione non si risolve una volta per tutte: prima che l’opzione diventi reale sono, infatti, necessari seri e complessi negoziati di natura politico-istituzionale, giuridica ed economica, soprattutto quando il contesto è quello di una duratura interdipendenza.
Se, da un lato, la mancata consapevolezza del Regno Unito dell’eventuale “severità” e “complessità” dei negoziati che avrebbero fatto seguito al voto a favore del Leave, ha sicuramente oscurato la difficoltà di “separarsi”, dall’altro, da parte UE, la secessione è stata vista come normale, facile, senza rischi come dovrebbe essere l’“uscita” da un sistema “atipico”, peculiare, non-statale, come quello dell’UE.
Invece entrambi sbagliavano, tanto che la Corte di giustizia ha rassicurato tutti gli interessati avvertendoli che è possibile, fino all’ultimo giorno prima dell’accordo - o del periodo di proroga nel caso in cui venga richiesto e concesso -, revocare l’intenzione di separarsi. Ha aggiunto, inoltre, che gli altri Stati membri, e le istituzioni europee (Consiglio e Commissione), si dovranno eventualmente limitare a prendere semplicemente atto della nuova volontà.
“Questa casa non è un albergo!” (da cui si può entrare e uscire quando si vuole), avrebbero detto nella mia famiglia negli ormai lontani anni Ottanta, mentre la Corte si è limitata, pochi giorni, fa a dare un’opportunità al governo britannico di uscire dall’impasse in cui si è ritrovato, suo malgrado, il Regno Unito.
L’iniziale condotta delle istituzioni europee nei confronti della Brexit, che mi aveva indotto a parlare di un atteggiamento di laissez-faire delle istituzioni europee nei confronti dell’uscita di un suo Stato membro e che ha certamente sviato lo stesso governo britannico di fronte alle reali difficoltà di una separazione - sembra in qualche modo essere stata attenuata dalla fermezza nei negoziati, diretti, per la parte europea, da Michel Barnier. Eppure l’iniziale reazione politica di tranquillità nei confronti della Brexit, che peraltro non teneva assolutamente conto del possibile effetto di “contagio” sugli altri paesi europei, era da considerarsi assolutamente in linea con un sistema giuridico che ha regolato esplicitamente la separazione di uno Stato membro per “governare” l'uscita dall'UE. Eppure quand’anche un ordinamento, come quello europeo, “legalizzi” la secessione, autorizzando gli Stati membri a uscire dall’Unione in modo unilaterale e incondizionato, sebbene non immediato, la separazione può incontrare non poche difficoltà, con buona pace di alcuni fautori della costituzionalizzazione del diritto a secedere e del suo potere “lenitivo”.
Peraltro la Brexit, come anche la dissoluzione dei paesi le cui costituzioni prevedevano la secessione - come l’ex-URSS, l’ex Jugoslavia e l’ex Unione di Serbia e Montenegro – sta lì a dimostrare come spesso il formalismo produca significativi effetti giuridici e politici. Il dilemma se la mancata costituzionalizzazione finisca per demonizzare la secessione, quando invece la sua costituzionalizzazione la normalizzerebbe (in quanto normata) - trasformando “un tabù costituzionale” in uno dei tanti diritti ed opzioni di cui dispongono le entità sub-statali, facendogli perdere molto del suo fascino - potrebbe essere sciolto oltre che guardando non solo all’attuale vicenda Brexit, ma anche alla storia degli Stati. Storia che, infatti, ha, in parte, dimostrato come la costituzionalizzazione della secessione - cioè il tentativo di neutralizzare un eventuale conflitto secessionista - possa finire, in un determinato momento, per incentivarla  e come la mancata costituzionalizzazione della stessa possa, invece, finire per disincentivarla, o quantomeno per scoraggiare l’entusiasmo separatista dei cittadini chiamati, con il voto, ad esprimersi su una eventuale separazione (si pensi ai risultati dei referendum in Québec e in Scozia). Anche in queste vicende si può individuare il motivo per cui il diritto a secedere non ha trovato facile ospitalità nei sistemi costituzionali, a differenza di quanto avvenuto a Lisbona per l’ordinamento dell’UE o a quanto statuito con l’art. 59 del Progetto di trattato costituzionale dell'Unione Europea del 2004.
Il richiamo della Corte di giustizia in questa circostanza alla costituzionalità del diritto europeo andrebbe quindi analizzato in profondità: infatti, l’interpretazione della clausola secessionista, inserita senza troppi dubbi all’interno del Trattato di Lisbona, aveva portato chi scrive a sostenere che l’Unione Europea era una forma di organizzazione politica nuova e atipica rispetto agli Stati costituzionali. La secessione, infatti, si oppone (come anche, ad esempio, il potere costituente) alla nozione tradizionale di perpetuità delle costituzioni degli Stati e, al tempo stesso, a quella dell'indivisibilità della sovranità, opposizione che spiega altresì la tradizionale ostilità all’introduzione di clausole secessioniste negli ordinamenti interni. Il suo inserimento nel Trattato dell’UE non aveva, invece, preoccupato né i sostenitori della perpetuità delle costituzioni - i trattati europei non sono concepiti come perpetui - né tanto meno i sostenitori dell’indivisibilità della sovranità: il locus della sovranità non è l’Unione Europea. La lettura costituzionalistica della Corte potrebbe rimettere in discussione anche questa “scontata” interpretazione dell’art. 50 del Trattato di Lisbona. Mettendola in discussione, però, la Corte ha messo in luce come anche la costituzionalizzazione della secessione - che sarebbe, quindi, diversa dalla giuridificazione del semplice diritto “di recedere” da un contratto, da un trattato o da un’organizzazione politica originale e atipica come quella europea – non immunizzi l’ordinamento in questione dalle difficoltà tipiche delle separazioni. Ricordando la natura costituzionale dei Trattati, la Corte ha quindi anche mostrato che proceduralizzare non significa ridurre il rischio dell’uscita né tantomeno che affidare al diritto il fenomeno secessionista significhi automaticamente abbassare i costi politici di una exit: l’idea che i costi politici di una secessione sarebbero ben più bassi di quelli che ci si troverebbe a pagare in un sistema costituzionale che non autorizza né regola l’exit andrebbe anch’essa rivista. E anche nell’eventualità in cui non si sposi la lettura costituzionalistica dell’art. 50 fornita dalla Corte, andrà anche rivista, alla luce di questo parere, l’ipotesi secondo cui un sistema di tipo non-statuale e dal carattere peculiare quale l’Unione Europea non sarebbe messo in crisi dal ritiro di un suo Stato membro.
Le cose rilevanti, comunque, mi paiono due: l’UE è qualcosa di più di un sistema non-statuale e allora va rafforzata completando il processo - interrotto o mai iniziato, dipende dai punti di vista - di federalizzazione e di costituzionalizzazione senza necessariamente farla diventare una “prigione”, oppure l’Unione è la semplice somma degli Stati membri per cui può essere lasciata in balia dei diversi sovranismi populisti o delle diverse paventate exit, rendendo la gestione del rischio di uscita davvero impossibile anche con la migliore formulazione giuridica, quale si era pensato fosse l’art. 50 TUE. La Corte appare posizionata a metà delle due direzioni. Da un lato, non soffermandosi sulle preoccupazioni legittime di Consiglio e Commissione relative alla possibilità dell’abuso del diritto di revoca, va nella seconda direzione e strizza l’occhio a populisti e sovranisti, richiamando spesso il concetto di sovranità statuale e facendone, in qualche modo, il pilastro della sentenza, ricordando che in ultima analisi gli Stati rimangono i “signori” dell’Unione. Dall’altro, la mano tesa al Regno Unito, a cui si dà la possibilità di mutare le proprie intenzioni, grazie alla lettura costituzionale del Trattato e dell’art. 50, sembra andare nella prima direzione, ovvero quella di una “ever closer union”: basti pensare all’importante riferimento all’impatto dell’eventuale uscita del Regno Unito sulla cittadinanza dell’UE (par. 64). Questo richiamo a una sorta di “priorità” della cittadinanza europea rispetto alle cittadinanze nazionali può offrire importanti elementi di riflessione a proposito dell’ordinamento dell’UE. D’altra parte, anche la secessione solleva una serie d’interrogativi sul disegno istituzionale dell’UE: per lungo tempo dopo l’originaria esperienza americana – la guerra detta paradigmaticamente “di secessione” – il concetto di secessione è rimasto legato alla forma federale, rivelando come l’uso politico del concetto stesso fosse legato a un particolare contesto politico, quale è quello di Unione, Confederazione e/o Federazione di Stati.
Per “unione stabile fra Stati” (quale che sia il carattere di essa), dovrebbe intendersi però, quell’unione che né entra entra in crisi a causa di una secessione né diventa uno Stato unitario. La peculiarità del sistema organizzativo dell’UE non dovrebbe automaticamente esporla al rischio della dissoluzione lasciando, ancora una volta, aperta la possibilità che lo Stato rimanga la sola forma di organizzazione politica escogitata sino a oggi dalla modernità per misurarsi con lo spazio.
Le uniche due condizioni che la Corte mette sono, la prima, che la notifica debba essere formale e “unequivocal and unconditional” e che, di conseguenza, “the purpose of that revocation is to confirm the EU membership of the Member State concerned”.  La seconda prevede che la decisione di revoca sia presa “in accordance with the constitutional requirements of the Member State in question”. La Corte si limita a richiamare la necessità della conformità alle norme costituzionali del Regno Unito della decisione di revocare la volontà di ritirarsi dall’Unione, ma non fa alcun riferimento a una specifica azione condotta in applicazione delle proprie norme costituzionali, come, ad esempio, un referendum, una votazione significativa in parlamento o il risultato di elezioni generali da cui emerga una maggioranza contraria.
Et pour cause! L’art. 50 TUE non aveva previsto, e quindi imposto, le procedure con cui uno Stato membro arriva alla decisione di ritirarsi dell’Unione, per cui la Corte non potrebbe decidere le modalità con cui può arrivare alla decisione contraria.