Le conclusioni del Consiglio europeo straordinario del 21 luglio 2020: una svolta con diverse zone d’ombra

Dopo quattro giorni di intensi negoziati, il 21 luglio 2020, il Consiglio europeo, in riunione straordinaria, ha approvato nelle sue conclusioni il piano Next Generation EU (NGEU) e le linee di fondo per la negoziazione del nuovo Quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027 rivedendo sensibilmente – senza stravolgerle – le proposte formulate dalla Commissione europea a fine maggio. Si tratta del più ambizioso piano per il sostegno della ripresa economica – in questo caso, legato alla crisi generata dalla pandemia – che l’Unione europea abbia mai messo in campo. Ciò, a maggior ragione, se il piano viene considerato assieme al Pandemic Emergency Purchase Programme della Banca Centrale europea, un programma di acquisti che si aggira, tra il primo annuncio del 18 marzo e la decisione di “rincarare la dose” il 4 giugno, sui 1350 miliardi di euro.
Rispetto al precedente QFP 2014-2020, la combinazione tra il nuovo QFP e NGEU dovrebbe mobilizzare quasi il doppio delle risorse stanziate in questi ultimi sette anni, passando dall’1% al 2% del reddito nazionale lordo complessivo degli Stati Membri. Anche se leggermente inferiore a 1100 miliardi di euro, previsti dalla Commissione, il nuovo QFP che si negozierà è comunque più generoso, in termini di risorse, di quello tuttora in vigore. La vera novità, però, è costituita da NGEU e dal suo dispositivo per la ripresa e la resilienza (e, in particolare, come si dirà di seguito dalle modalità di finanziamento di quest’ultimo) che si attesta sui 750 miliardi di euro. Le dimensioni finanziarie di NGEU non sono state modificate rispetto alla proposta della Commissione, ma ne è cambiata la composizione interna, e il Consiglio europeo ha altresì previsto una serie di significativi “movimenti” tra le varie poste in bilancio del QFP, come si dirà a breve.
Se, a inizio maggio, la proposta Macron-Merkel aveva ipotizzato un fondo di 500 miliardi di euro, da erogare esclusivamente con sovvenzioni, la Commissione europea, anche per venire incontro alle perplessità dei c.d. Paesi “frugali” (Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia, in composizione variabile), aveva aumentato l’entità del fondo a 750 miliardi di euro, ma aveva proposto che 250 miliardi fossero assicurati mediante prestiti. Ora, dopo la decisione del Consiglio europeo, la quota dei prestiti è aumentata a 360 miliardi, sebbene le sovvenzioni risultino leggermente superiori (390 miliardi, di cui 312 assicurate mediante il dispositivo per la ripresa e la resilienza). E’ chiaro che la valenza simbolica di distribuire la parte più significativa di queste risorse mediante sovvenzioni è elevata perché rinvia ad una idea di solidarietà europea, anche inter-statale, che è stata a lungo carente nell’Unione, nonostante i Trattati non siano affatto privi di riferimenti al principio-valore della solidarietà (v., su tutti, l’art. 2 TUE). Comprensibilmente, però, non si tratta di mere donazioni e non solo i prestiti, ma anche le sovvenzioni sono soggette a condizioni. Il rimborso dei prestiti, in base ad un calendario che dovrà essere concordato e “secondo il principio della sana gestione finanziaria “(par. A7), è previsto su un lungo arco temporale e dovrà in ogni caso concludersi entro il 31 dicembre 2058.
Anche ai fini delle sovvenzioni gli Stati membri sono chiamati a presentare piani per la ripresa e la resilienza con il programma di investimenti e riforme che intendono effettuare nel periodo 2021-2023, periodo entro il quale gli impegni per le sovvenzioni devono essere finalizzati. La Commissione esamina tali piani entro due mesi dalla presentazione e la valutazione positiva è condizionata al rispetto di una serie di criteri elencati (par. A19), non è chiaro con quale ordine di importanza. Innanzitutto, si menziona il requisito della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese, che rimandano subito al Patto di stabilità e crescita e al semestre europeo i quali, quindi, è prevedibile che nel giro di qualche mese torneranno nella loro piena vigenza dopo l’attivazione della clausola di salvaguardia generale nella fase più acuta della pandemia in Europa. Si tratta di un rinvio importante visto che, come è noto, le raccomandazioni specifiche per paese spaziano da questioni strettamente inerenti ai conti pubblici a riforme istituzionali, fino alla segnalazione di carenze direttamente collegate al rispetto della rule of law. Ad ogni modo, senza dubbio, dalle conclusioni del Consiglio europeo traspare una forte enfasi sul funzionamento a pieno regime della governance economica e delle sue condizionalità. Si ritiene necessario rafforzare il legame tra il bilancio dell’Unione e il semestre europeo (par. 17, Allegato) e mantenere il collegamento tra politiche di finanziamento dell’Unione – in cui rientrano tanto il QFP che NGEU –e la governance economica europea, eventualmente anche consentendo alla Commissione di proporre al Consiglio di “sospendere integralmente o in parte gli impegni o i pagamenti a favore di uno o più programmi di uno Stato membro che omettesse di intraprendere azioni efficaci nel contesto del processo di governance economica” (par. 69, Allegato; come era già previsto in qualche misura dall’art. 23 del regolamento (UE) n. 1303/2013).
Tra i criteri da seguire per i piani nazionali si enunciano poi quelli del rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della “resilienza sociale ed economica” del Paese; standard, quest’ultimo, tutto da definire e che potrebbe prestarsi a varie letture, più o meno estensive. Si potrebbe pensare, in prima battuta, che un po' come avvenuto per il Patto di stabilità e crescita, anche nel caso della ripresa dalla pandemia, un elevato grado flessibilità potrebbe essere applicato dalla Commissione europea. Ad uno sguardo più approfondito, però, sembra difficile che questa ipotesi possa dispiegarsi pienamente e ciò non solo per i richiami puntuali nelle conclusioni al rapporto tra uso dei fondi e rispetto delle regole fiscali europee.
Infatti, vi sono alcune importanti differenze procedurali tra semestre europeo e valutazione dei piani collegati a NGEU. Mentre nell’ambito del primo le valutazioni della Commissione, che necessitano di una approvazione da parte del Consiglio, si considerano da questo adottate, a meno che non vengano respinte al suo interno da una maggioranza qualificata di Stati contrari, i piani nazionali per la ripresa e la resilienza devono essere approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata. Se l’unanimità è stata scongiurata, il voto a maggioranza qualificata sui piani, dopo le divisioni che si sono venute a creare tra i 27 Stati in questo frangente, potrebbe non esser scontato. Peraltro, sembra che i margini di manovra della Commissione – sulla base delle conclusioni del Consiglio europeo, almeno – siano ulteriormente costretti dal fatto che essa deve richiedere il parere del comitato economico e finanziario sul rispetto degli obiettivi prefissati: con un parere che dovrebbe essere fornito, tendenzialmente, per consenso. Uno o più Stati membri potranno comunque richiedere l’attivazione del “freno d’emergenza” qualora si rilevino “gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali”. In questo caso, della questione è investito il Consiglio europeo e ogni determinazione della Commissione in proposito è sospesa fintanto che il Consiglio europeo non ne avrà discusso in modo esaustivo entro un termine (ordinatorio, stando alla formulazione delle conclusioni, par. A19) di tre mesi da quanto la Commissione richiede il parere al comitato economico e finanziario. La procedura, inclusi i possibili veti sospensivi nazionali, è dunque costellata di vari ostacoli procedurali che potrebbero frapporsi all’approvazione dei piani a livello europeo, a differenza delle più “snelle” procedure sui programmi di stabilità e convergenza e sui programmi nazionali di riforma.
Il Consiglio europeo ha anche visibilmente alterato nella distribuzione dei fondi le priorità che la Commissione Van der Leyen aveva indicato: anzitutto per la politica ambientale e il Green Deal europeo. E’ vero che rispetto ai criteri di valutazione dei piani nazionali per la ripresa e la resilienza poc’anzi elencati il Consiglio europeo considera come “condizione preliminare ai fini di una valutazione positiva” il loro effettivo contributo ad una transizione verde (e digitale) (par. A19). Inoltre, per il Consiglio europeo almeno il 30% delle spese supportate del bilancio europeo e di NGEU deve essere destinato al sostegno degli obiettivi climatici. Tuttavia, la dotazione del “fondo per una transizione giusta”, l’architrave del Green Deal europeo, è stata ridotta dal Consiglio europeo di due terzi (da 30 a 10 miliardi). Una sorte simile è toccata ai finanziamenti per l’istruzione e la ricerca, per la politica migratoria e di asilo, e alla dotazione di InvestEU, che sostituisce il fondo europeo per gli investimenti strategici – quanto mai cruciali in questa fase – e che è stato ridotto di circa l’80% rispetto alla proposta della Commissione, mentre, al contrario, le compensazioni agli Stati membri contributori netti del bilancio europeo (tendenzialmente coincidenti con i Paesi “frugali”) sono state mantenute o aumentate.
Sullo sfondo, poi, si staglia il controverso nodo della condizionalità dei fondi rispetto alla protezione dello stato di diritto, oggetto di una proposta presentata della Commissione nel 2018 nel quadro del pacchetto sul nuovo QFP. Il Consiglio europeo non ha eluso il nodo, ma da un lato ha “promesso” di ritornare rapidamente sulla questione per fornire chiarimenti quanto mai necessari (par. 23, Allegato); dall’altro, ha cercato strategicamente di non enfatizzarlo troppo, aldilà di alcune dichiarazioni di principio alquanto generiche ed equivoche. Tanto è vero che, all’indomani della pubblicazione delle conclusioni, le parti in causa, da una parte i leader di Polonia e Ungheria, e dall’altra i sostenitori del rispetto dello stato di diritto, tra cui la Commissione, si affrettavano ciascuno a dichiarare vittoria.
Le conclusioni, infatti, contengono disposizioni “fotocopia” tra il testo principale e l’allegato (cfr. par. 24 e par. 22, Allegato). I rinvii in questione evidenziano come gli interessi finanziari dell’Unione vadano collegati alla tutela dei suoi valori, in particolare dei valori di cui all’art. 2 TUE, tra cui vi è quello della tutela dello stato di diritto insieme a molti altri, come la solidarietà prima evocata. Quindi, il Consiglio europeo sottolinea in parallelo l’importanza di assicurare tanto gli interessi finanziari dell’Unione quanto il rispetto dello stato di diritto. Di seguito, però, l’introduzione di un regime di condizionalità a tutela del QFP e di NGEU da istituirsi sulla base di tali premesse, con violazioni che potranno essere sanzionate dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione (par. 23, Allegato), non è chiaramente riferita alla garanzia dello stato di diritto. Ad ogni modo, anche se poi si parla di frodi sui fondi europei, sembra difficile che quella condizionalità possa riferirsi ad altro rispetto al collegamento tra risorse europee e carenze sistemiche della rule of law a livello nazionale. In attesa dei chiarimenti del Consiglio europeo, è stato osservato che implicitamente il requisito del rispetto dello stato di diritto è richiesto anche per beneficiare di NGEU e, in particolare, per l’approvazione dei piani per la ripresa e la resilienza, visto che per Paesi come Polonia e Ungheria la Commissione europea negli ultimi anni ha sistematicamente richiamato i governi nelle raccomandazioni specifiche indirizzate a quegli Stati alla garanzia o al rafforzamento dell’indipendenza delle corti. In altri termini, le raccomandazioni specifiche per Paese potrebbero diventare il passepartout per adattare i contenuti dei piani a ciò che la Commissione ritiene imprescindibile per l’erogazione dei fondi, inclusa la protezione dello stato di diritto, anche se l’ipotesi del freno di emergenza, in presenza di interessi tanto contrapposti, rischia di rendere difficoltosa l’adozione dei piani per la ripresa. Su questo profilo, sulle compensazioni agli Stati membri contributori netti nonché sui tagli in settori strategici per le politiche europee, è comunque probabile che la Commissione e il Parlamento cercheranno di farsi sentire (v. la Risoluzione del 23 luglio del Parlamento).
Esaminate l’entità di NGEU e del QFP, la loro articolazione e le modalità di spesa del primo, occorre soffermarsi ora sull’ultima delle novità di assoluto rilievo – forse quella principale – che connotano le conclusioni del Consiglio europeo del 21 luglio e, probabilmente, il futuro del processo di integrazione europea. Come è finanziato NGEU?
Mancando sia imposte proprie dell’Unione sia un bilancio europeo sufficientemente ampio, NGEU sarà finanziato mediante l’emissione di debito comune da qui al 2026 garantita mediante risorse dai bilanci nazionali: una ulteriore prova di solidarietà europea che riguarda tutti gli Stati membri e non la sola Eurozona, in ragione della portata della crisi. Non è la prima volta che strumenti di debito europeo sono utilizzati (cfr. L. Tosato, The Recovery Fund: Legal issues, LUISS School of European Political Economicy, Policy brief 23/2020). La prima volta era accaduto nel 1975, all’epoca della crisi petrolifera, per la creazione del meccanismo di prestito comunitario. Più recentemente un sistema simile era stato attivato per alimentare il fondo finanziario europeo per la stabilizzazione nel 2010, ma con una dotazione di soli 60 miliardi di euro. Le dimensioni dell’operazione finanziaria tramite NGEU sono invece impressionanti e inedite per l’Unione, dovendo emettere debito per 750 miliardi di euro. L’Unione diventerebbe così “[one of] Europe’s largest bond issuers” sui mercati finanziari (cfr. T. Stubbington and M. Arnold, Investors hail Brussels as a new force in bond markets, in Financial Times, 22 luglio 2020).
La decisione di procedere all’emissione di debito comune rappresenta anche un punto di svolta rispetto alla tradizionale ortodossia europea, basata su una lettura rigorosa dell’art. 310 TFUE (e codificata nel regolamento finanziario in vigore), secondo cui il finanziamento della spesa mediante indebitamento da parte dell’Unione è vietato (cfr. P. Leino-Sandberg, Who is ultra vires now? The EU’s legal U-turn in interpreting Article 310 TFEU, in Verfassungsblog, 18 giugno 2020), con conseguenti ricadute e criticità che questo potrà comportare eventualmente nella fase di approvazione nazionale delle nuove misure, in particolare della Decisione sulle risorse proprie.
Se e come questo importantissimo segno di discontinuità rispetto alle politiche europee seguite sinora, specie durante la crisi dell’Eurozona, potrà influire sul processo di integrazione europea in futuro è questione controversa. Unita dalla comune emergenza sanitaria ed economica innescata dalla pandemia, l’Europa dopo il Consiglio europeo, nonostante la salda guida tedesca, appare però quanto mai divisa e le conclusioni raggiunte segnano solo un primo, importante, passo. L’attuazione di NGEU, l’attivazione del suo fondo principale, l’approvazione del nuovo QFP e poi le decisioni sui piani nazionali non sembrano poi così scontati alla luce del quadro e delle procedure descritti. Basti considerare che per la Decisione sulle risorse proprie, che costituirà la base giuridica per il programma di indebitamento e poi per i rimborsi è richiesta l’unanimità in Consiglio e l’approvazione da parte di tutti i Paesi membri in conformità alle rispettive norme nazionali (art. 311 TFUE). Il QFP, per parte sua, è deliberato dal Consiglio, sempre all’unanimità, e dal Parlamento – molto critico nei confronti di alcuni passaggi delle conclusioni del 21 luglio – a maggioranza dei componenti.
Si è poi opportunamente messo in luce che controversa è la legittimazione democratica di questa importante riforma. Non tanto o non solo per il fatto che l’input decisivo sia venuto dal Consiglio europeo, quanto per come le varie misure saranno adottate e poi l’esecuzione sarà controllata, principalmente attraverso le ordinarie procedure di approvazione del budget annuale e pluriennale europeo (su cui cfr., volendo, C. Fasone e N. Lupo, The Union Budget and the Budgetary Procedure, in R. Schütze and T. Tridimas (cur.), Oxford Principles of European Union Law, Oxford, OUP, vol. 1, 2018, pp. 809-846). Il Parlamento europeo approva come co-decisore con il Consiglio il bilancio annuale e, seppur con procedura legislativa speciale, il QFP, ma per la Decisione sulle risorse proprie è solo consultato e, in base all’art. 122 TFUE, che rappresenta la base giuridica per la creazione del dispositivo sulla ripresa e la resilienza (novità decisiva nel quadro delle procedure finanziarie europee), il Parlamento è soltanto informato dal Consiglio. I parlamenti nazionali, che controllano in fondo le garanzie per l’emissione del debito comune europeo, si pronunciano “ratificando” la Decisione sulle risorse proprie, con maggioranze diversificate (ad esempio la maggioranza semplice in Italia e una maggioranza costituzionale in Germania), ma è difficile che poi riescano ad avere il polso della sua esecuzione o lo avranno comunque differenziato a seconda dei poteri e delle prerogative parlamentari nazionali. Che questo sia un elemento cruciale, del resto, lo si evince anche dal dibattito di questi giorni, in Italia e altrove, su come favorire il controllo parlamentare dei fondi erogati mediante NGEU.
Da questo punto di vista il ricorso all’indebitamento è un problema per la sostenibilità democratica delle procedure oggi, anche se consente di rispondere rapidamente ad una situazione assai grave come quella della crisi che stiamo vivendo, e per la sostenibilità finanziaria del bilancio europeo nel medio-lungo periodo. Per un piano, come Next Generation EU, che ha una denominazione tanto altisonante e che intende mettere al centro le generazioni future, la sostenibilità non può essere un elemento secondario. E’ sostenibile un bilancio quasi interamente sprovvisto di risorse autonome e alimentato quasi soltanto con contributi nazionali e ora anche con debito? Il tema delle nuove imposte europee è toccato marginalmente nelle conclusioni – sintomo delle mai sopite tensioni tra gli Stati sul punto – promettendo l’introduzione di una tassa basata sui rifiuti di plastica non riciclati nel 2021, poi entro il 2023 l’introduzione di un “meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera” e di un “prelievo sul digitale” e promettendo l’ennesima riforma del sistema delle risorse proprie (par. A29). Forse, l’emissione di debito comune europeo può essere vista in prospettiva come il “grimaldello” per rendere la costruzione di una unione fiscale non più rinunciabile, con conseguenti benefici anche per la sostenibilità democratica e finanziaria dell’Unione. Ma affinchè ciò accada occorre innanzitutto che gli Stati membri si impegnino nel superare le attuali, vistose, divergenze di vedute.

 


Violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale e ricorso per inadempimento: verso un sistema di giustizia costituzionale “composito” nell’Unione? (Prime riflessioni a partire dalla sentenza Commissione c. Francia, C-416/17)

Introduzione

Il 4 ottobre 2018, nell’ambito della causa C-416/17, Commissione europea c. Repubblica francese, la Corte di giustizia europea ha pronunciato una sentenza di grande momento sul rapporto tra l’istituto del rinvio pregiudiziale e il ricorso per inadempimento nell’ambito della fase contenziosa della procedura di infrazione. La sentenza è passata immeritatamente inosservata, con alcune eccezioni (v. D. Sarmiento, Judicial Infringements at the Court of Justice – A brief comment on the phenomenal Commission/France (C-416/17), in Despite our Differences Blog, 9 ottobre 2018), rispetto ad una serie di casi pure assai recenti e significativi decisi dalla Corte che hanno avuto ampia visibilità per il loro immediato impatto sui diritti (Client Earth c. Commissione, C-57/16, sul diritto di accesso ai documenti, e Bauer e altri, C-569/16 e C-570/16, sui diritti sociali e la diretta efficacia della Carta dei diritti fondamentali) e sui principi della rule of law (cfr., da ultimo, l’ordinanza della Vicepresidente della Corte di giustizia Rosario Silva de Lapuerta del 19 ottobre 2018 che ha sospeso gli effetti della riforma del sistema giudiziario polacco nell’ambito del caso C‑619/18 R, Commissione c. Polonia, su cui v. G. Repetto, Incroci (davvero) pericolosi. Il conflitto giurisdizionale sull’indipendenza dei giudici tra Lussemburgo e Varsavia, in Diritticomparati.it, 7 novembre 2018).
La sentenza in commento verte in realtà su una questione assai tecnica, legata al calcolo dei crediti di imposta, e non tra le più appealing politicamente parlando, trattandosi del diritto al rimborso dell’anticipo di imposta pagato sui dividendi trasferiti ad una società controllante da società controllate residenti e non-residenti in Francia. In particolare, la Repubblica francese era accusata di porre in essere un trattamento discriminatorio nei confronti delle società controllate, di primo e di secondo livello, residenti nel territorio di un altro Stato membro, in violazione degli artt. 49 e 63 del TFUE sulla libertà di stabilimento e sui limiti alla circolazione dei capitali.
Nell’ambito del ricorso per inadempimento ex art. 258 TFUE esperito dalla Commissione europea contro la Francia, dei quattro motivi addotti dalla Commissione per contestare la violazione delle norme europee e che saranno brevemente ricostruiti di seguito si prenderà specificamente in esame il quarto, sul mancato rinvio pregiudiziale da parte del Consiglio di Stato francese e dunque sulla presunta violazione dell’art. 267.3 TFUE come fondamento di un ricorso per inadempimento. Tale motivo di ricorso, accolto dalla Corte di giustizia, infatti, è quello che sembra poter produrre significative implicazioni costituzionali per i rapporti tra le Corti nazionali di ultima istanza e la Corte di giustizia nonchè per i meccanismi di tutela dei diritti fondamentali nell’Unione.
Due sono le novità più significative relative a questo caso che occorre subito segnalare. 1) Non era mai accaduto prima che la Commissione europea avviasse una procedura di infrazione, nella fase del ricorso per inadempimento, sulla base della mancata esecuzione di sentenze della Corte di giustizia da parte di Corti nazionali (v. Conclusioni dell’Avvocato Generale Wathelet, punto 87). 2) Mai prima d’ora la Corte di Lussemburgo aveva condannato uno Stato per inadempimento nell’ambito di una procedura di infrazione a causa dell’inerzia di una sua Corte di ultima istanza ad operare il rinvio pregiudiziale quale strumento di garanzia dell’uniforme applicazione del diritto dell’Unione. In casi precedenti in cui la Corte di giustizia pure sarebbe potuta pervenire a simili conclusioni (C-129/00, Commissione c. Italia, e C-154/08, Commissione c. Spagna), non si era mai spinta a tanto. Gli scenari che ora si aprono sono tutti da esplorare, ma paiono alquanto “rivoluzionari” anche per il tipo di giurisdizione “costituzionale” che la Corte di giustizia intende ritagliarsi.

 

Motivi del ricorso e decisione della Corte

Venendo ora a richiamare per sommi capi i motivi del ricorso, innanzitutto, 1) la Commissione contestava alla Repubblica francese il mantenimento di restrizioni al diritto al rimborso dell'anticipo di imposta sui dividendi versati a società nazionali da società controllate di secondo livello residenti in altro Stato membro dell'Unione al quale non erano soggette, invece, società analoghe residenti in territorio francese. Così facendo, le autorità francesi non tenevano conto dell'imposizione fiscale subita in un Paese membro diverso dalla Francia dalle controllate di secondo livello non residenti, assoggettandole di fatto ad una doppia imposizione fiscale. Dunque, a parere della Corte, la Francia manteneva una condotta discriminatoria nei confronti di queste ultime, in violazione degli artt. 49 e 63 TFUE nonchè di quanto già stabilito dalla stessa Corte nella sentenza Accor (C-310/09, del 15 settembre 2011, EU: C:2011:581), con cui la Repubblica francese era stata condannata - seppure il caso Accor riguardasse società controllate di primo livello - e nelle sentenze Test Claimants in the FII Group Litigation (C‑446/04, del 12 dicembre 2006, EU:C:2006:774) e Test Claimants in the FII Group Litigation (C‑35/11, del 13 novembre 2012, EU:C:2012:707).
Non vengono accolti, invece, il secondo e il terzo motivo del ricorso addotti dalla Commissione. Riguardano, rispettivamente, 2) il carattere sproporzionato dei requisiti stabiliti per provare la sussistenza del diritto al rimborso, da parte delle società controllanti francesi che percepiscono dividendi da controllate straniere, dell’anticipo d’imposta illegittimamente percepito dall'amministrazione tributaria francese; 3) il limite massimo dell'importo ad esse rimborsabile pari ad un terzo dell'ammontare dei dividendi distribuiti (anzichè metà di tali dividendi, limite fissato per le controllanti francesi che percepiscono dividendi da controllate nazionali).
Infine, come anticipato, 4) l'ultimo motivo del ricorso, relativo alla presunta violazione dell'obbligo di operare un rinvio pregiudiziale ex art. 267.3 TFUE, è considerato fondato dalla Corte e, di gran lunga, presenta i profili di maggior interesse per il diritto costituzionale "composito" dell'Unione. La Commissione obiettava, infatti, che il Consiglio di Stato francese avrebbe dovuto rinviare alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale sugli artt. 49 e 63 TFUE per come erano stati interpretati nelle sentenze Accor e Test Claimants I e II prima di definire le modalità di rimborso dell’anticipo di imposta illegittimo, trattandosi di “giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” (Art. 267.3 TFUE): dunque potenzialmente suscettibile di consolidare nell’ordinamento francese una giurisprudenza in contrasto con il diritto dell’Unione, se la Corte di giustizia non fosse potuta intervenire “a correzione” (v., ad esempio, il caso Aquino, C‑3/16, sentenza del 15 marzo 2017, EU:C:2017:209, punto 33).
Dopo le sentenze dalla Corte di Giustizia appena richiamate, infatti, il Consiglio di Stato era ritornato sulla questione del rimborso nelle sentenze Rhodia (FR:CESSR:2012:317074.20121210) e Accor (FR:CESSR:2012:317075.20121210), entrambe del 10 dicembre 2012, discostandosi dalle prime e senza adire la Corte di giustizia, sebbene sussistesse un ragionevole dubbio interpretativo sul regime fiscale. La Repubblica francese ribatteva, però, con argomenti respinti dalla Corte di giustizia europea, che la sentenza Accor della Corte di Lussemburgo non riguardava le controllate di secondo livello e che le sentenze Test Claimants I e II non erano vincolanti per la Francia vista la diversità di regimi fiscali quanto alla disciplina dell’anticipo e del credito d’imposta tra il Paese e il Regno Unito, che in quel caso era stato condannato.
Nel caso di specie non ricorrono infatti gli estremi indicati nel caso Cilfit (283/81 del 6 novembre 1982, EU:C:1982:335) affinchè una corte di ultima istanza possa considerarsi esentata dall’obbligo di rinvio pregiudiziale. Tra queste condizioni rientrano la non rilevanza della questione, il fatto che la medesima disposizione di diritto europeo sia già stata interpretata dalla Corte o che la sua interpretazione non lasci adito a ragionevoli dubbi interpretativi: circostanza, quest’ultima, smentita dalle decisioni del Consiglio di stato francese che si discostano visibilmente dalla sentenza Test Claimants II e che, pertanto, evidenziano una divergenza interpretativa con la Corte di giustizia (nonché tra le società ricorrenti e il rapporteur publique presso il Consiglio di Stato, come rilevato dall’Avvocato generale).
La Corte richiama anche il caso Ferreira da Silva e Brito e a. (C‑160/14, del 9 settembre 2015, EU:C:2015:565) in cui per la prima i giudici di Lussemburgo avevano rilevato una violazione, da parte di una corte nazionale, il Supremo Tribunal de Justiça (la Corte suprema portoghese) dell’obbligo di operare un rinvio pregiudiziale. Del resto, che vi siano notevoli resistenze, specie da parte delle Corti di ultima istanza, a sollevare questioni pregiudiziali è questione ben nota (sia consentito rinviare a M. Dicosola, C. Fasone e I. Spigno, Foreword: Constitutional Courts in the European Legal System after the Treaty of Lisbon and the Euro-Crisis, in German Law Journal, 16(6), 2015, pp. 1317-1329 e alla special issue su The Preliminary Reference to the Court of Justice of the European Union by Constitutional Courts lì pubblicata; tra i molti, cfr. anche T. Pavone, Revisiting Judicial Empowerment in the European Union: Limits of Empowerment, Logics of Resistance, in Journal of Law & Courts 6 (2), 2018, pp. 303-331). Ugualmente riconosciuto è che questa resistenza delle corti sia assai problematica tanto per la tenuta del diritto dell’Unione che per i diritti fondamentali. La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta in proposito riscontrando una violazione dell’art. 6.1 CEDU - diritto ad un equo processo, per il diniego immotivato di una corte nazionale ad effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia (Dhahbi c. Italia, n. 17120/09, sentenza dell’8 aprile 2014; Schipani c. Italia, n. 38369/09, sentenza del 21 luglio 2015). In dottrina si è paventata, altresì, la possibilità che la stessa Corte di giustizia possa intervenire più incisivamente in merito utilizzando l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali, sul diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale (C. Lacchi, Multilevel judicial protection in the EU and preliminary references, in Common Market Law Review, 53 (3), 2016, p. 681 ss.).

 

I possibili effetti della sentenza nel medio-lungo periodo

La sentenza in commento è dunque suscettibile di produrre effetti assai rilevanti, almeno a tre livelli. Il primo è quello del sistema di protezione dei diritti fondamentali nell’Unione. A fronte della difficile praticabilità della strada del ricorso per annullamento da parte degli individui per far valere la violazione dei propri diritti – viste la soglia fissata dalla Corte di giustizia per dichiarare ammissibile il ricorso – e della diffidenza finora mostrata dalle Corti, specie quelle di ultima istanza, verso il rinvio pregiudiziale anche quando è in gioco la garanzia di diritti, nella sentenza Commissione c. Francia i giudici di Lussemburgo prefigurano come percorribile una nuova via, tutta da esplorare: il ricorso per inadempimento da parte della Commissione (o da parte di altri Stati membri) come una modalità di “appello pseudo-diretto contro le decisioni di corti nazionali” dinanzi alla Corte di giustizia (cfr. D. Sarmiento, Judicial Infringements at the Court of Justice, cit.). Se le Corti nazionali di ultima istanza, rifiutandosi di effettuare un rinvio pregiudiziale e contravvenendo all’obbligo posto dall’art. 267.3 TFUE, violano anche dei diritti garantiti dalle norme europee, vi sarà comunque un giudice a Lussemburgo.
Da quanto detto, si chiarisce anche il secondo livello di incidenza della sentenza, sulle corti di ultima istanza e soprattutto su quelle costituzionali. Se davvero uno Stato membro può essere condannato per inadempimento qualora la sua Corte costituzionale o suprema si rifiuti di sollevare una questione pregiudiziale, come invece è tenuta a fare sempre nei limiti della dottrina Cilfit, la sentenza Commissione c. Francia è un precedente in grado di esercitare una forte pressione su tali giudici ed è possibile immaginare nel prossimo futuro un aumento della frequenza dei rinvii operati da queste corti o, laddove non siano stati ancora effettuati, il ricorso, finalmente, all’istituto da parte delle Corti costituzionali più reticenti (ad es. le Corte costituzionali portoghese, bulgara, ceca, croata, lettone, rumena, slovacca e ungherese). Anche perché, se tali Corti violano l’obbligo previsto dall’art. 267.3 TFUE, è poi lo Stato a risponderne nell’ambito di una procedura di infrazione che può anche concludersi con una sanzione.
Il terzo livello di influenza della sentenza riguarda le implicazioni sul “sistema” delle Corti europee, quella di giustizia e quelle nazionali. Nell’ultimo anno la Corte di giustizia è stata molto attenta nel promuovere l’idea di un “sistema” di Corti nell’Unione in cui non secondario è il ruolo delle Corti nazionali. Nel caso Associação Sindical dos Juízes Portugueses (causa C-64/16 del 28 febbraio 2018) la Corte ha enfatizzato l’importanza che gli Stati membri stabiliscano “i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell'Unione (art. 19 TUE)” e, successivamente, a proposito delle vicende polacche, si è evidenziata la centralità dell’indipendenza della corti degli Stati membri per il buon funzionamento del sistema delle Corti dell’Unione. Sebbene nella sentenza in commento l’art. 19 TUE non sia evocato – e difficilmente avrebbe potuto esserlo – la Corte di giustizia pare disegnare un sistema di giustizia costituzionale “composito” (cfr. la special issue dell’Italian Journal of Public Law, Constitutional Adjudication in Europe Between Unity and Pluralism, a cura di P. Faraguna, C. Fasone e G. Piccirilli), naturalmente per quanto concerne il diritto europeo, in cui tenderebbe ad accreditarsi come “corte di ultima istanza”: in caso di inerzia e di interpretazione non corretta del diritto europeo da parte delle corti nazionali, mediante ricorso per inadempimento, la Corte di giustizia può in qualche misura controllare e sanzionare le decisioni di giudici nazionali che risultino in chiaro contrasto con norme dell’Unione.


The protection of gay rights: a collective constitutional enterprise? – on “Constitutional Courts, Gay Rights and Sexual Orientation Equality” by Angioletta Sperti

A critical overview of “Constitutional Courts, Gay Rights and Sexual Orientation Equality” by Angioletta Sperti (Hart, 2017)


The influence of standing committees on the forms of government. The case of France, Italy and the UK

Parliaments have changed substantially over time, particularly in the new century, as a consequence of new phenomena appearing in the institutional landscape, such as the transfer of significant normative powers from legislatures to executives, the crisis of the long standing representative function of political parties,, globalization and regional integration processes of regional integration, mediatisation, personalization of politics and populism. By the same token, for example we have witnessed a shift in the balance between the exercise of the legislative and the oversight function in legislatures in favour of the latter. This paper argues that, in spite of the transformations of parliaments, standing committees and parliamentary committee systems, also by way of constitutional, legislative or standing orders’ reforms, have accommodated their role accordingly, and are still influential in shaping the form of government.


The influence of standing committees on the forms of government

Parliaments have changed substantially over time, particularly in the new century, as a consequence of new phenomena appearing in the institutional landscape, such as the transfer of significant normative powers from legislatures to executives, the crisis of the parliamentary legislation and of the long standing representative function of political parties and legislatures, globalization and the deepening of processes of regional integration, mediatisation and personalization of politics, as well as the rise of populist movements. By the same token, for example we have witnessed a shift in the balance between the exercise of the legislative and the oversight function in legislatures in favour of the latter. This paper argues that, in spite of the transformations of parliaments, standing committees, also by way of constitutional, legislative or standing orders’ reforms, have accommodated their role accordingly, and are still influential in shaping the form of government.


Il tentativo secessionista “all’italiana” e la semi-indifferenza della politica nazionale

Ciò che altrove, in Europa, è considerata una questione che tocca le fondamenta del patto costituzionale nazionale, dello stare insieme, l’indipendenza tramite secessione di una regione da uno Stato sovrano (v. D. Haljan, Constitutionalising Secession, Oxford and Portland/OR, Hart Publishing, 2014,spec. pp. 50-52), in Italia è materia che non suscita neppure la benché minima discussione pubblica, aldilà delle sedi accademiche e giurisdizionali. Quasi che, degradando il problema costituzionale ad un elemento di folklore regionale o, peggio, sottacendolo del tutto, i rischi che si corrono in termini di lealtà alla Costituzione e di tenuta della Repubblica delle autonomie magicamente svanissero.

Read more


Il rapporto tra bicameralismo e Regioni ridefinito dal controllo di sussidiarietĂ . Spunti dal diritto comparato e riflessioni sulla riforma costituzionale in itinere

Sommario: 1. Introduzione: il controllo di sussidiarietà come strumento di ridefinizione dei rapporti tra livelli di governo negli Stati membri? – 2. L’attuazione del controllo di sussidiarietà in Italia, in particolare da parte del Senato e dei Consigli regionali – 3. Le iniziative assunte dal Senato nel 2014 per rafforzare la cooperazione con i Consigli regionali negli affari europei – 4. La riforma costituzionale e la dimensione europea del Senato – 5. La riforma costituzionale e il collegamento del Senato ai Consigli regionali – 6. Conclusioni: sul collegamento tra la riforma del Senato e il controllo di sussidiarietà

1. Fino a qualche tempo fa in pochi avrebbero scommesso che sarebbero state proprio delle previsioni di diritto dell’Unione europea a fornire l’input per creare forme e procedure stabili di collegamento tra le Camere italiane e i Consigli regionali, tema oggetto di un dibattito decennale sulle riforme costituzionali e sulla questione della rappresentanza regionale in Parlamento. Eppure, a dispetto di quanto può derivarsi da un’interpretazione rigida dell’art. 4.2 TUE, per cui l’Unione europea non può interferire con la struttura fondamentale, politica e costituzionale, degli Stati membri compreso il sistema delle autonomie locali e regionali (fatta propria, ad esempio dal Tribunale costituzionale federale tedesco sui diritti di partecipazione del Bundesrat agli affari europei), essa, a partire dai suoi Trattati, incide in modo sostanziale sulle dinamiche istituzionali (e costituzionali) nazionali.

Read more


Il ruolo del Parlamento nell’applicazione della CEDU. Riflessioni sparse a partire da The Constitutional relevance of the ECHR in Domestic and European Law, a cura di G. Repetto, Intersentia, 2013 (pp. 251)

1. In che misura l’applicazione della CEDU è demandata alle Corti, di Strasburgo e nazionali, di vario ordine e grado, o alle Assemblee parlamentari è questione controversa, ma al contempo cruciale quanto all’effettività delle previsioni della Convenzione e alla legittimità del sistema di controllo, ex ante ed ex post, contro eventuali sue violazioni.

Il tema è affrontato in diversi contributi raccolti nel bel volume curato da Giorgio Repetto su The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law, a cura di G. Repetto, Intersentia, 2013, presentato anche in occasione del primo seminario annuale di Diritticomparati.it, su “La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nelle relazioni tra ordinamenti. Problemi e prospettive”, il 6 marzo 2014, presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi Roma Tre.

Read more


Le “trasformazioni” del potere di veto del Presidente degli Stati Uniti, tra diritto costituzionale e politica del diritto.

A proposito del volume di A. Buratti, “Veti presidenziali. Presidenti e maggioranze nell’esperienza costituzionale statunitense”, Roma, Carocci, 2012

Il libro di Andrea Buratti riesce nella non facile impresa di combinare un’accurata analisi empirica dei veti presidenziali negli USA, poggiata su un solido apparato teorico, di filosofia politica e di storia del diritto, con la redazione di un volume snello e di assai piacevole lettura. Come si evince dal testo e dalle note, l’autore ha infatti esaminato centinaia di messaggi di veto presidenziali, da Washington a Obama, con ciò muovendo dallo studio dell’istituto nel diritto positivo alle prassi istituzionali che si sono sviluppate in oltre duecento anni di esperienza costituzionale statunitense.

Dopo un’attenta ricostruzione della classificazione del potere di veto o, meglio, dei poteri interdittivi riconosciuti nelle democrazie costituzionali ai Capi di Stato nell’ambito della determinazione degli indirizzi legislativi (veto assoluto, veto qualificato, veto sospensivo, veto traslativo e rinvio: cfr. pp. 15-16), l’autore inquadra l’istituto in relazione alle forme di governo e in prospettiva diacronica – da notare, infatti, i riferimenti all’Instrument of Government inglese del 1653 (p. 31), alla Costituzione francese del 1848 (p. 23) e alla Costituzione imperiale guglielmina del 1871 (p. 26) – e quindi giustifica la scelta del caso di studio: gli Stati Uniti d’America come “esperienza paradigmatica”. In questo ordinamento, non solo per la prima volta il potere di veto è stato regolato (in Costituzione, peraltro), ha contraddistinto l’assetto di governo e ha rappresentato poi il modello di ispirazione per la disciplina dell’istituto nell’intero continente, ma esso “ha condizionato (…) tutta la storia politica e giuridica della nazione” (p. 27).

Alle origini dell’istituto negli Stati Uniti, secondo l’autore, vi sarebbe non solo la nota influenza delle teorie di Locke e di Montesquieu sulla separazione – statica – dei poteri. Piuttosto, tra le fonti intellettuali del potere di veto presidenziale, forse la principale, va senz’altro collocata la tradizione del repubblicanesimo, spesso a torto trascurata negli studi sulla fase costituente negli Stati Uniti. Difatti, le opere di Polibio e di Cicerone sulla repubblica romana, quindi “Il principe” di Machiavelli e poi “La Repubblica di Oceana” di Harrington, fino ad Adams – tra gli artefici della Costituzione del Massachusetts del 1780 –, Bolingbroke e il radicalismo whig dell’Inghilterra ottocentesca, sono da considerarsi dei fondamentali per lo sviluppo della teoria dei checks and balances da parte dei padri costituenti della federazione.

Da questo punto di vista, come sottolinea accuratamente l’autore, le Costituzioni statali adottate dopo la proclamazione dell’indipendenza non hanno rappresentato un punto di riferimento per la successiva disciplina costituzionale del potere di veto a livello federale. Sulla scorta della retorica di Paine, tali Costituzioni hanno fatto propria una concezione radicale della democrazia che aveva il suo punto fermo nel rafforzamento della centralità del potere legislativo, anche in reazione al precedente abuso del veto da parte dei Governatori regi contro la legislazione delle assemblee coloniali (pp. 43-44). Le uniche due eccezioni sono rappresentate dalle Costituzioni del Massachusetts e di New York: tuttavia, mentre la prima conteneva una disciplina del veto assai simile a quella che sarà poi adottata nell’art. 1, sez. 7 della Costituzione federale, con un potere di veto qualificato contro le deliberazioni parlamentari nelle mani di un esecutivo forte; la seconda Costituzione istituiva invece una sorta di controllo preventivo sulle leggi, con possibilità di un veto qualificato, opponibile da parte di un organo a composizione mista (council of revision), tra esecutivo e giudiziario. Si sono delineati così in nuce due modelli di veto sulle leggi, su cui si animerà successivamente il dibattito nella Convenzione di Filadelfia. Nonostante siano state assai variegate le posizioni dei Framers (vi era persino chi, come Madison e Wilson, era favorevole all’attribuzione di un potere di veto del Congresso federale sulle leggi statali), un punto di sintesi è stato poi trovato nella configurazione del veto presidenziale come strumento di garanzia dell’equilibrio tra poteri (p. 53), mentre, seppur non formalizzato in Costituzione, si è raggiunto una sorta di “comune sentire” sull’esercizio della review sulla legislazione ad opera del giudiziario, come già avveniva efficacemente in alcuni stati. Sebbene un compromesso sia stato raggiunto allora, non sono mancate però occasioni nel corso della storia costituzionale statunitense in cui il veto presidenziale è stato utilizzato, forzando la mano, come strumento di sindacato politico sulla legittimità costituzionale delle delibere legislative.

Il libro di Andrea Buratti mette magistralmente in evidenza tutte le contraddizioni e la “duttilità” del veto presidenziale, che è stato utilizzato con le modalità e per gli scopi più variegati negli ultimi due secoli; a tal punto da potersi ritenere forse tra gli istituti più emblematici per lo studio della democrazia statunitense, offrendo un angolo visuale privilegiato tanto per lo studio della forma di governo quanto della forma di stato.

Anzitutto, il potere di veto presidenziale è istituto polimorfo. Si riscontrano messaggi presidenziali di rinvio – che corredano sempre il veto – assai laconici, impersonali e dallo stile argomentativo prevalentemente tecnico, accanto ad altri decisamente enfatici e prolissi, talvolta anche nell’ambito della stessa presidenza. In secondo luogo, esso è un istituto polifunzionale. Può essere impiegato come strumento di constitutional review of legislation (più correttamente dei disegni di legge approvati dalle Camere) per sanzionare preventivamente la violazione della Costituzione e, soprattutto all’inizio, la tendenza del Congresso federale all’ipertrofia legislativa a danno delle competenze statali (si vedano i numerosi veti opposti in presidenze diverse al rifinanziamento della banca federale); come strumento di indirizzo e di politica della legislazione, in particolare quando il veto è preannunciato e minacciato dal Presidente per condizionare l’iter legis (v. il caso della presidenza “imperiale” di Nixon costretto a fronteggiare anche un Congresso avverso: p. 124 e A. M. Schlesinger Jr., The Imperial Presidency, Boston, Houghton Mifflin,1973) e opponendosi al merito dei contenuti; come mezzo di comunicazione istituzionale, attraverso il quale il Presidente “parla” alla nazione, cerca una sua legittimazione (e l’uso del veto è stato determinate anche per l’esito delle elezioni presidenziali, per esempio nel 1832, come strumento in grado di orientare l’andamento della campagna elettorale), esercita un potere tribunizio di guida e di (ipotetica) rappresentanza del volere dell’opinione pubblica (p. 99, v. lo stile argomentativo di impronta populista dei messaggi di veto di F.D. Roosevelt).

A tal riguardo, la presidenza di Jackson (1829-1837) è stata forse quella che ha usato nel modo più estensivo le tre funzioni del veto presidenziale. Basti pensare alla posizione assunta da Jackson in alcuni messaggi di veto contro la stessa giurisprudenza della Corte suprema a partire da McCulloch v. Maryland o il tentativo di sostituirsi alla Corte stessa attraverso l’elaborazione di un test di costituzionalità alla luce del quale vagliare le leggi che prevedevano internal improvements (v. successivamente anche il test of fairness di Truman). Allo stesso tempo Jackson ha usato il veto in modo funzionale ad alimentare continuamente il rapporto con l’elettorato, presentandosi come depositario del “will of the people”. Infine, le intromissioni di Jackson nell’esercizio della funzione legislativa sono state tanto pervasive che dopo la sua rielezione sono stati persino presentati emendamenti alla Costituzione per abbassare il quorum (di due terzi dei voti) per il superamento del veto presidenziale e, come sottolinea efficacemente Andrea Buratti, egli fu oggetto di una inedita “mozione di censura” del Senato “per avere agito contro la Costituzione” (pp. 65-66).

In terzo luogo, il ricorso al veto è sempre teleologicamente orientato (v. L. Fisher, Constitutional Conflicts between Congress and the President, 5a ed., Lawrence-Kansas, The Univ. of Kansas Press, 2007). Tutte le prime presidenze fino a quella di Madison, che per primo ha usato il pocket veto nel 1812, hanno mostrato una notevole deferenza verso il Congresso, facendo un uso estremamente parco del veto. Successivamente, invece, seppur con una tendenza decisamente ondivaga (il picco massimo nel numero di veti, anche in ragione del numero di mandati, si è riscontrato durante la presidenza di F.D. Roosevelt con ben 635 veti: p. 94), i presidenti hanno abbandonato la tradizionale prassi di self-restraint e hanno iniziato ad impiegare il veto, a seconda dei casi, per imporsi al “congressional government”, soprattutto per limitare le autorizzazioni di spesa, oppure come mezzo per ampliare più o meno surrettiziamente i loro poteri di intervento o ancora per imporre una certa concezione della presidenza (v. l’uso del veto da parte di Reagan e di Bush (Sr.) strumentale all’affermazione della teoria dell’esecutivo unitario, relativamente al rapporto con l’amministrazione: pp. 141-150). E di conseguenza il Congresso ha cominciato a reagire: il primo override di un veto presidenziale si è riscontrato nel 1845 durante la presidenza di Tyler.

Inoltre, il veto può essere utilizzato in funzione collaborativa con il Congresso, per esempio per indurre a deliberazioni congressuali più ponderate, oppure come strumento di conflitto col legislativo; ciò indipendentemente dall’esistenza di un governo unitario o diviso. Per esempio, Johnson poco dopo la sua ascesa è entrato in conflitto con il suo stesso partito e non ha esitato ad abusare del potere di veto al punto da essere sottoposto al giudizio di impeachment, dal quale, seppur ormai totalmente delegittimato, riuscì a scampare per un solo voto. Al contrario, Bush (Jr.) e Obama, pur in presenza di governi divisi, hanno fatto un ricorso modesto al veto, se si conta il numero assoluto di veti presidenziali.

Tuttavia, come l’autore del volume acutamente osserva, il numero di veti durante la presidenza non può essere l’unico parametro per valutare l’effettivo impiego dell’istituto. Così, ad esempio, è accaduto che il frequente ricorso al veto abbia riguardato private bills – per esempio durante la presidenza di Eisenhower – o comunque disegni di legge di modesto rilievo politico, mentre viceversa in altre presidenze l’uso del veto è stato quantitativamente più contenuto, ma ha avuto ad oggetto questioni altamente controverse (come i diritti civili durante la presidenza di Johnson). Inoltre, l’impiego del veto, in particolare da Nixon in poi, è diventato sempre più “sofisticato”, nel senso che da allora i presidenti– seppur con alcuni distinguo – hanno interpretato in modo creativo le previsioni costituzionali sul veto per legittimare l’invenzione di nuovi strumenti di controllo sull’attività legislativa del Congresso (signing statements, impoundment, line-item veto, protective return pocket veto). Pertanto, sebbene il numero di veti “ordinari” si sia tendenzialmente ridotto, l’incidenza sul legislativo di tali strumenti derivati dal potere costituzionale di veto presidenziale non è meno incisiva (anzi, per più versi, è maggiormente limitante per il Congresso, ma meno facilmente sanzionabile: p. 157).

Grazie all’approfondito studio dell’istituto da parte di Andrea Buratti è possibile cogliere alcune significative tendenze circa la portata e le trasformazioni del potere di veto nel sistema costituzionale statunitense; tendenze che forse non risultano immediatamente evidenti ad una lettura poco attenta del volume per via della ricchezza e della varietà delle informazioni fornite e della trattazione articolata secondo un ordine cronologico basato sulla successione delle presidenze anziché per configurazioni progressive dell’istituto (spesso connotato da veri e proprio “corsi e ricorsi” storici tra una presidenza e l’altra).

In primo luogo, l’uso del veto, soprattutto dalla presidenza di F.D. Roosevelt in poi è stato scandito da un dialogo a tre voci, tra Presidente, Congresso e Corte Suprema, talvolta apertamente; talaltra più velatamente, per contraddire attraverso messaggi di veto presidenziali dei precedenti della Corte Suprema o per deviare dai principi in essi fissati (v. la posizione di Bush (Sr.) sul National Voter Registration Act of 1992, p. 148, e la recente invenzione del protective return pocket veto, dopo i rigidi vincoli fissati dalla Corte all’impiego del pocket veto). E la Corte, originariamente improntata ad una certa deferenza verso le scelte di politica legislativa del Congresso e del Presidente – quest’ultimo, come ricorda l’autore, significativamente qualificato da Wilson come “the third branch of the legislature” – a partire dagli anni ’30 ha iniziato a dichiarare costituzionalmente illegittimo l’uso abusivo e soprattutto elusivo del disposto costituzionale e in particolare del pocket veto (Wright v. United States) e dell’impoundment (Train v. City of New York e poi Kendall v. United States) nonché l’invenzione del line-item veto (Clinton v. City of New York). Lo stesso dicasi per l’atteggiamento della Corte nei confronti del Congresso: infatti, ad un uso “aggressivo” del veto da parte delle presidenze le due Camere avevano già cominciato a reagire da qualche tempo. Nel periodo tra F.D. Roosevelt e Carter il numero di override di veti presidenziali è cresciuto esponenzialmente così come sono aumentati i casi di ri-approvazione congressuale di leggi respinte con veto con modifiche almeno in parte divergenti dall’indirizzo presidenziale. Tuttavia, dopo lo scandalo del Watergate, approfittando della temporanea debolezza della presidenza, le degenerazioni del veto non sono tardate a venire, di conseguenza, anche da parte congressuale: la Corte Suprema è ugualmente intervenuta dichiarando incostituzionale una certa configurazione del legislative veto (v. INS v. Chadha). Dunque, all’affinamento delle tecniche di veto e di aggiramento delle previsioni costituzionali in proposito ha fatto seguito una giurisdizionalizzazione dell’uso del veto, contro l’applicazione ultra vires che ne è stata data dall’esecutivo e dal legislativo. In altri termini, la Corte suprema è stata chiamata ad un’opera di riconduzione dell’istituto entro l’alveo costituzionale.

Una seconda tendenza è rappresentata dall’istituzionalizzazione di alcune prassi relative al veto. Ad esempio, i signing statement, cioè le dichiarazioni presidenziali formulate all’atto della firma di una legge, non sono certo una novità nel panorama costituzionale degli Stati Uniti, il primo di essi essendosi registrato durante la presidenza di Monroe (1817-1825). Cionondimeno, soltanto nel 1986, il presidente Reagan è riuscito nell’obiettivo di conferire loro piena dignità istituzionale, per quando discutibile sia tale prassi (B. Ackerman, The Decline and Fall of American Republic, Harvard, Harvard Univ. Press, 2010): in quella data infatti per la prima volta un signing statement è stato pubblicato nelle United States Code Congressional and Administrative News, sezione “Legislative History”, acquisendo quindi un rango ufficiale al pari degli atti parlamentari e delle dichiarazioni rese dai membri del Congresso (p. 149).

La terza tendenza, infine, consiste nell’instaurazione di una vera e propria “burocrazia del veto” a supporto delle decisioni presidenziali (quando non responsabile delle decisioni medesime), ancora una volta a partire dalla presidenza di F.D. Roosevelt. A causa dell’aumento del numero delle leggi approvate, nonché della loro disomogeneità e tecnicità, è stato indispensabile creare un’amministrazione specializzata che ne vagliasse i contenuti e segnalasse l’opportunità di ricorrere al veto o ad altro istituto di sua derivazione, lavorando in raccordo con le amministrazioni di settore. Significativamente la “burocrazia del veto” è stata inizialmente identificata nel Bureau of Budget – segno della volontà presidenziale di mantenere un saldo controllo sulle leggi di spesa – appositamente trasferito dal Dipartimento del Tesoro all’Ufficio esecutivo del Presidente. L’analisi tecnica del Bureau è diventata a tal punto importante da conservare in capo al Presidente solo la decisione finale sull’effettiva opposizione del veto. Visto l’accresciuto peso dell’organo, anche da un punto di vista politico, esso è stato oggetto di successive ristrutturazioni organizzative. La più significativa di queste si deve probabilmente a Nixon, che ha assegnato le precedenti competenze del Bureau all’Office of Management and Budget. Quest’ultimo, a differenza del primo, è però diretto da personale politico e, di conseguenza, piuttosto che effettuare un vaglio tecnico sui bills approvati ne valuta la loro conformità al programma politico e all’agenda legislativa del presidente (p. 129).

In definitiva, il volume di Andrea Buratti contribuisce a colmare una significativa lacuna negli studi giuspubblicistici italiani, che o hanno quasi completamente trascurato la ricerca e l’analisi dell’istituto del veto presidenziale negli Stati Uniti, pur essendo esso soggetto a rilevanti “torsioni costituzionali” e modifiche nelle prassi applicative, oppure, specie negli ultimi anni, non hanno saputo coglierne le peculiarità, spesso riconducendone le trasformazioni alla generale e apparentemente onnicomprensiva tendenza alla presidenzializzazione degli esecutivi. Invece, come l’autore meritoriamente enfatizza sin dall’introduzione, il veto presidenziale è un elemento caratterizzante della democrazia costituzionale statunitense e della sua forma di governo, di cui ha scandito le molteplici “trasformazioni” (vale a dire “transformations”, nel senso in cui il termine è impiegato da Ackerman). Diversi momenti di svolta costituzionale nel Paese sono stati contrassegnati dall’uso del veto presidenziale o di strumenti ad esso affini, allontanandosi sempre più dalla concezione dell’istituto disegnata dai Framers (pp. 168-169). Da questa prospettiva, sembra opportuno rifuggire da possibili accostamenti tra l’esperienza costituzionale del veto negli Stati Uniti e certe “trasformazioni” del ruolo della presidenza della Repubblica nelle forme di governo parlamentari, come in Italia, dove negli ultimi due anni lo studio del ruolo del Capo dello Stato, in particolare dei rinvii delle leggi, dei messaggi alle Camere e delle sue esternazioni, ha vissuto una “seconda giovinezza”. Gli effetti del potere di veto, la retorica costituzionale dei messaggi dei Presidenti degli Stati Uniti e l’uso dell’istituto ai fini dell’esercizio di un potere tribunizio nei confronti della nazione rendono assai ardua la comparazione col caso italiano.

Infine – e lo si evince chiaramente dalle conclusioni del volume – un importante merito dell’autore, tra i molti, è quello di fornire un contributo alla ricerca sull’argomentazione giuridica, sovente schiacciata sull’analisi delle sentenze e del reasoning dei soli giudici. Invece, i messaggi presidenziali che accompagnano il veto (o la sua minaccia a fini deterrenti), specie per gli effetti che il veto può produrre, sono una miniera di informazioni sullo stile e sull’uso dell’argomentazione costituzionale e sul ruolo contro maggioritario svolto da alcuni presidenti, vero punto di equilibrio dei checks and balances della Costituzione USA ben aldilà della funzione svolta dal giudiziario.