Un atto di coraggio costituzionale. La Corte Suprema del Wisconsin dichiara illegittimo il Safer-at-Home Order

Con una sentenza del 13 maggio scorso (Wisconsin Legislature v. Secretary-Designee Andrea Palm, 2020 WI 42), la Corte Suprema del Wisconsin ha dichiarato «unlawful, invalid, and unenforceable» l’Emergency Order 28 adottato dalla Secretary-Designee del Department of Health Services (DHS), Andrea Palm, con cui era stato disposto, in emergenza Covid, l’ordine per tutte le persone che si trovano nello Stato di rimanere a casa, non viaggiare e tenere chiusa ogni attività qualificata come non essenziale. Previsione sanzionata penalmente, in caso di violazione, con 30 giorni di reclusione e 250 dollari di multa. Alla base della declaratoria d’illegittimità, la Corte ha posto un vizio di tipo formale – ma denso d’implicazioni sostanziali – ritenendo che la DHS avrebbe dovuto seguire il procedimento prescritto per le «Rules», a carattere normativo, anziché quello previsto per gli «Orders», di natura provvedimentale. Ciò per due ordini di ragioni: da un lato, l’Emergency Order 28 è strutturato come un  «general order of general application», cioè un atto generale e astratto, e dunque rientra nella categoria delle Rules, come definite e disciplinate dal Wis. Stat. §§ 227.01 e 227.24; dall’altro lato, la previsione di sanzioni penali impone in ogni caso di seguire il procedimento normativo, ai sensi del Wis. Stat. § 252.25.
Il testo della pronuncia è davvero ponderoso e tocca i cardini del diritto costituzionale. Si tratta di una decisione assunta 4 a 3, con quelle spaccature del collegio che spesso hanno accompagnato i leading cases della giurisprudenza statunitense. La motivazione si sviluppa per circa 160 pagine e ogni giudice ha ritenuto di prendere individualmente posizione con la propria concurring o dissenting opinion.
Fra i numerosi aspetti di suggestione, colpisce in particolare la misura in cui la sentenza della Corte Suprema del Wisconsin riesca a dialogare, con sorprendente pertinenza e puntualità, con molte delle questioni che si sono agitate, e tutt’ora si agitano senza risposte esaurienti, nel dibattito politico e giuridico italiano. Il lettore non tarderà a scorgerle.
Provando a esercitare il ragionamento in questa direzione, mi sembra che ci siano tre aspetti da mettere in luce. Tutti e tre, peraltro, sono particolarmente (e piacevolmente, ad avviso di chi scrive) significativi nel testimoniare l’inesausta capacità della cultura americana di interloquire con i classici del pensiero filosofico e giuridico della tradizione costituzionalistica, attingendo da essi l’orizzonte di principi entro cui inquadrare le vicende odierne, e così in definitiva attualizzandone l’insegnamento. Cristallina, da questa visuale, la recisa concurring del giudice Rebecca Grassl Bradley, che a mio avviso contribuisce a squadernare problemi di metodo e di contenuto meritevoli della massima attenzione.

1.Il concorso fra Legislativo ed Esecutivo nella produzione normativa (anche) in materia di diritti e libertà fondamentali 

Court: Are there any statutory or constitutional limits on the powers of the Secretary?
[…]
State's counsel: DHS's actions are limited by what is necessary to combat the infectious disease that's presented at the time […] when DHS faces an outbreak of a dangerous, communicable disease, it can do what is necessary to combat that disease.
Court: Whatever DHS and the cabinet secretary solely determine is necessary, right?
State's counsel: […] this is what the statute says […] it says that DHS shall implement all emergency measures to control communicable diseases. […] [T]hat is what the statute says. It gives that power to DHS. This is the statute the legislature chose to enact.
Court: […] [T]he Secretary can identify behavior that is not otherwise criminal and […] she can all by herself sit down at her computer keyboard, write up a description of behavior and make it criminal, correct?
[…]
State's counsel: Yes. The scope of available enforcement is determined by the order. Yes […] That's true.
[Oral argument - Scambio fra la Corte e la difesa del DHS, estratto dal verbale di udienza]

Il primo tema da analizzare, sul quale si è innestato il baricentro della pronuncia, è quello del concorso fra Legislativo ed Esecutivo nella produzione normativa.
Il ricorrente – va detto: la stessa Legislatura del Wisconsin, a maggioranza repubblicana, in una sorta di conflitto di attribuzioni con l’Amministrazione democratica – ha sostenuto che l’Emergency Order 28 dovesse qualificarsi come Rule, e non come Order; con la conseguenza di fuoriuscire dal perimetro dei poteri conferiti al DHS dalla legislazione emergenziale, che, sebbene formulati in termini ampi con la delega ad adottare ogni misura necessaria, si mantengono comunque a livello provvedimentale. Tesi accolta dalla Corte Suprema, secondo cui  «when the class of people regulated by an order is described in general terms and new members can be added to the class, the order is of general application and is a rule». Non è stata condivisa la difesa della State Health Secretary Andrea Palm, la quale ha invocato, per controbattere all’obiezione del contenuto generale/astratto e difendere la natura provvedimentale dell’Emergency Order 28, il carattere meramente temporaneo della misura.
Dopo aver riconosciuto la “sostanza normativa”, la Corte si pone di fronte la seguente, stringente alternativa: se il potere attribuito all’Amministrazione dalla legge (in particolare: dal Wis. Stat. § 252.02 che definisce i poteri del DHS) comprende anche atti normativi, la sua formulazione in termini così ampi e generici da consentire l’adozione di ogni misura ritenuta necessaria rende la legge stessa incostituzionale; al contrario, se tale potere si limita ad atti di natura provvedimentale, la legge è salva, ma è incostituzionale l’Emergency Order 28, che ha assunto illegittimamente una portata normativa non consentita.
La Corte suprema del Wisconsin opta per la seconda tesi, facendo applicazione del principio del c.d. constitutional doubt che impone – in assonanza con il nostro obbligo d’interpretazione conforme – di privilegiare la lettura della disposizione che la mantenga compatibile con la Costituzione.
Al riguardo, la sentenza enuclea i criteri che devono accompagnare il conferimento di poteri normativi dal Legislativo all’Esecutivo: «when a grant of legislative power is made, there must be procedural safeguards to prevent the arbitrary, unreasonable or oppressive conduct of the agency». In caso di dubbio, o là dove si tratti di valutare la sussistenza di poteri impliciti, «any reasonable doubt pertaining to an agency's implied powers was resolved against the agency»; le clausole attributive di potere formulate in termini generici devono essere interpretate in modo restrittivo.
I criteri in parola, a ben vedere, costituiscono corollari del principio di separazione dei poteri. Occorre ricordare che «the purpose of the separation and equilibration of powers in general […] was not merely to assure effective government but to preserve individual freedom»; ciò in quanto è da appellarsi tirannia il governo in cui «the right both of making and of enforcing the laws, is vested in one and the same man, or one and the same body of men […] wherever these two powers are united together, there can be no public liberty». La separazione fra Rules e Orders, cioè fra norme e provvedimenti, è necessaria per assicurare la distinzione fra la fase di creazione e quella di applicazione del diritto, conservando la prima al circuito democratico-rappresentativo, e limitando l’apporto della «unelected burocracy» al secondo segmento.
Questo quadro è evidentemente incompatibile con la delega all’Amministrazione di un potere normativo omnibus, che quindi deve ritenersi non consentita dalla legislazione del Wisconsin. Peraltro, neppure la congiuntura dell’emergenza può giustificare una conclusione diversa, e anzi per la pandemia da Covid la sentenza svolge un passaggio fondamentale: i poteri emergenziali dell’Esecutivo «are premised on the inability to secure legislative approval given the nature of the emergency […] The Governor could declare an emergency and respond accordingly. But in the case of a pandemic, which lasts month after month, the Governor cannot rely on emergency powers indefinitely». Il prolungarsi degli stati di emergenza non giustifica la stabilizzazione permanente dei poteri straordinari in capo all’Esecutivo, ma impone di ricercare per quanto possibile il canale di decisione politico-normativa ordinario, che passa per il Parlamento.

2.La capacità del controllo giurisdizionale di assicurare la tenuta dei limiti costituzionali.

«Regrettably, have tangible examples of judicial acquiescence to unconstitutional governmental actions considered——at the time——to inure to the benefit of society, but later acknowledged to be vehicles of oppression. This is particularly true in the context of the police power, the source of authority cited by the DHS secretary-designee in this case. Historically, when courts contaminate constitutional analysis with then-prevailing notions of what is “good” for society, the rights of the people otherwise guaranteed by the text of the Constitution may be trampled. Departures from constitutional text have oppressed people under all manner of pernicious pretexts».
[Rebecca Grassl Bradley, J. (concurring), § 70]

Il secondo argomento d’interesse – oggetto di particolare approfondimento critico nella concurring del giudice Rebecca Grassl Bradley – riguarda l’effettiva capacità del judicial review di fungere da argine rispetto ai possibili abusi delle istituzioni nei contesti emergenziali in generale, e della pandemia in particolare. In proposito, vengono sollevate vive preoccupazioni circa alcune tentazioni e paralogismi dei giudici: la tendenza a elaborare una personalissima visione del bene comune e a farsi carico della sua implementazione per via giurisdizionale; il rischio, nell’economia della decisione, di far pesare più valutazioni legate alle possibili conseguenze della pronuncia che ai canoni più rigidi d’interpretazione giuridica (non è senza significato che le dissenting opinions evochino tutte il pericolo del vuoto regolatorio lasciato dalla declaratoria d’illegittimità); a subire le pressioni dell’opinione pubblica, così smarrendo la funzione contro-maggioritaria che tipicamente il giudiziario incarna. Correttivi contro questo rischio si rinvengono, anzitutto, nel rammentare quale sia il senso della funzione attribuita dalla Costituzione al potere giudiziario: «it is for the political branches, not the judiciary, to respond to the public's wishes, and for this court to declare whether each branch acts within its constitutional grant of power and in accord with statutory law». Occorre, poi, recuperare, specie nei momenti di crisi in cui tutte le garanzie individuali paiono attratte in un processo di affievolimento volto a massimizzare utilitaristicamente il bene comune, o la ragion di Stato, criteri ermeneutici rigorosi, legati ai testi e alla ricostruzione dell’original intent, lasciando in secondo piano tecniche non interpretative come il bilanciamento.
Il bilanciamento si sostanzia, infatti, in una relativizzazione del “peso” dei beni, interessi e valori contrapposti, funzionale, nell’ottica del caso singolo, a determinare quali di essi debba recedere, oppure a trovarne un ragionevole contemperamento. Ciò implica che pure garanzie costituzionali fraseggiate in termini assoluti possano essere superate o stemperate . Proporzionalità e bilanciamento, così, hanno aperto a mio avviso un “canale ermeneutico” perfettamente bidirezionale: l’interprete potrà allo stesso modo, a seconda delle peculiarità del caso singolo, muoversi tanto nel verso della dilatazione dei diritti e delle libertà, quanto in quello della loro compressione, senza trovare argini insormontabili nelle disposizioni scritte. E non è difficile immaginare in quale direzione si possa esser tentati di far oscillare il pendolo, in contingenze emergenziali.
Tuttavia, i diritti e le libertà costituiscono il fine in vista della cui conservazione la comunità statale si è associata. Questo è un caposaldo che non può essere smarrito: «there is no pandemic exception […] to the fundamental liberties the Constitution safeguards. Indeed, 'individual rights secured by the Constitution do not disappear during a public health crisis […] These individual rights, including the protections in the Bill of Rights made applicable to the states through the Fourteenth Amendment, are always in force and restrain government action».

3.Il rapporto fra emergenza e Costituzione 

«Emergency does not create power. Emergency does not increase granted power or remove or diminish the restrictions imposed upon power granted or reserved. The Constitution was adopted in a period of grave emergency. Its grants of power to the federal government and its limitations of the power of the States were determined in the light of emergency, and they are not altered by emergency».
[Rebecca Grassl Bradley, J. (concurring), § 77]

Il terzo e ultimo tema è quello del diritto dell’emergenza o, per intendere la questione da altra prospettiva, se l’emergenza sia essa stessa fonte del diritto, al punto, in ipotesi, di ammettere deroghe allo stesso ordine delineato dalla Costituzione.
La risposta che la Corte Suprema del Wisconsin offre, recisa, è negativa: il sopraggiungere di una situazione emergenziale non incide, aumentandoli, sui poteri delle istituzioni, né intacca, autorizzandone la compressione indefinita, i diritti e le libertà fondamentali. E questa funzione di scudo deve essere fatta valere a maggior ragione nei periodi di crisi: è proprio in queste contingenze che la Costituzione, di fronte alle più forti sollecitazioni rispetto alla propria tenuta o davanti a pressioni che mettano in discussione i suoi principi cardine, deve imporsi con maggior rigore, nella esatta estensione delle sue previsioni e garanzie, con riferimento tanto all’impianto istituzionale che alle situazioni giuridiche individuali. Ciò a prescindere dal consenso dell’opinione pubblica: «even if a significant portion of the public supports the Safer at Home Order, the judiciary must protect the structural separation of powers embodied in our state and federal constitutions in order to avoid future monumental mistakes from which our republic may never recover. Experience should teach us to be most on our guard to protect liberty when the Government's purposes are beneficent. Men born to freedom are naturally alert to repel invasion of their liberty by evil-minded rulers. The greatest dangers to liberty lurk in insidious encroachment by men of zeal, well-meaning but without understanding».
È risaputo che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni: quando la via è aperta, occorre da parte di tutti un atto di coraggio costituzionale per evitare di percorrerla.


L'executive order di Trump: una "cronaca costituzionale"

Introduzione

Il 27 gennaio scorso, a pochi giorni dall’insediamento, il Presidente americano Trump ha adottato un executive order intitolato “Protecting the Nation from foreign terrorist entry into the United States”. Il provvedimento, traducendo in atto alcune delle misure più significative anticipate in campagna elettorale, da un lato sospende per 90 giorni l’ingresso di soggetti nati in (o con passaporto di) Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen; dall’altro vieta per 120 giorni l’ingresso di rifugiati di qualunque provenienza, salvo che provengano dalla Siria, nel qual caso il divieto è a tempo indeterminato.

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Libertà e sicurezza: Maryland v. King ovvero il IV Emendamento nell’era del DNA

Con la sentenza Maryland v. King, la Corte Suprema torna a pronunciarsi sui presupposti di legittimità delle misure restrittive della libertà personale, oggetto della garanzia di cui al IV Emendamento, e sulle istanze di tutela della riservatezza che esse chiamano in causa.

Nel 2009, Alonzo King viene arrestato per aggressione e sottoposto a prelievo di un campione salivare, sulla base del Maryland DNA Collection Act, che dispone siffatta operazione a carico di tutti i soggetti arrestati (pur non ancora condannati) per una serie di crimini violenti; analoga previsione si riscontra, peraltro, nella legislazione di altri 28 stati e in quella federale.

Il campione di DNA così raccolto viene processato e collegato ad una traccia biologica raccolta sulla vittima di uno stupro risalente al 2003, il cui autore era rimasto ignoto; sulla base di tale riscontro, King viene accusato e rinviato a giudizio.

L’imputato eccepisce dunque l’incostituzionalità della legge del Maryland, la quale , prevedendo una limitazione della libertà personale irragionevole e non giustificata da uno specifico e circostanziato sospetto, violerebbe il IV Emendamento; la questione, valutata in modo divergente dal giudice di prime cure e in grado d’appello, giunge infine di fronte alla Corte Suprema tramite il writ of certiorari.

Il nodo ermeneutico fondamentale attiene l’individuazione del parametro, sulla cui base valutare la legittimità della misura indubbiata d’incostituzionalità, e più a monte la stessa interpretazione del IV Emendamento.

La maggioranza guidata dal giudice Kennedy (formata da Roberts, Thomas, Breyer e Alito), aderendo alle prospettazioni del Maryland, ritiene che «the touchstone of the Fourth Amendament is reasonableness, not individualized suspicion»; quest’ultimo requisito, nel caso in esame, sarebbe del resto ridondante: la circostanza che il soggetto si trovi già validamente assoggettato ad un regime di custodia, presuppone la sussistenza della probable cause richiesta per l’arresto, la quale assorbe la necessità di ulteriori motivi di sospetto.

Giusta la premessa, alla Corte spetta ponderare e bilanciare i contrapposti interessi, onde successivamente apprezzare la ragionevolezza dell’opzione legislativa.

Nel mappare la “topografia del conflitto”, si evidenziano nel dettaglio la pluralità di interessi pubblici meritevoli di tutela che fronteggiano la libertà personale e il diritto alla riservatezza del soggetto sottoposto al prelievo del DNA: quello all’identificazione dell’arrestato, alla garanzia della sicurezza del personale carcerario e dei detenuti, all’effettivo svolgimento del processo, al giudizio sulla pericolosità sociale, all’eventuale proscioglimento di individui erroneamente accusati.

Tali interessi trovano, nella composizione operata dal legislatore, un assetto non censurabile sotto il profilo della ragionevolezza, atteso il carattere minimale dell’intrusione prodotta dal tampone salivare, equiparabile alla più tradizionale raccolta delle impronte digitali o ai rilievi antropometrici, nei confronti peraltro di un soggetto in vincoli, che per definizione può vantare minori aspettative in termini di privacy.  Senza contare che la misura, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, è oggettivamente inidonea a disvelare informazioni sensibili: l’analisi del DNA effettuata ai sensi della normativa censurata riguarda esclusivamente materiale genetico “non-protein coding”, traducendosi in una stringa numerica utilizzabile a soli fini identificativi.

L’orientamento della maggioranza è avversato, con toni invero aspri e col suffragio di ampi riferimenti storici, dalla dissenting opinion del giudice Scalia (cui aderiscono Ginsburg, Sotomayor e Kagan): l’esclusione in radice di qualunque restrizione della libertà personale che non sia suffragata da un sospetto specifico e circostanziato, è il cuore stesso della garanzia apprestata dai Framers e inequivocamente codificata nel IV Emendamento, concepito come reazione, non priva di precedenti nelle prime costituzioni degli stati membri, ai general warrants imperanti sotto la dominazione britannica.

Nell’argomentare della minoranza, ai fini della legittimità della misura l’individualized suspicion rileva come elemento autonomo e distinto rispetto alla reasonableness: e a ben vedere questo rispetto a quello, pur partecipando del medesimo valore potrebbe dirsi “costitutivo”, rappresenta un posterius, che il giudice è chiamato ad apprezzare solo una volta ravvisata l’integrazione del fumus commissi delicti.

Né la conclusione pare doversi temperare in forza dei precedenti giurisprudenziali invocati dalla maggioranza. E’ ben vero che in certe fattispecie la Corte ha avallato misure restrittive della libertà personale sganciate dal presupposto dello specifico sospetto, ma in ognuno dei casi richiamati tale esito è stato giustificato sulla base di motivi affatto estranei alle esigenze investigative e all’attività di accertamento dei reati (ad esempio, i test tossicologici disposti a carico dei macchinisti, a tutela della sicurezza ferroviaria): «solving unsolved crime is a noble objective, but it occupies a lower place in the American pantheon of noble objectives than the protection of our people from suspicionless law-enforcement searches».

I suindicati motivi difettano nel caso in esame, giacché il prelievo del materiale genetico disposto ai sensi del Maryland DNA Collection Act è qualificato expressis verbis dalla legge stessa come strumento funzionale alle indagini.

Del tutto ingenua, al più concedere, è la tesi abbracciata dalla majority opinion, nella cui ricostruzione il tampone salivare assolverebbe ad esigenze identificative dell’arrestato: ciò non è realistico per le tempistiche dilatate e, soprattutto, per la circostanza che i campioni prelevati vengono processati all’interno del database contenente le tracce genetiche raccolte sulla scena di crimini irrisolti, che ab intrinseco non sono riconducibili a persone previamente identificate.

Nel complesso, la pronuncia in commento esibisce diversi profili di interesse, prontamente posti in luce tanto dalla dottrina quanto dagli ambienti giornalistici. Le nuove tecnologie investigative hanno imposto al supremo giudice statunitense una actio finium regundorum, volta a ridefinire un equilibrio fra i due poli della sicurezza e della libertà: da un canto, esse rappresentano uno strumento di impareggiata efficacia attraverso cui lo stato assolve i compiti di difesa sociale;  dall’altro, non può ignorarsi la loro potenziale lesività al cospetto della pretesa dell’individuo a disporre di una sfera intima inattingibile per l’autorità. Sullo sfondo si scorge l’agitarsi inestricabile di ottimismo ed inquietudine che sempre accompagna il progresso.

Non sorprende quindi che la sentenza, salutata dal giudice Alito come «perhaps the most important criminal procedure case that this Court has heard in decades», abbia prodotto una netta spaccatura in seno al collegio (5-4), spingendo gli old nine a collocarsi su posizioni difficilmente esauribili in termini di cleavages politico-accademici.

Meritano inoltre una menzione i moduli argomentativi impiegati dalla Corte, la quale non esita nel cimentarsi in uno sforzo didascalico costellato di riferimenti e nozioni scientifiche: come dimostra la sentenza (cronologicamente “gemella”) Association for Molecular Pathology v. Myriad Genetics, là dove, come sempre più spesso accade, il discorso giuridico interseca ambiti “tecnici” ma tutt’affatto estranei all’interesse dell’opinione pubblica, la Corte non può esimersi dall’onere, più penetrante rispetto a quello che su essa incombe nella generalità dei casi, di rendere intellegibile, e dunque potenzialmente condivisibile, il proprio processo decisionale ai vari livelli della sua constituency.


L’Assault Weapon Ban di Obama ed i recenti sviluppi giurisprudenziali del “diritto di portare armi”

Al centro del dibattito pubblico americano è tornato, sull’onda della strage nella scuola elementare di Newtown, il tema mai sopito della limitazione al possesso delle armi.

Il 24 Gennaio 2013, la senatrice democratica californiana Dianne Feinsteine ha deposito presso la camera alta un disegno di legge (“Assault Weapons Ban”), recante una serie di misure volte a rafforzare i controlli sulla vendita delle armi e ad escludere del tutto la possibilità per i privati di acquistare, trasferire od importare armi automatiche e semiautomatiche.

Benché il Presidente Obama sia sceso in campo in prima persona per sostenere la proposta, mettendo in gioco una quota significativa del credito politico maturato, l’iter parlamentare si presenta quantomai accidentato: è già nitido il profilarsi della consueta contrapposizione fra consensi e dissensi trasversali, la quale, lungi dal risolversi sull’asse partitico, mobilita lobbies organizzate ed influenti, movimenti, municipalità, che si scontrano sullo sfondo di interessi politici ed economici del più vario segno e sotto la scure delle midterm elections.

Non meno significativi e problematici sono i profili giuridici che la questione evoca: non è senza significato che la genesi del  dibattito sul “diritto di portare armi” rimonti già al decennio successivo la ratifica del Secondo Emendamento.

Un tassello fondamentale ai fini della comprensione di  questo quadro controverso è senz’altro rappresentato da due “sentenze gemelle”: District of Columbia v. Heller (554 U.S. 570) del 2008 e McDonald v. Chicago (561 U.S. 3025) del 2010. L’agenda politica degli ultimi mesi ha riportato all’attualità tali pronunce, per alcuni versi sottovalutate dalla riflessione scientifica; una breve analisi se ne rende, dunque, opportuna, per tematizzare alla luce della più recente giurisprudenza in materia i termini dell’odierno, aspro confronto.

Nella sentenza District of Columbia v. Heller, la Corte Suprema scioglie per la prima volta ex professo un plurisecolare nodo interpretativo, ricostruendo i rapporti che legano la prima (cd.prefatory clause: “A well regulated militia being necessary to the security of a free state, …”) e la seconda (cd.operative clause: “… the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed.” ) clausola del Secondo Emendamento.

Ad avviso della maggioranza, guidata dal giudice Scalia, la “prefatory clause” si limita programmaticamente ad enunciare uno, all’epoca della stesura del testo il più sentito, fra i fini cui il diritto di possedere e portare armi sarebbe preordinato, senza con ciò in alcun modo limitarlo od estenderlo; di talché, il diritto in parola sarebbe una situazione giuridica autonoma da ogni connessione col servizio nei ranghi della milizia statale, inestricabilmente connessa alla fondamentale istanza di auto-difesa.

A siffatto approdo, secondo gli stilemi argomentativi tipici dell’originalismo, la Corte giunge mercé l’analisi delle costituzioni statali anteriori e posteriori rispetto alla Carta di Filadelfia, dei dibattiti congressuali che accompagnarono la formulazione e poi la ratifica del Secondo Emendamento, delle letture invalse nella dottrina coeva.

Né ad esso si oppone quanto importanti precedenti statuiscono: non United States v. Cruikshank (92 U. S. 542) del 1876 o Presser v. Illinois (116 U. S. 252) del 1886, che anzi collocano il diritto di possedere e portare armi nell’ambito delle garanzie pre-giuridiche; non United States v. Miller (307 U. S. 174) del 1939, in cui la portata prescrittiva della “prefatory clause” viene declinata non già come funzionalizzazione del diritto a possedere armi alla prestazione del servizio nei ranghi della milizia, ma come limite al novero di armi ricompreso nella garanzia del Secondo Emendamento, che coprirebbe solo quelle di uso comune nel periodo storico di riferimento.

La Corte ha poi cura di puntualizzare che il rango di diritto fondamentale non esclude margini conformativi per il legislatore, purché essi non si risolvano in una ingiustificata compressione o in una indebita ablazione. Quantomeno singolare, tuttavia, è l’omissione dei giudici di maggioranza, che deliberatamente non indicano quale sia il livello di scrutinio da applicarsi nel sindacato avente ad oggetto leggi in potenza lesive del Secondo  Emendamento; viene tuttavia esclusa expressis verbis l’utilizzabilità del deferential review: se si sfumasse la garanzia apprestata dalla previsione costituzionale in un mero divieto di misure manifestamente irragionevoli, si renderebbe questa ridondante, la relativa situazione giuridica trovando già tutela sotto la dottrina del due process sostanziale.

La posizione della maggioranza non è condivisa dalla nutrita “pattuglia” dei quattro giudici dissenzienti, per lo più di estrazione democratica: nelle due dissenting opinions (redatte dai giudici Breyer e Stevens) per un verso si contesta la cesura fra la “prefatory clause” e la “operative clause”, per altro verso si ritiene potenzialmente foriera di esiti paradossali la conferma del criterio già individuato nel caso Miller, alla stregua del quale la garanzia coprirebbe le armi di utilizzo comune in un dato momento storico.

Venendo ad esaminare la sentenza McDonald v. Chicago del 2010, merita premettere che essa si pone in un nesso di stretta continuità, fattuale e giuridica, con la sentenza Heller: originata da una controversia promossa il giorno dopo il deposito di quest’ultima, con lo scopo dichiarato dei ricorrenti di giungere alla declaratoria d’incostituzionalità di un insieme di misure adottate dalla città di Chicago restrittive del diritto di portare armi, la pronuncia in commento contribuisce a far luce su ulteriori, e complementari, profili relativi alla previsione di cui al Secondo Emendamento. Peraltro, la continuità cennata in premessa è confermata una volta di più dalla circostanza che nell’un caso e nell’altro la Corte si è spaccata abbastanza nettamente sul cleavage repubblicani/democratici, con i medesimi giudici che hanno confermato gli avvisi espressi in precedenza.

Se la sentenza Heller muove dal rango di diritto fondamentale della garanzia per sceverarla dalla funzionalizzazione al servizio nei ranghi della milizia, valorizzandone così i profili individualistici, la sentenza McDonald fa leva sul medesimo assunto per “incorporare” la previsione, rendendola così azionabile non solo nei confronti della Federazione (destinataria ab origine dei vincoli posti dal Bill of Rights) ma anche degli stati membri. Il caso si inscrive dunque a pieno titolo nel filone giurisprudenziale dell’Incorporation,  che, come noto, intreccia le grandi aree tematiche dei diritti e del federalismo.

Ai fini della decisione, la maggioranza della Corte, guidata dal giudice Alito, procede, secondo lo schema consolidato nei giudizi in cui si faccia questione di Incorporation,  a verificare se il diritto invocato sia qualificabile come fondamentale, sulla base del  “Nation’s scheme of ordered liberty” e del suo radicamento nella storia e tradizione.

Ricorrendo ancora una volta ai moduli logico-argomentativi dell’originalismo, sulla base di una serie di evidenze storiche che spaziano dalle origini del Bill of Rights inglese del 1689 alle costituzioni attuali degli stati membri, la Corte conclude in senso positivo la sua analisi.

I giudici dissenzienti, di nuovo guidati da Stevens e Breyer, redigono due dissenting opinions nelle quali, in aggiunta ad alcune critiche svolte sul piano dell’equilibrio dei rapporti centro-periferia, viene recuperata la tesi della funzionalizzazione del diritto di portare armi alla dimensione “collettivistica” della milizia.

Nel tentativo di tracciare un sintetico bilancio delle ricadute sistemiche ed applicative delle sentenze Heller e McDonald, possono individuarsi due livelli d’analisi.

Sul piano giuridico, le pronunce hanno diradato le ombre che, fin dalla “Creation”, circonfondono  una delle più importanti e controverse disposizioni costituzionali, valorizzando i profili individuali e garantistici del Secondo Emendamento. Ciò è icasticamente evidenziato in un commento del Senior Attorney Clark Neily: «America went over 200 years without knowing whether a key provision of the Bill of Rights actually meant anything. We came within one vote of being told that it did not, notwithstanding what amounts to a national consensus that the Second Amendment means what it says: the right of the people to keep and bear arms shall not be infringed. Taking rights seriously, including rights we might not favor personally, is good medicine for the body politic, and Heller was an excellent dose».

La lettura fornita dalla Corte è stata accolta in modo tutt’altro che piano: accanto a chi lamenta la eccessiva compressione dei margini per interventi regolatori, non è mancata la critica di parte conservatrice, la quale accusa i giudici di aver celato dietro  gli strumenti argomentativi originalisti un’operazione di legislazione “from the bench”, espressiva di ben precise opzioni valutative.

Le critiche conducono la riflessione su un secondo piano d’analisi, relativo ai concreti risvolti applicativi: in tale prospettiva, se la portata delle pronunce è assai significativa in punto di principio, pare esserlo di meno per quanto attiene da un canto il livello della tutela garantita, dall’altro i limiti al potere conformativo del legislatore.

E invero, la Corte con le sue statuizioni ha creato una stridente ambiguità, non traendo, dal riconoscimento del diritto di portare armi come diritto fondamentale, la conseguenza dell’applicabilità del più stringente test di giudizio alle misure di esso limitative: sicché il grande momento dell’affermazione di principio  si traduce in un rialzo dell’asticella delle garanzie tutto sommato modesto rispetto a quella già assicurata dal sindacato di non manifesta irragionevolezza del due process sostanziale. Peraltro, l’aver perimetrato l’ambito della garanzia in modo da ricomprendervi le sole armi comunemente impiegate per la difesa personale nel contesto storico di riferimento,  lascia impregiudicata la possibilità per il legislatore di apporre penetranti limitazioni, o in ipotesi sostanziali divieti, al possesso di categorie di armi diverse.

Viene dunque da chiedersi se non siano proprie queste alcune delle ragioni alla base di quel fuoco di sbarramento cui l’Assault Weapons Ban dell’Amministrazione Obama sembra inesorabilmente destinato ad andare incontro nell’iter parlamentare: una volta licenziato dai due rami del Congresso, infatti, le ben calibrate misure da esso recate non è affatto scontato cadano sotto la scure degli Old Nine.