Brevi note su “Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli” di Valentina Scotti

L’opera di Valentina Scotti, Il costituzionalismo in Turchia fra identità nazionale e circolazione dei modelli (edito da Maggioli nella collana Devolution Club, 2014) esamina l’evoluzione e l’attuale assetto costituzionale del Paese un tempo sede del sultanato ottomano.

L’Autrice si prefigge l’obiettivo di ricostruire, in circa trecento pagine articolate in quattro capitoli, il sistema costituzionale turco e il suo sviluppo. Partendo dalla crisi dell’Impero Ottomano, si esaminano poi la nascita della Repubblica di Turchia (proclamata il 29 ottobre 1923 e guidata fino al 1938 da Kemal Atatatürk) e la sua evoluzione – contraddistinta da vari testi costituzionali e da alcuni colpi di Stato – arrivando fino ai giorni nostri, alle recenti riforme apportate alla Costituzione del 1982 e al ruolo dell’AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi), partito che regge il governo del Paese dal 2002. Non si manca di dare rilievo alla posizione dello Stato sul piano internazionale, dando risalto non solo ai legami storici fra Europa e Turchia, ma anche allo sviluppo dei rapporti instaurati dallo Stato mediorientale con l’Unione europea e il Consiglio d’Europa. Emerge altresì la formazione da scienziata politica di Valentina Scotti, che affianca l’analisi costituzionale a nozioni di carattere “metagiuridico”, relative alla società civile e politica, ritenute fondamentali “per comprendere l’evoluzione della cultura giuridica prima ottomana e poi turca” (p.100).

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Eweida and others v. The United Kingdom, ovvero quando fede e lavoro non vanno d’accordo e il “margine di apprezzamento” non aiuta a chiarire le cose.

Con la sentenza Eweida and others v. The United Kingdom la sezione quarta della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa su una spinosa questione che attiene a un tema quanto mai attuale: come ci si deve comportare quando la libertà di fede di un dipendente entra in contrasto con le prestazioni richieste dal datore di lavoro?

Negli ultimi tempi i rapporti di lavoro stanno diventando il terreno di scontro utilizzato dai singoli per affermare il proprio diritto alla manifestazione dell’orientamento religioso, diritto che, a sua volta, non viene adeguatamente tutelato dagli Stati i cui legislatori restano troppo spesso inerti, accontentandosi di disciplinare la materia in esame con qualche scarna disposizione e finendo quindi per passare la patata bollente alle corti.

Alla luce di questi fattori, da tempo si attendeva una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, se non altro perché enucleasse dei principi cardine che potessero essere a loro volta utilizzati dai giudici nazionali nella decisione delle controversie. Tuttavia il giudice di Strasburgo, temendo forse di essere criticato su temi particolarmente delicati, ha perso quest’occasione finendo per “nascondersi” dietro al margine di apprezzamento per passare così nuovamente la palla alle corti nazionali.

La pronuncia del giudice europeo si esprime su quattro diversi casi portati alla sua attenzione e riuniti in un unico procedimento. Il primo ricorso è anche il più noto. Riguarda la Signora Eweida, hostess della British Airways che, in seguito al cambiamento della divisa per il personale di volo e di terra, ha deciso di rendere visibile la propria collanina con la croce. La donna è però stata ripresa dai superiori che le hanno ricordato che in base al protocollo aziendale sul codice di vestiario nessun simbolo religioso è ammesso. Tale prescrizione era finalizzata a mostrare all’esterno l’impostazione laica della compagnia, così da non dispiacere a nessun cliente, a prescindere dall’orientamento spirituale o ateo di questi. Il medesimo protocollo, tuttavia, prevedeva anche la possibilità di derogare alla norma citata qualora il lavoratore fosse tenuto a indossare determinati oggetti in virtù di specifici obblighi di natura religiosa: in ragione di ciò in passato deroghe erano state ammesse per i turbanti e i braccialetti d’argento dei sikh, così come l’hijab delle musulmane. La compagnia aerea ha però deciso di non concedere alcun permesso alla hostess poiché la fede cristiana non impone di indossare la croce. La donna è rimasta ferma sulla sua posizione, evitando di rimuovere la collana e non accettando alcuna soluzione alternativa proposta dal datore di lavoro, finendo così per essere sanzionata con l’esonero dal lavoro e la sospensione dello stipendio.

Il caso della hostess ha destato lo scalpore dei media e dei sudditi del Regno, tanto che nell’arco di soli due mesi la British Airways è stata indotta a modificare le proprie politiche in tema di uniformi del personale, reintegrando così la Eweida sul posto di lavoro, ma negandole ogni risarcimento per il periodo in cui lo stipendio era stato sospeso, visto che la compagnia aveva agito in conformità con le norme vigenti al momento. Poiché i giudici inglesi aditi dalla donna avevano rigettato le sue istanze, accogliendo il punto di vista del datore di lavoro, ella ha deciso di fare ricorso presso la Corte EDU.

Anche il secondo caso riguarda il contrasto fra uniformi e simboli religiosi. Più precisamente alla Signora Chaplin, infermiera di un ospedale inglese, è stato vietato di indossare la collanina con la croce che portava da anni in conseguenza di un cambiamento della divisa che è passata dal prevedere una maglietta a girocollo a una con scollo “a V”. Il divieto dell’ospedale era dovuto a esigenze di salute, visto che ogni tipo di gioiello o accessorio – parimenti vietato – avrebbe potuto causare un danno ai pazienti sia arrecando loro lesioni, che infettandoli venendo in contatto con tessuti danneggiati. Anche in questo caso, come nel precedente, la donna ha rifiutato di accettare le proposte alternative suggerite dal datore di lavoro, quali, per esempio, la possibilità di avere una maglietta a collo alto (sotto cui portare la collana) da indossare sotto la divisa, oppure inserire una piccola croce nel badge di identificazione.

La terza ricorrente è la Signora Ladele, anche in questo caso di religione cattolica, dipendente del London Borough of Islington (ovvero degli uffici pubblici del sobborgo di Islington, che si trova nel distretto di Londra) come addetta ai pubblici registri. Quando nel Regno Unito è entrato in vigore il Civil Partnership Act (2005), che ha introdotto la possibilità di formalizzare anche le relazioni fra omosessuali, la donna si è rifiutata di presiedere le cerimonie e di registrare le unioni di persone dello stesso sesso poiché ciò sarebbe andato contro le sue credenze religiose. L’obiezione di coscienza della ricorrente non è stata ammessa dall’istituzione pubblica poiché ritenuta in contrasto con lo specifico codice di condotta dell’istituzione il cui l’obiettivo è garantire uguale dignità e parità di trattamento a dipendenti e utenti, a prescindere da età, genere, fede, orientamento sessuale. In seguito a un procedimento disciplinare la donna era stata esonerata dalla celebrazione delle cerimonie per le unioni civili, ma avrebbe comunque dovuto gestire i registri e adempiere a ogni altra formalità amministrativa connessa. La dipendente non ha accettato ed è stata licenziata.

Il quarto e ultimo caso riguarda il Signor McFarlane, anch’egli di fede cattolica, impiegato come consulente in un centro per la terapia di coppia. Inizialmente, pur non approvando le relazioni omosessuali a causa della sua religione, aveva comunque adempiuto alle proprie mansioni essendosi convinto che per fornire il proprio supporto professionale non dovesse necessariamente approvare i costumi omosessuali. I problemi, però, sono sorti nel momento in cui gli è stato chiesto di offrire consulenza a una coppia gay non tanto per dare un supporto psicologico (come aveva fatto in passato, senza mostrare problema alcuno), bensì per assisterli in materia di rapporti sessuali. L’uomo si è accorto che la sua fede lo portava a disapprovare a tal punto le relazioni carnali fra persone dello stesso sesso da rendergli impossibile adempiere alle proprie mansioni. Dopo un procedimento disciplinare McFarlane è stato licenziato per gravi inadempimenti contrattuali.

La Corte europea, dopo aver fatto una breve ricognizione della (scarna) disciplina del Regno Unito sulla libertà di fede, ha sinteticamente osservato che nei Paesi aderenti alla CEDU questo tema non viene sviluppato in modo approfondito e per quanto riguarda i simboli religiosi sul luogo di lavoro le norme sono poche o del tutto assenti.

Le disposizioni della Convenzione europea prese in considerazione per la pronuncia sono gli articoli 9 e 14. Il primo riconosce la libertà di fede e di manifestazione del proprio credo purché siffatti comportamenti restino nell’alveo dei limiti imposti dal legislatore al fine di garantire la democrazia e la pubblica sicurezza. Il secondo vieta ogni forma di discriminazione (diretta o indiretta) che impedisca l’esercizio dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione.

L’unico ricorso accolto è quello della hostess. La Corte osserva che il desiderio della Signora Eweida di indossare la croce era senza dubbio sincero e che non rileva il fatto che indossare tale simbolo non costituisca una prescrizione per la religione cattolica. Ha poi osservato che nel Regno Unito non esistono norme che disciplinano le modalità con cui i simboli possono o meno essere indossati sul luogo di lavoro e che in ragione di ciò era doveroso fare un bilanciamento fra le esigenze della compagnia aerea e quelle della credente. Il giudice ha finito per affermare che la necessità della British Airways di proteggere una certa immagine (religiosamente neutrale) fosse legittima, ma comunque di peso inferiore rispetto al bisogno della donna di indossare la croce: in primo luogo il simbolo era di dimensioni ridotte e non avrebbe potuto inficiare l’immagine professionale della dipendente, in secondo luogo la compagnia aveva già permesso ad altri lavoratori di indossare indumenti religiosi (come turbanti o hijab), infine il fatto stesso che a distanza di pochi mesi la British Airways avesse deciso di modificare il proprio codice di vestiario – ammettendo la presenza di simboli – era un indice idoneo a dimostrare che l’aspetto neutrale dei dipendenti non fosse di cruciale rilevanza per la società. Ha pertanto ritenuto violata la libertà di fede della ricorrente.

Le motivazioni del giudice di Strasburgo appaiono però quantomeno fragili: non si capisce, per esempio, che rilevanza possa avere la dimensione del simbolo considerato che, come viene ricordato, in altre occasioni indumenti come il turbante o l’hijab – certo non “discreti” – sono stati ammessi dalla compagnia aerea. In secondo luogo, fondando il proprio sindacato sulla circostanza che l’assenza di simboli religiosi non fosse particolarmente rilevante per la società, non ha però individuato un criterio che possa essere utilizzato nei casi in cui il datore di lavoro si mostri meno accondiscendente della British Airways e nel tempo mantenga inalterate le proprie politiche sul codice di vestiario. In quei casi come andrebbe realizzato il sindacato? Dovrebbe prevalere l’esigenza soggettiva del lavoratore o quella oggettiva del datore di lavoro?

La Signora Chaplin ha visto rigettate le proprie domande perché, nel bilanciamento fra la sua esigenza di manifestazione religiosa e le necessità igieniche dell’ospedale, hanno prevalso queste ultime. La Corte ha osservato che anche altri credenti sono stati tenuti a modificare il proprio codice di abbigliamento in ragione delle esigenze sanitarie e che tali bisogni avevano un’importanza molto maggiore rispetto a quelli manifestati dal datore di lavoro nel caso Eweida. Il giudice ha aggiunto che poiché il campo della sanità deve essere ricondotto alla macro-categoria della pubblica sicurezza, alle autorità nazionali deve essere riconosciuto il più ampio margine di apprezzamento quando sono chiamate a porre in essere disposizioni per la tutela della salute e dell’incolumità pubblica.

Se la soluzione raggiunta dal giudice europeo nel caso dell’infermiera è forse quella più pacifica, considerando il tenore testuale dell’art. 9.2 della Convenzione, diverso è il discorso da fare per la dipendente dell’ufficio dei pubblici registri. In questo caso, infatti, la Corte EDU è giunta ad affermare che il licenziamento fosse legittimo poiché nel bilanciamento fra il diritto di una coppia di omosessuali di vedere registrata la propria unione e quello di manifestare la propria fede – rifiutando di celebrare e formalizzare il legame – della dipendente, il Regno Unito potesse scegliere di privilegiare il primo. Più precisamente la Corte ha ricordato il dovere di non discriminare le coppie omosessuali (così cita anche Schalk and Kopf v. Austria), ma, considerato il diverso approccio alla questione da parte di ogni Paese, ha anche osservato che agli Stati deve essere lasciato il più ampio margine di apprezzamento rispetto sia alle modalità con cui tale dovere deve essere realizzato, sia all’importanza da riconoscergli nell’ordinamento nazionale. Ha quindi ritenuto che potesse essere accolta la lettura data dai giudici inglesi, i quali hanno reputato legittimo e proporzionato il licenziamento della dipendente.

Ciò che però lascia più perplessi è il modo con cui liquida velocemente il tema dell’obiezione di coscienza. La Corte accenna appena al fatto che la donna ritenesse la propria fede a tal punto incompatibile con la registrazione delle coppie omosessuali da preferire il licenziamento, così come menziona solo di passaggio, nella ricostruzione del contesto fattuale, che altri uffici britannici hanno riconosciuto ai propri dipendenti la facoltà di obiettare a parte delle mansioni, autorizzandoli a gestire solo le pratiche concernenti le coppie eterosessuali. Anzi, viene fatto presente che la donna, appena introdotta la disciplina sulle unioni civili (per coppie di sesso uguale o opposto), non aveva obiettato espressamente a detta pratica, quasi che questo “ritardo” potesse essere un indizio concreto del cambiamento di rotta della medesima. Si osservi, inoltre, che riconoscere a un dipendente pubblico la facoltà di obiettare non pregiudica in alcun modo il diritto delle coppie omosessuali di formalizzare la propria unione. Infine, se è vero che gli uffici di Islington riconoscono e tutelano il pluralismo, non avrebbero a maggior ragione dovuto accogliere l’obiezione di coscienza della donna, considerato che – come ricordato – la stessa non avrebbe pregiudicato la piena attuazione del Civil Partnership Act?

Anche il quarto e ultimo caso viene rigettato dalla Corte EDU, che evidenzia come il ricorrente abbia scelto liberamente di frequentare un corso e di lavorare presso una società (dedita alla terapia psicologica e sessuale di coppia) che ha sempre affermato di accogliere ogni tipo di unione e di non permettere ai terapisti di scegliere i propri clienti. In questo caso, come nel precedente, il giudice europeo ha velocemente liquidato la questione asserendo che spetta al giudice nazionale verificare se, e in che misura, debba prevalere il diritto del datore di lavoro a garantire identico accesso al servizio offerto, oppure le esigenze di fede del singolo e che, nel caso di specie, le corti britanniche sono rimaste nell’alveo del margine di apprezzamento loro concesso. Nel caso di specie il giudice di Strasburgo avrebbe potuto essere più coraggioso e affermare – come aveva fatto in altre occasioni – che, visti gli specifici obiettivi perseguiti dal datore di lavoro (obiettivi che costituiscono un elemento determinante  e irrinunciabile del servizio che si propone di offrire), la libertà di fede del lavoratore era stata sufficientemente tutelata nel momento in cui gli è stato garantito tanto il diritto di scegliere dove lavorare (aderendo alla mission della società), quanto quello di lasciare il posto di lavoro senza vincolo alcuno.

Insomma, nella sostanza è possibile osservare che le motivazioni dedotte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi in esame appaiono carenti e insoddisfacenti. L’unica ipotesi in cui la sua lettura risulta maggiormente condivisibile è quella legata al caso dell’infermiera, ma, come osservato, in questo caso la decisione difficilmente avrebbe potuto essere diversa, visto il tenore dell’articolo 9.2 della Convenzione. Nei restanti casi le argomentazioni dedotte talvolta risultano parzialmente contraddittorie (si pensi alla croce “discreta” rispetto a turbanti e hijab) e, in altri punti, sono talmente poco incisive da apparire pressoché assenti: si pensi al terzo e al quarto caso dove il giudice di Strasburgo, quasi nascondendosi dietro al margine di apprezzamento, rimbalza nuovamente la spinosa questioni agli Stati nazionali.

Come osservato anche in precedenza, la mancata enucleazione di principi cardine chiari sarebbe stata tanto più necessaria se si considera che nessuno degli Stati membri del Consiglio d’Europa ha sviluppato in modo adeguato la tutela della libertà di fede all’interno del rapporto di lavoro. La Corte ha davvero perso l’occasione di fare chiarezza e di indicare dei criteri chiave per l’applicazione della Convenzione senza, peraltro, rischiare di incappare in presunte violazioni della sovranità nazionale dei Paesi aderenti.


La calda estate della Romania: impeachment, referendum, riforme e pronunce della Corte costituzionale mostrano una grave crisi istituzionale e democratica.

Gli ultimi mesi hanno visto la Romania protagonista di numerosi cambiamenti di natura politica, elettorale e costituzionale. La causa sembra individuabile in uno scontro fra poteri: più precisamente l’instabilità data dalle gravi ripercussioni della crisi economica sul Paese, così come uno stato di disorientamento politico complessivo, ha portato a un progressivo indebolimento delle istituzioni e, conseguentemente, del principio di separazione dei poteri.
Il Paese, caratterizzato da una forma di Stato semipresidenziale, ha visto quale attore principale nei recenti avvenimenti il primo ministro di centro-sinistra, Ponta, spinto dal desiderio di estromettere – e forse sostituire – il capo dello Stato, Basescu, che detiene la presidenza dal 2004.
Il punto di partenza è stato l’approvazione, lo scorso 22 maggio, di una nuova legge elettorale in base a cui i candidati avrebbero potuto ottenere  seggi in Parlamento prescindendo dal numero di voti complessivi attribuiti al loro partito. La legge ha dato il via a una lunga serie concatenata di atti, il primo dei quali è stato la sentenza della Corte costituzionale rumena con cui la nuova normativa è stata dichiarata incostituzionale.
La pronuncia in materia elettorale è stata poco dopo seguita da un’altra sentenza della Corte, in questo caso adita dal Presidente Basescu. Il conflitto è stato originato dal desiderio del premier Ponta di rappresentare la Romania in occasione del summit comunitario organizzato a Bruxelles a inizio luglio: consapevole del fatto che il ruolo di rappresentanza sarebbe spettato a Basescu, Ponta ha ottenuto che il Parlamento emanasse una risoluzione nella quale si riconosceva solo al premier la capacità di rappresentare il Paese in occasione di incontri internazionali. I desideri del primo ministro sono però stati vanificati dalla Corte costituzionale che ha dichiarato illegittima la risoluzione riconoscendo al solo Capo dello Stato la capacità di rappresentare il Paese all’estero.
Ponta, che ha deciso di recarsi comunque al summit comunitario, al suo ritorno ha ordinato al Ministro della giustizia di destituire tutti i giudici della Corte che si erano espressi contro la legittimità dell’ordinanza del Parlamento. Fortunatamente questa eventualità non si è verificata anche grazie a una lettera con cui i medesimi giudici hanno denunciato alle istituzioni comunitarie le forti pressioni politiche cui erano sottoposti.
A inizio luglio il Parlamento rumeno, con il voto positivo della maggioranza che sostiene il primo ministro Victor Ponta, ha altresì deciso di intraprendere un procedimento di impeachment per la destituzione del Presidente Basescu. In base al dettato della Costituzione rumena, il Capo di Stato può essere rimosso solo se autore di gravi violazioni costituzionali (art. 95); la decisione – che deve essere presa dalla maggioranza dei membri delle due Camere riunite in seduta comune dopo aver ottenuto dal giudice costituzionale un opinione non vincolante – deve poi essere confermata dal corpo elettorale, chiamato a esprimersi con un referendum.
La Corte, chiamata a pronunciarsi, ha in primo luogo sottolineato che l’espressione “gravi violazioni costituzionali” fa riferimento a una fattispecie a natura indeterminata, ragion per cui è necessario che le allegazioni siano precise, suffragate da prove e idonee a indicare le violazioni di cui il Capo dello Stato si è fatto artefice. Nel riscontrare che tali elementi erano assenti e che l’istanza di destituzione si fondasse su allegazioni generiche, il 6 luglio il giudice costituzionale ha sostenuto che il procedimento fosse infondato. Il Parlamento rumeno, tuttavia, non ha accolto l’opinione espressa dal giudice costituzionale e, con l’emissione della decisione n. 33, ha decretato di sospendere Basescu dal proprio incarico deducendo l’applicazione degli artt. 95 e 146, lett. g) della Costituzione.
La Corte costituzionale, tenuta a verificare la correttezza procedurale dell’iter seguito per adottare la decisione, ha constato che, su 370 parlamentari presenti, 256 hanno votato a favore della sospensione del Presidente Basescu, dichiarando legittimo il provvedimento. Il Capo di Stato è pertanto stato sospeso in attesa dello svolgimento delle votazioni referendarie previste per il 29 luglio.
Sempre nel mese di luglio sono stati emessi vari provvedimenti atti a minare il potere di controllo del giudice costituzionale, così come a indebolire e destituire il Presidente Basescu. Fra questi si distinguono le ordinanze governative di emergenza: atti disciplinati dall’art. 115, c. 4 della Costituzione, che devono essere adottate solo in presenza di casi urgenti da disciplinare senza ritardo e che al loro interno devono indicare con precisione le ragioni che le rendono necessarie.
Il 4 luglio il Governo ha emesso un’ordinanza di emergenza (n. 38) volta a modificare la legge 47/1992, che disciplina le competenze e il funzionamento della Corte costituzionale; in particolare, riformando l’art. 27, comma 1, è stato disposto che gli atti e le decisioni del Parlamento che non costituiscano esercizio del potere legislativo possano essere soggetti a controllo di costituzionalità solo in casi limitati: la Corte infatti potrà essere adita solo dal Presidente della Camera o da quello del Senato, oppure da cinquanta deputati o da venticinque senatori o ancora da un gruppo parlamentare.
La peculiarità dell’ordinanza va riscontrata non solo nell’oggetto della stessa, ma anche nel momento in cui è stata emanata: infatti il Parlamento rumeno già a fine giugno aveva approvato un disegno di legge che introduceva le medesime modifiche all’art. 27, c. 1 della legge n. 47/1992 e la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi in via  preventiva sulla legittimità della stessa. Il Governo ha quindi tentato di battere sul tempo la Corte: per non rischiare di incorrere in una sentenza di illegittimità costituzionale si è cercato di apportare i medesimi cambiamenti utilizzando uno strumento diverso, idoneo a produrre immediatamente i suoi effetti.
La Corte costituzionale, con la decisione n. 727 del 9 luglio, non ha mancato di esprimersi in merito alla legittimità della riforma della legge n. 47/1992, nonché sull’ordinanza governativa di emergenza (n. 38) – avente analogo contenuto – dichiarandole illegittime. Cuore del ragionamento dei giudici è il riconoscimento del fatto che essa sia il solo soggetto idoneo a vegliare sul rispetto della carta fondamentale da parte dei pubblici poteri, nonché sulla  costituzionalità degli atti e delle decisioni adottate da queste. La legge di riforma dell’art. 27, c.1, invece, limita notevolmente il ruolo della Corte di “custode della Costituzione” e la sua capacità di  sindacare le risoluzioni adottate dal Parlamento in seduta plenaria, nonché quelle della Camera e del Senato. Insomma, privare la Corte di siffatte competenze pregiudicherebbe la Costituzione poiché impedirebbe una verifica corretta e piena circa il rispetto dei suoi dettami. Illegittima è anche l’ordinanza di emergenza n. 38. Infatti, in base all’art. 155, c. 6 della Costituzione i provvedimenti di emergenza non possono essere presi in materia di leggi costituzionali, né possono toccare i poteri e le competenze delle istituzioni fondamentali dello Stato.
Il 5 luglio il Governo ha adottato un’altra ordinanza di emergenza, volta a modificare la disciplina del referendum, regolato dalla legge n. 3/2000. In particolare modificando l’art. 10 della legge si prevedeva che per la validità del referendum di destituzione del Capo dello Stato non fosse necessario un quorum costitutivo (partecipazione della maggioranza degli aventi diritto al voto), ma solo deliberativo (maggioranza dei voti validi). Il giudice costituzionale, chiamato a esprimersi sulla disciplina referendaria, con la decisione n. 731/luglio 2012 ha statuito che andasse  mantenuto il quorum costitutivo, oltre a quello deliberativo.
Il Parlamento ha anche provveduto a decretare la revoca degli incarichi a varie figure chiave delle istituzioni rumene quali Gheorghe Iancu, che rivestiva il ruolo di Ombudsman (una sorta di difensore civico chiamato a vegliare sul corretto agire del Governo), Roberta Alma Anastase, Presidente dell’Ufficio Permanente della Camera dei Deputati e Vasile Blaga, Presidente del Senato. I provvedimenti sono stati reputati legittimi dal giudice costituzionale, anche in questo caso chiamato a verificare il corretto svolgimento delle procedure di voto.
Infine, pochi giorni prima dello svolgimento del referendum, il Parlamento ha approvato un provvedimento volto ad allungare di quattro ore l’orario di apertura delle urne; decisione motivata principalmente dal timore di non riuscire a ottenere l’affluenza di più della metà degli aventi diritto al voto, determinando così l’invalidità delle votazioni. Ipotesi che peraltro si è puntualmente verificata il 29 luglio: si è infatti recato alle urne circa il 46% della popolazione rumena, vanificando così la consultazione, come accertato anche dalla Corte costituzionale (decisione n. 3/agosto 2012).
Il Parlamento ha subito riconosciuto la validità della decisione del giudice costituzionale e non ha opposto resistenza alla revoca della sospensione della carica del Presidente Traian Basescu. Tuttavia, considerando che Victor Ponta è asceso alla carica di primo ministro solo lo scorso maggio, non si può evitare di chiedersi se la Romania nei prossimi mesi verrà nuovamente scossa da altri provvedimenti di stampo fortemente antidemocratico, oppure se la maggioranza al Governo si stia riservando di attendere le prossime elezioni, che avranno luogo a novembre.
Vista l’attuale situazione politica e istituzionale in cui versa la Romania appare inevitabile pensare a quanto accaduto nella confinante Ungheria: anche lo Stato magiaro, infatti, nell’ultimo biennio è stato caratterizzato dall’approvazione di provvedimenti fortemente antidemocratici, arrivando a dotarsi di una nuova e discussa Costituzione. Considerando che molte delle decisioni prese di recente tanto dall’Ungheria, quanto dalla Romania vengono direttamente o indirettamente ascritte alle emergenti necessità dovute alla crisi economica, viene spontaneo chiedersi se e in quale misura l’instabilità monetaria e finanziaria che sta investendo i Paesi a livello globale sarà un fattore idoneo a minare le istituzioni e il modello dello Stato democratico di diritto.


Impeachment del Presidente Fernando Lugo in Paraguay: un silenzioso colpo di Stato?

Recentemente il Presidente del Paraguay, Fernando Lugo, è stato rimosso dal proprio incarico in seguito a un processo di impeachment (o “juicio político”), disciplinato dall’art. 225 della Costituzione.

Il Paraguay ha ottenuto l’indipendenza dalla Spagna nel 1811 e da allora ha adottato sei carte costituzionali, l’ultima delle quali risale al 1992. Nella Costituzione precedente, entrata in vigore nel 1967, non era presente alcun procedimento di impeachment, ma nell’art. 141 a ogni Camera era riconosciuta la facoltà di ammonire o espellere un suo componente in caso di inadeguatezza nell’adempimento degli incarichi politici, incapacità o inidoneità fisica o mentale.

Nel caso di specie le forze politiche del Paese hanno affermato che la necessità di instaurare un procedimento di impeachment andasse rinvenuta nelle decisioni inopportune e nell’incapacità politica di Lugo che, negli ultimi mesi, avrebbero determinato l’insorgere di un grave stato di emergenza caratterizzato da sempre più frequenti ondate di violenza. L’ultimo episodio cruento, che avrebbe spinto il Congresso a prendere provvedimenti nei confronti del Presidente paraguayo – resosi autore di un comportamento «inetto e indecoroso» ˗˗ ha visto il conflitto armato fra un gruppo di poliziotti e alcuni contadini che stavano occupando illegittimamente una fattoria. Lo scontro si è poi concluso con la morte di diciassette persone, otto delle quali erano agenti.

Il procedimento di impeachment si è svolto presso le due camere del Congresso nell’arco di circa quarantotto ore, mostrando dei consensi plebiscitari: la Camera bassa, il cui compito è stato quello di formulare le imputazioni a carico di Lugo, ha espresso una maggioranza di settantasei voti a favore e uno contrario e poche ore dopo il Senato, chiamato a pronunciarsi sulla fondatezza delle accuse, con trentanove voti favorevoli e quattro contrari ha decretato di rimuovere Lugo dalla Presidenza sostituendolo con il Vicepresidente Federico Franco, come previsto dalla Costituzione. L’ormai ex Presidente, pur dichiarandosi stupito della decisione e sostenendo che la velocità con cui il processo si è svolto nascondesse in realtà un colpo di Stato, in prima battuta ha dichiarato di voler accettare la destituzione, chiedendo ai propri sostenitori di fare altrettanto e di evitare qualsivoglia scontro. Poco dopo ha però deciso di fare ricorso presso la Corte Suprema, affermando che la velocità del procedimento e l’insufficiente tempo concessogli per far valere le proprie ragioni, gli avesse reso impossibile l’esercizio del diritto alla difesa in modo adeguato. Il giudice ha però rigettato il ricorso poiché incompetente; inoltre ha sostenuto che il juicio político avesse natura prettamente politica e che, non essendo inquadrabile all’interno dei procedimenti giurisdizionali, i principi che reggono gli stessi non dovessero necessariamente essere applicati nella loro pienezza.

La storia politica di Fernando Lugo appare quanto mai peculiare. Nato nel maggio del 1951, figlio di un dissidente politico, ha fatto studi ecclesiastici vestendo poi l’abito talare. Subito dopo l’ordinazione sacerdotale è stato inviato in Ecuador e, quando nel 1982 è tornato in Paraguay, è stato espulso dal Paese, che in quegli anni vedeva il regime dittatoriale di Stroessner. Lugo, che nel tempo ha sempre mantenuto una forte attenzione per le problematiche delle fasce più deboli della popolazione, nel 1994 è stato nominato vescovo venendo assegnato alla diocesi di San Pedro, una delle zone più povere del Paese. Il suo operato nel sociale gli è valso il soprannome di «obispo de los pobres» (vescovo dei poveri), con cui ancora viene ricordato. Nel 2006 ha chiesto al Papa di essere dispensato dai propri incarichi sacerdotali per potersi dedicare attivamente all’impegno politico nel Paese. Così facendo nel 2008 ha partecipato alle elezioni politiche vincendole e divenendo così il primo Presidente paraguaiano di sinistra dopo che per circa sessant’anni il potere politico è rimasto nelle mani del conservatore Partido Colorado.

L’impeachment di Lugo ha destato molta perplessità sia a livello nazionale, che sul piano internazionale. Il sospetto maggiore è che la vera ragione della sua destituzione vada rinvenuta nella volontà di questi di riformare l’attuale suddivisione della proprietà terriera in Paraguay: si osservi infatti che – a quanto emerge da recenti stime – l’85% della terra del Paese è posseduta da solo il 2% della popolazione. Insomma, alla base del “juicio político” nella realtà ci sarebbe uno scontro fra poteri e la volontà della classe dirigente di liberarsi di una figura scomoda, in grado di indebolire l’attuale potere dei proprietari terrieri. A conferma di questa teoria viene sottolineato che anche la fattoria recentemente occupata (dove si sono svolti gli scontri per i quali Lugo è stato ritenuto politicamente responsabile) era di proprietà di un senatore colorado, cioè appartenente al partito di destra.

Gli accadimenti hanno sollevato anche la perplessità dei leaders di altre Nazioni e di organizzazioni internazionali. L’UNASUR, applicando il Trattato costitutivo e la c.d. “clausola democratica” in esso contenuta, ha deciso di sospendere il Paraguay in occasione di un incontro straordinario indetto a Mendoza il 29 giugno: si è infatti sostenuto che, sebbene l’impeachment sia stato realizzato attuando delle disposizioni costituzionali, la natura della decisione e le ragioni per cui la medesima è stata adottata nascondessero di fatto un golpe. La sospensione dello Stato ha anche comportato la variazione dell’ordine di rotazione della presidenza provvisoria dell’UNASUR, che è passata con alcuni mesi di anticipo al Perù. Un’analoga decisione, volta a sospendere lo Stato sudamericano, è stata presa anche dal MERCOSUR. I portavoce di entrambe le organizzazioni hanno affermato che la sospensione sarà revocata solo dopo i risultati delle elezioni (previste per il prossimo anno), sempre che il Paraguay dimostri di restaurare in modo adeguato il sistema democratico nel Paese. Si è altresì deciso di non comminare alcuna sanzione economica, sostenendo che quest’ultima avrebbe finito per gravare più sul popolo che sulle istituzioni.

Considerando i recenti accadimenti che hanno coinvolto il Paraguay pare difficile poter parlare di golpe in senso stretto. Infatti, seppure sia innegabile che garanzie fondamentali quali il diritto alla difesa siano state compresse (e compromesse), è altrettanto vero che le istituzioni del Paese hanno rispettato la Costituzione attuandone le disposizioni in materia di imepachment. Tuttavia, come riscontrato dalla Corte Suprema paraguaiana, la valutazione a cui Lugo è stato sottoposto è di natura esclusivamente politica e proprio in questo punto sta la fragilità della disciplina stessa che impedisce di effettuare un controllo dei poteri. Prova ne è che, sebbene le motivazioni in base a cui le Camere hanno ritenuto opportuno destituite il Capo dello Stato fossero generiche e poco circostanziate, il giudice supremo ha comunque ritenuto di dover rigettare il ricorso avanzato dall’ex Presidente per incompetenza.

Insomma, la vera portata della decisione di estromettere Lugo e, soprattutto, la possibilità che dietro a questa scelta debba rinvenirsi un silenzioso colpo di Stato non può essere stabilito ora. Occorrerà osservare che cosa accadrà in Paraguay nei prossimi mesi, prestando particolare attenzione a eventuali riforme e all’andamento delle prossime elezioni.