Verso una nuova tipologia decisoria della Corte costituzionale in materia penale? A margine della sentenza n. 40 del 2019

Con la recente sentenza n. 40 del 2019, la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sull’annosa questione della legittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio previsto dalla legislazione in tema di repressione del traffico e del consumo di stupefacenti, cercando nuovamente di porre rimedio agli squilibri di una normativa succedutasi negli ultimi anni in maniera disordinata.

La norma incriminatrice censurata (l’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990)  prevedeva la sanzione dagli otto ai venti anni di reclusione per “chi(unque), senza l'autorizzazione di cui all'articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene, fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 75, sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall'articolo 14”. Un tale trattamento sanzionatorio è stato introdotto per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con cui essa annullò la norma allora vigente (più mite) perché introdotta in violazione del principio di omogeneità della legge di conversione del decreto legge. Ciò ha determinato, anche al di là delle intenzioni della Corte, non pochi problemi in ambito giudiziario, visto il deficit di determinatezza e precisione che sussiste tra la fattispecie in questione e quella di lieve entità di cui al quinto comma dello stesso articolo, che prevede un trattamento sanzionatorio molto più lieve (da sei mesi a quattro anni di reclusione).
Ad essere oggetto di censura da parte del giudice rimettente, quindi, è il trattamento sanzionatorio attualmente vigente, ritenuto incostituzionale con riguardo a più parametri costituzionali.
In primo luogo, la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata in riferimento all’art. 25, comma 2, Cost. e alla violazione del principio di legalità in materia penale.
Secondo il giudice rimettente, attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis d.l. n. 272 del 2005 da parte della sentenza n. 32 del 2014, si sarebbe infatti verificato un intervento in malam partem in materia penale da parte della Corte costituzionale, vista la reviviscenza del minimo edittale di otto anni in luogo dei sei introdotti dall’anzidetto articolo dichiarato incostituzionale, violando così il principio di riserva di legge in materia penale. Da parte sua, la Consulta ha ritenuto tale censura “un improprio tentativo di impugnazione”, rammentando come, in virtù dell’art. 137, comma 3, Cost., contro le proprie decisioni non si possa proporre alcun tipo di gravame. Tuttavia, a parte questo aspetto procedurale, la Corte ricorda altresì che non è assolutamente precluso alla stessa di adottare decisioni che producano un effetto deteriore in materia penale, allorché ciò rappresenti una conseguenza legata all’esercizio della propria funzione: la reductio ad legitimatem di una norma costituzionalmente illegittima.
D’altra parte, effetti in peius, all’interno del delicato sistema penale, sono ammessi solo attraverso pronunce di tipo ablativo. Quindi, rimane certamente ferma la preclusione, come corollario del principio di cui all’art. 25 cit. per cui la Corte non può introdurre in via additiva nuovi reati e non può, attraverso una propria sentenza, ampliare o aggravare figure di reato già esistenti. Nondimeno, nella situazione censurata dal giudice rimettente, la Corte ha fatto uso di un potere ormai pacificamente ammesso, a partire dalla risalente giurisprudenza in tema di sindacato sulle norme penali di favore.
In secondo luogo, la Corte ha invece ritenuto ammissibile e fondata la questione sulla legittimità costituzionale della norma sotto esame in relazione agli artt. 3 e 27 Cost.
Ammissibile in quanto il giudice a quo, in coerenza con gli ultimi approdi della giurisprudenza costituzionale, era riuscito ad offrire alla Corte costituzionale i punti di riferimento e le soluzioni già esistenti che, “ancorché non costituzionalmente obbligate, … (potessero) sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”. I sei anni richiesti come pena minima, invero, sono rinvenibili sia come pena massima del delitto di traffico di stupefacenti sub specie di “droghe leggere” (art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990) sia come pena minima già prevista in passato per lo stesso art. 73, comma 1. Questo passaggio rappresenta il motivo di maggiore interesse della pronuncia, perché con esso la Corte precisa ulteriormente i limiti e le condizioni del suo intervento in materia penale allorché ravvisi un vizio di incostituzionalità senza però poter ancorare il suo intervento di ricostruzione del tessuto normativo a una soluzione “costituzionalmente obbligata”, con particolare riferimento a quelle situazioni in cui si ritiene che per rimuovere il vulnus sarebbero a disposizione soluzioni alternative, tutte rientranti nella discrezionalità del legislatore.
Un simile passaggio dalla risalente e consolidata dottrina della soluzione costituzionalmente obbligata alla soluzione costituzionalmente adeguata (invocata in questa sede), è giustificato dalla Corte sulla base della necessità “di evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore”.
La questione sollevata dal giudice a quo è quindi ritenuta fondata in quanto non è giustificabile il saltus di quattro anni (il doppio, in questo caso) tra il massimo della pena per il fatto di lieve entità (comma quinto) ed il minimo della pena per il fatto di non lieve entità (comma primo). Invero, tale divario determina, tra le altre cose, un condizionamento nella valutazione complessiva del giudice, il quale potrebbe trovarsi di fronte al paradosso di dover punire in maniera irragionevolmente diversa due fatti che, per la loro carica offensiva, si collochino rispettivamente leggermente entro oppure oltre il confine della “lieve entità”. Per tale ragione, nella disposizione de qua è stato rilevato dalla Corte costituzionale un vulnus ai principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che al principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.

Quindi, accogliendo nel senso sopra indicato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, il giudice delle leggi ha ritenuto costituzionalmente adeguata, ancorché non imposta, la previsione della pena minima in sei anni di reclusione, introdotta mediante un dispositivo a evidente contenuto sostitutivo.

Da una parte, non deve preoccupare che l’approdo sanzionatorio risultante da tale pronuncia sia lo stesso di quello precedentemente dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 2014, posto che in quel caso la pronuncia di illegittimità costituzionale fu la conseguenza dell’irregolarità nel quomodo attraverso cui si arrivò alla previsione di tale sanzione, essendo stato l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 censurato per contrasto con l’art. 77, comma 2, Cost. Quindi, con tutta evidenza, in quella sede la Corte non si pronunciò sull’aspetto della proporzionalità e ragionevolezza della previsione edittale in sé.

Da un’altra parte, ci troviamo ormai di fronte a due tipi di percorsi decisionali della Consulta in merito alla costituzionalità delle pene. Uno prevede come punto di partenza per la valutazione della proporzionalità della pena il tertium comparationis;  l’altro, inaugurato di recente con la sentenza n. 236 del 2016, contempla la possibilità di valutare la proporzionalità della pena in termini assoluti rispetto all’offensività in astratto di un certo reato.
In quest’ultimo caso “il problema non è più l’irragionevole disparità di trattamento tra due fattispecie analoghe, ma è l’intrinseca irragionevolezza – sub specie di manifesta sproporzione per eccesso – del trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie sottoposta all’esame della Corte” (Viganò) e il tertium comparationis viene utilizzato solo in una seconda fase per fornire una soluzione sanzionatoria coerente con il quadro normativo vigente, affinché renda più armonico il sistema.
Nel caso di specie, viene da dire che siano stati utilizzati addirittura due tipi di tertia comparationis in due distinte fasi: il primo è stato il comma quinto dell’art. 73 cit., utilizzato dalla Corte per convincersi della sproporzione del quantum sanzionatorio rappresentato dal minimo edittale di otto anni del comma primo; in seconda battuta sono stati presi in considerazione il comma quarto e il comma primo (come redatto precedentemente all’ultima declaratoria di incostituzionalità) dello stesso articolo, per individuare nei sei anni – previsti rispettivamente come pena massima e come pena minima delle fattispecie appena menzionate – una soluzione logica, coerente ed adeguata come limite minimo della forbice edittale prevista da tale fattispecie criminosa.
In ultima analisi, la Corte può quindi attingere ai due metodi di cui sopra. In astratto, sarebbe più auspicabile che la Corte avviasse il percorso logico partendo da un tertium comparationis che possa maggiormente corroborare l’eventuale deficit  di ragionevolezza della dosimetria sanzionatoria prevista dal legislatore. Ciò non toglie che, in via residuale, e in mancanza di una chiara fattispecie analoga che possa fondare e coadiuvare il giudizio della Corte costituzionale,  la stessa possa rifarsi al nuovo iter di individuazione e dichiarazione dell’intrinseca irragionevolezza (e sproporzione) della sanzione rispetto alla portata offensiva della fattispecie astratta di reato, per poi cercare la soluzione costituzionalmente obbligata o, sempre in via residuale, una soluzione costituzionalmente adeguata in sostituzione di quella incostituzionale. Tanto più, come in questo caso, se attraverso il ricorso a tale tecnica si riesce efficacemente a porre rimedio a un vulnus altrimenti difficilmente sanabile.