Le elezioni di midterm nel complesso mosaico federale degli Stati Uniti

Elezioni di midterm quale strumento di controllo popolare dell’operato presidenziale
Martedì 8 novembre 2022 gli elettori statunitensi sono stati chiamati alle urne per il rinnovo dell’intera Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato federale (35 Senatori). Lo stesso giorno sono stati eletti, oltre ad altre numerose cariche politiche e giudiziarie di livello locale, i Governatori in 36 Stati federati, nel Distretto di Columbia (DC) e in 3 Territori, nonché i membri dei Parlamenti locali in 46 Stati, nel DC e in 4 Territori.
Ancorché general elections, locuzione con la quale in ambito statunitense si indica qualsivoglia elezione a una carica federale o locale – in contrapposizione alle elezioni primarie e ai caucus, che riguardano invece le elezioni per le nomine dei candidati di partito – le elezioni di martedì sono generalmente definite elezioni di midterm, intervenendo a metà del mandato presidenziale. I risultati di questa tornata elettorale si riflettono infatti inevitabilmente sull’amministrazione federale determinando nuovi equilibri a livello congressuale e costituendo per il Presidente, seppur indirettamente, un duro banco di prova per il suo operato dinanzi agli elettori. Si tenga conto che da quando entrambe le Camere del Congresso sono divenute elettive, alle midterm il partito del Presidente ha perduto in media 26 seggi tra Camera e Senato e in molte occasioni ci si è ritrovati anche in una situazione di divided government.

L’esito dei risultati premia i democratici
I risultati delle midterm del 2022 sembrano aver graziato l’amministrazione di Joe Biden, contro le aspettative di Trump, rilanciatosi nella corsa presidenziale nonostante la débâcle di molti suoi candidati. Il Partito democratico, pur perdendo la maggioranza alla Camera, ha infatti mantenuto quella al Senato, riconfermandosi (in attesa del risultato relativo al seggio senatoriale in Georgia) in tutti gli Stati in cui difendeva un proprio seggio, incluso il Vermont, dove l’uscente Patrick Leahy (D), dopo otto mandati consecutivi, non si è ricandidato.
I democratici sono riusciti inoltre a conquistare un seggio in Pennsylvania, dove John Fetterman (D) è riuscito a battere Mehmet Oz (R), candidatosi dopo l’uscita di scena di Pat Toomey (R). Con la vittoria di Fetterman, i democratici detengono ora entrambi i seggi senatoriali della Pennsylvania. Dopo le midterm, solo sei Stati federati vedono una coesistenza tra Senatori di differente colore politico (si tratta di Maine, Montana, Ohio, Vermont, West Virginia e Wisconsin, anche se in Vermont un seggio senatoriale è detenuto dall’indipendente Sanders, che vota comunque con i democratici).
Si attende peraltro ancora, come accennato, l’assegnazione del seggio della Georgia, poiché nessuno dei due candidati principali, l’uscente Raphael Warnock (D) e Herschel Walker (R), ha raggiunto la maggioranza assoluta dei voti l’8 novembre. Il seggio sarà assegnato in un ballottaggio che si terrà il 6 dicembre, così come stabilito dalla legge elettorale della Georgia.
Con la vittoria di Warnock, i democratici otterrebbero un vantaggio di 51-49 sui repubblicani, grazie anche all’apporto di due indipendenti, godendo così di una maggioranza che permetterebbe all’amministrazione Biden di avere campo libero soprattutto nelle nomine delle alte cariche federali. L’eventuale vittoria di Walker, invece, riconfermerebbe la parità 50-50, che implicherebbe ancora per i democratici il ricorso al voto della Presidente Harris per avere una maggioranza.

Gli Stati federati comandano il gioco elettorale, anche a livello federale
L’esito del voto nei singoli Stati mette bene in risalto l’influenza dei sistemi elettorali locali sui destini delle istituzioni federali. Nel sistema statunitense non esiste infatti una vera e propria legge federale per l’elezione delle cariche federali. A livello costituzionale vi sono comunque delle norme generali che permettono di armonizzare il processo elettorale. Il dettato costituzionale stabilisce ad esempio i requisiti minimi per essere eletto Senatore e Rappresentante e dispone l’incompatibilità delle cariche congressuali con quella di qualunque altra carica pubblica. Una legge federale del 1845 e il codice elettorale statunitense fissano un Election Day valido per tutti gli Stati federati, disponendo così che le elezioni federali, sia presidenziali che congressuali, si tengano il martedì dopo il primo lunedì di novembre di ogni anno pari, le prime ogni quattro anni, le seconde con ritmo biennale.
La sez. 4 dell’art. 1 Cost. USA dispone che tempi, luoghi e modalità per le elezioni di Senatori e Rappresentanti siano stabiliti da ciascun Legislativo locale anche se il Congresso può disporre o modificare la relativa disciplina (salvo che per la sede dell’elezione dei Senatori). Tale disposizione rimette di fatto la quasi totalità del procedimento elettorale in mano agli Stati federati.
Le leggi elettorali statali disciplinano anzitutto le elezioni primarie e i caucus di partito e stabiliscono i criteri per il rinvio delle elezioni in caso di emergenza. Le clausole di emergenza sono state applicate in occasione delle primarie presidenziali del 2020 a causa della pandemia di Covid-19. Molti Stati hanno esteso il sistema di mail-in voting in sostituzione del metodo del voto al seggio (in-person voting), mentre in alcuni casi, nell’ambito delle primarie repubblicane, si è proceduto direttamente con la cancellazione del voto. Attualmente non vi è alcuna legge che consenta al Presidente o al Congresso o ad altre cariche di livello federale di interferire con le leggi elettorali statali in caso di emergenza e l’ipotesi, pur prospettata da Trump, di rinviare le elezioni presidenziali del 2020 a causa della pandemia di Covid-19 si è rivelata del tutto impraticabile, proprio a causa della supremazia degli Stati in materia di rinvii.
Le leggi elettorali degli Stati stabiliscono poi le modalità di nomina o di elezione di coloro che dovranno ricoprire la carica di Senatore o Rappresentante del Congresso in caso di seggio vacante (generalmente si procede con la nomina da parte del Governatore dello Stato e con una successiva conferma da parte del Legislativo locale). Ulteriori aspetti disciplinati dalle leggi elettorali riguardano anche i finanziamenti per i candidati alle elezioni locali, in alcuni casi non prevedendo alcun limite (es. Alabama, Iowa) e in altri casi determinando i tetti o i divieti a seconda dei soggetti donatori (singoli individui, PAC, partiti di livello statale, società, sindacati).
I Legislativi statali disciplinano anche il sistema elettorale da applicare sia alle primarie che alle general elections. Generalmente è utilizzato il metodo maggioritario di tipo plurality, ma in alcuni casi, come ad esempio in Georgia (come visto) e Louisiana, si applica il metodo majority e se nessuno dei candidati ottiene la maggioranza assoluta dei voti si ricorre al ballottaggio. Altri Stati adottano il ballottaggio solo in occasione delle primarie.
Vi sono poi sistemi più complessi, come quello adottato dall’Alaska a partire dalle primarie di agosto 2022 ed utilizzato anche nelle ultime midterm. Si tratta di un sistema di votazione del tipo top-four primary e ranked-choice voting (RCV), già adottato e in parte applicato in altri 16 Stati, sebbene nella maggior parte dei casi per elezioni di carattere locale. Le primarie in Alaska si svolgono senza distinzioni di partito in una unica competizione che vede passare solo i primi quattro candidati più votati. È possibile, dunque, che alle elezioni generali siano ammessi quattro candidati anche di un solo partito. Alle elezioni generali si procede poi con un voto del tipo single transferable che permette al singolo elettore di elencare in ordine di preferenza i candidati ammessi al voto. Vince infine chi ha ottenuto la maggioranza dei voti, che si calcola facendo confluire verso i candidati maggiori i voti di preferenza secondo l’ordine riportato nelle schede.
Al 19 novembre, le elezioni di midterm per il seggio senatoriale in Alaska, che si sono tenute regolarmente, risultano ancora “uncalled”, termine con il quale si indica il fatto che non è stato ancora declamato un vincitore da parte delle autorità incaricate dello spoglio, vuoi perché le operazioni si sono dilungate, vuoi perché il numero di schede scrutinate non permette di fare proiezioni sicure per “chiamare” il vincitore. Tuttavia, i due maggiori contendenti del seggio dell’Alaska sono repubblicani e il risultato sembra pertanto essere scontato a favore del partito dell’elefantino.

Il futuro del sistema elettorale USA tra poteri statali e Corti
La Costituzione USA prevede, come visto, che sia il Legislativo dello Stato federato a disciplinare la materia elettorale. Sul punto, vi è una dottrina, quella della independent state legislature theory (ISL), che ritiene che il costituente escluda qualsiasi altra autorità statale dall’intervenire in materia elettorale, cosicché le sentenze delle Corti statali non potrebbero mai rovesciare le decisioni prese dal Legislativo, anche laddove contrarie alla Costituzione dello Stato federato. Alcuni Stati hanno fatto ricorso alla dottrina ISL per difendere le disposizioni normative con le quali si è tentato di ridisegnare le circoscrizioni elettorali per favorire, non troppo velatamente, la propria parte politica (Sul punto si vedano gli interventi di Silvia Filippi su questo blog: I casi di partisan gerrymandering non sono giustiziabili. La Corte Suprema USA invoca la political question doctrine in Rucho v. Common Cause e La Corte Suprema USA “congela” le voting maps di Ohio e Michigan in attesa di pronunciarsi su quelle di Maryland e North Carolina). La Corte Suprema in Arizona State Legislature v. Arizona Independent Commission del 2015 si è espressa negativamente riguardo tale teoria, ritenendo che il costituente si riferisca all’organo democratico rappresentativo dello Stato (“the Legislature thereof”) e non necessariamente all’autorità parlamentare. Con esso può indicarsi anche un organo diverso dal Parlamento che sia ritenuto dal popolo di quello Stato come rappresentativo della volontà popolare. Il costituente in altre parole si sarebbe posto solo la questione di mettere gli Stati federati al riparo dall’ingerenza dei poteri federali, lasciando agli stessi la libertà di decidere come organizzare il proprio sistema politico. I sostenitori della ISL theory ritengono invece che la Costituzione parli proprio di Legislativo statale inteso come “Parlamento” e che la differenza linguistica sarebbe marcata dal XVII Emendamento, che dispone l’elettività del Senato riferendosi a “by the people thereof”, distinguendosi dunque in maniera netta “Legislature” da “people”.
Per il 2023 è comunque attesa una sentenza per il caso Moore v. Harper, relativo al North Carolina, sempre in materia di gerrymandering. Il caso, rimesso a una Corte Suprema con una maggioranza ben più conservatrice di quella del 2015, potrebbe dare spazio alla ISL theory e i justice Alito, Gorsuch e Thomas hanno già anticipato di voler abbracciare tale dottrina. È abbastanza chiaro che lasciare ai Parlamenti statali un potere assoluto in materia elettorale che vada anche al di là delle Costituzioni degli Stati, rappresenta un rischio non indifferente per la stessa democrazia statunitense e che una sentenza che abbracciasse appieno la ISL theory avrebbe conseguenze catastrofiche già alle presidenziali del 2024.

 


La Corte Suprema USA sul DACA fa rifiatare i “dreamers”

La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti del 18 giugno 2020 sul caso Department of Homeland Security et al. v. Regents of the University of California et al. segna una tappa importante nella politica dell’immigrazione statunitense. Con tale decisione, infatti, i giudici supremi hanno mantenuto intatto il Deferral Action for Childhood Arrivals (DACA), il programma di sostegno lanciato da Obama nel 2012 con il quale si dà la possibilità ai cosiddetti “dreamers”, ovvero a quegli immigrati giunti molto giovani in territorio statunitense, senza precedenti penali ma privi di permesso di soggiorno, di regolarizzarsi temporaneamente sul territorio e di accedere ad una serie di servizi, quali l’ottenimento di un permesso di lavoro e l’accesso ai programmi di Social Security e di Medicare. Osteggiato dall’amministrazione Trump, il DACA è stato revocato tramite decisione del Department of Homeland Security (DHS) nel 2017, ma le procedure di revoca sono state ritenute illegittime dalla Suprema Corte per mancanza di motivazioni adeguate.
Per capire come la Corte sia giunta a tale conclusione, è necessario partire dai fatti. Nel 2012, l’amministrazione Obama, tramite il DHS, adottava un Memorandum nel quale si annunciava l’avvio di un programma di sostegno per alcune categorie di immigrati irregolari, il suddetto DACA. Nel Memorandum si prevedeva la possibilità di rinviare di due anni l’espulsione (two-year forbearance of removal) e di accedere ad una serie di benefit in campo sociale e lavorativo. Il DACA era rivolto ad immigrati irregolari entrati nel Paese a partire dal 15 giugno 2007 che non avevano compiuto 16 anni al momento dell’ingresso sul territorio statunitense e la cui età fosse inferiore a 31 anni nel 2012.
Nel 2014, il DHS avanzava un nuovo programma in materia di immigrazione connesso al DACA, il Deferred Action for Parents of Americans and Lawful Permanent Residents (DAPA). Con il DAPA, i benefici previsti dal DACA sarebbero stati estesi anche ai genitori di cittadini americani o di residenti permanenti, allargando così la platea dei dreamers da 700.000 a circa 4,3 milioni di persone. Contemporaneamente, il Governo aveva previsto di allargare ulteriormente i benefici del DACA, prolungando la validità del permesso di lavoro a tre anni ed eliminando il tetto dell’età.
Tutti e 26 gli Stati a guida repubblicana avevano contestato dinanzi alla Corte del Distretto meridionale del Texas sia l’espansione dei criteri del DACA sia la legittimità del DAPA, sostenendo che tale ultimo programma violasse lo Immigration and Nationality Act (INA) e la procedura del notice and comment definita dallo Administrative Procedure Act (APA), per la quale ogni atto con forza di legge deve essere corredato da criteri di trasparenza e conoscibilità.
La Corte texana, accogliendo il ricorso degli Stati, aveva decretato un’ingiunzione preliminare che impediva l’implementazione del DAPA e l’espansione dei benefici del DACA. La Corte di Appello (Fifth Circuit) aveva confermato l’ingiunzione preliminare, stabilendo che il DAPA era una “substantive rule” e che quindi doveva essere sottoposto alla procedura di notice and comment. Inoltre, il DAPA era “manifestamente contrario” all’INA, il quale dispone espressamente le designazioni che permettono a determinate classi di immigrati di ricevere benefici connessi alla presenza legale sul territorio e di accedere ai permessi di lavoro. Chiamata in causa, la Corte Suprema, con un voto in parità 4-4, aveva di fatto confermato l’ingiunzione preliminare.
Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, il DHS decideva, nel giugno del 2017, di rescindere il DAPA. Per giustificare la propria decisione, il DHS citava, rispettivamente: l’ingiunzione preliminare; il fatto che il DAPA non era mai stato attivato; le nuove priorità in materia di immigrazione da parte dell’Esecutivo. Tre mesi più tardi, l’Attorney General, Jeff Sessions, inviava una lettera alla Acting Secretary del DHS, Elaine Duke, nella quale si disponeva di procedere anche con la rescissione del DACA. Il Procuratore generale riteneva infatti che il DACA condividesse le medesime “criticità legali” del DAPA e che pertanto doveva essere revocato.
Seguendo pressoché pedissequamente le indicazioni di Sessions, Duke disponeva un Memorandum (Memo Duke) nel quale, prendendo in considerazione la decisione della Corte Suprema e quella del Fifth Circuit sulla ingiunzione preliminare, si poneva fine al DACA. Secondo il Memo Duke, nessun’altra domanda per i benefici del DACA sarebbe stata accolta e solo i beneficiari del DACA le cui concessioni erano in scadenza entro sei mesi potevano procedere con una domanda di rinnovo.
Il Memo Duke veniva contestato da più parti, tra cui in particolare il Reggente dell’Università della California (caso Regents, presso la Corte distrettuale del Distretto settentrionale della California), il sig. Martin Batalla Vidal, un beneficiario del DACA (caso Batalla Vidal, presso il Distretto orientale di New York) e la National Association for the Advancement of Colored People (caso NAACP, presso il DC). I ricorrenti contestavano in particolare che il Memo Duke fosse contrario all’APA, ovvero che l’atto fosse “arbitrary and capricious”, poiché le conclusioni di Duke non motivavano a sufficienza il nuovo orientamento del DHS.
Sia in Regents che in Batalla Vidal i giudici accoglievano l’istanza di non conformità dell’atto all’APA, disponendo così un ordine di ingiunzione preliminare che manteneva lo status quo. Nell’aprile del 2018, il tribunale del Distretto di Columbia ordinava invece al DHS di provvedere, entro 90 giorni, alla predisposizione di un nuovo Memorandum per motivare la rescissione. Due mesi più tardi, il successore di Duke, Kirstjen Nielsen, inviava un nuovo Memorandum (Memo Nielsen) nel quale il nuovo Segretario del DHS dichiarava di non voler interferire con il precedente Memorandum (ovvero di non disporre una nuova rescissione), confermando così che il DACA andava revocato perché era semplicemente “contrario alla legge”.
La Corte del Distretto di Columbia riteneva dunque che il Memo Nielsen non motivasse in maniera esaustiva le ragioni che avevano condotto alla rescissione del DACA, respingendo così l’istanza governativa di rimozione dell’ingiunzione preliminare. Il Governo faceva così ricorso in appello rispettivamente dinanzi al Circuito del Distretto di Columbia, al Secondo e al Nono Circuito. Nel novembre del 2018, il Governo inviava poi tre petitions for certiorari alla Corte Suprema.
Dopo che il Nono Circuito aveva confermato l’ingiunzione preliminare, la Suprema Corte accorpava i casi Regents, Batalla Vidal e NAACP, definendo la questione in tali termini: in primo luogo la Corte doveva stabilire se la rescissione del DACA fosse sottoponibile ad un sindacato di giurisdizione (“reviewability”); in secondo luogo, in caso di risposta affermativa alla prima questione, la Corte doveva valutare la legittimità della rescissione del DACA.
La Corte non si è dunque pronunciata sulla possibilità del DHS di revocare il DACA, posto che nemmeno i ricorrenti hanno messo in dubbio che il Governo abbia il potere di agire in tal senso. La questione affrontata dalla Corte è stata piuttosto quella di verificare se il DHS, nello stabilire la rescissione, abbia seguito una procedura corretta dal punto di vista amministrativo. La questione va a toccare anzitutto il principio di responsabilità del Governo, posto che l’APA dispone che le agenzie federali sono tenute a rispondere del proprio operato e che pertanto i processi decisionali devono essere motivati (“reasoned decisionmaking”). Al contrario, un’azione posta dall’amministrazione senza adeguata motivazione è da intendersi “arbitrary and capricious”.
La Corte ha stabilito che il DACA non può essere considerato semplicemente come un atto di policy e dunque non può essere rimesso alla sola discrezionalità del DHS. Esso pertanto non è esente dal sindacato di giurisdizione. Il DACA stabilisce infatti un processo “chiaro ed efficiente” per il Servizio per la Cittadinanza e l’Immigrazione statunitense (USCIS) per l’individuazione dei beneficiari di determinate assegnazioni. In altre parole, il DACA definisce un processo “standardizzato e istituzionalizzato” mediante il quale si dispongono vere e proprie ordinanze (“adjudications”), tra le quali ad esempio quella con la quale si concede la protezione dall’espulsione. Si tratta dunque di ordinanze che pongono in essere azioni affermative che possono essere rimesse al vaglio del potere giudiziario. Non solo: mediante il processo definito dal DACA, i beneficiari sono titolati a richiedere permessi di lavoro e possono fare richiesta di accesso ai servizi sociali. L’accesso a tali benefici è, per la Suprema Corte, un interesse che le “corti sono spesso chiamate a proteggere”.
Per tali motivi, la Corte ha ritenuto il DACA e il relativo atto di rescissione come reviewable e di conseguenza ha ritenuto di doversi pronunciare anche sulla legittimità della rescissione. L’atto cui fare riferimento per definire la questione è il Memo Duke e non anche il successivo Memo Nielsen, poiché, secondo un “principio fondamentale del diritto amministrativo”, il giudizio sull’azione amministrativa deve limitarsi alle ragioni invocate dall’amministrazione al momento in cui l’azione è stata presa (nelle parole della Corte, “an agency must defend its actions based on the reasons it gave when it acted”).
Proprio su tale posizione, sulla quale peraltro il giudice Kavanaugh ha espresso il suo personale dissenso, si è orientata la maggioranza della Corte. I Justices hanno ritenuto infatti di non prendere in considerazione il Memo Nielsen, sulla base della dottrina della inammissibilità della post hoc rationalization. Il Segretario Nielsen non ha provveduto infatti a disporre una nuova rescissione, ma ha semplicemente dato continuità al Memo Duke, confermando che il DACA è illegittimo ed introducendo poi ulteriori ragioni a quelle addotte da Duke che però si riconnettono a quell’atto di rescissione e non formano il motivato di una nuova rescissione. Le nuove motivazioni di Duke non valgono dunque a sanare la tardività del nuovo Memorandum. Il principio di diritto che si riconnette all’inammissibilità della post hoc rationalization è quello della responsabilità dell’amministrazione (“agency accountability”) per il quale dalle azioni adottate dal potere amministrativo ci si deve poter difendere “pienamente” ed “in modo tempestivo”. Risposte “tardive” (rispetto all’avvio del contenzioso) da parte dell’amministrazione possono infatti inficiare “the orderly functioning of the process of review”.
A questo punto, la Corte si sofferma sul contenuto del Memo Duke. In esso si afferma solamente che il DACA sia illegittimo. L’Attorney General Sessions, da parte sua, aveva concluso che l’illegalità del DACA derivasse dal fatto che tale programma presentasse le medesime criticità legali del DAPA, per il quale si era proceduto parimenti con una rescissione. Per individuare tali criticità legali, la Corte si rifà allora alla sentenza del Fifth Circuit, il quale aveva rilevato che, secondo il DHS, l’illegalità del DAPA si fondasse esclusivamente sull’ammissibilità ai benefit, inclusi i permessi di lavoro e l’accesso alla Social Security e al Medicare. Altra questione è invece quella relativa alla protezione dall’espulsione (forbearance of removal) che è rimasta invece del tutto impregiudicata. Nello stesso Memo Duke ci si limitava ad indicare che il DAPA confliggesse con l’INA nella parte relativa ai benefit ma nulla si diceva sulla protezione dall’espulsione.
Secondo la Suprema Corte, l’Acting Secretary avrebbe potuto definire, nel proprio Memorandum, in piena discrezionalità e al di là delle indicazioni dell’Attorney General, le ragioni per ritenere illegittime anche le procedure di protezione dall’espulsione, ma non ha agito in tal senso, concentrandosi solo sui benefit del DACA. Pertanto, considerando che la rescissione del DACA avrebbe rimosso anche la forbearance of removal senza alcuna giustificazione, per la Corte l’atto di rescissione deve ritenersi come arbitrary and capricious. La Suprema Corte sottolinea peraltro che la forbearance sia parte essenziale se non il vero e proprio “core” del DACA, pertanto nel suo ragionamento rifiuta una scissione dei due elementi portanti del programma (ovvero forbearance e benefit).
La Corte conclude poi che nel Memo Duke manchino indicazioni circa gli “interessi collegati” alla rescissione del DACA. Duke ha anzi ritenuto che il DACA non conferisca “nessun diritto sostanziale”, ma solo benefit a scadenza. Il Governo non ha escluso tuttavia l’esistenza di interessi collegati e gli stessi convenuti hanno evidenziato che i beneficiari del DACA hanno nel tempo avviato carriere, imprese, comprato case, contratto matrimoni e avuto figli, definendo così nuove situazioni giuridiche che si vanno a ripercuotere dunque non solo sui beneficiari del DACA. Secondo la Corte, il DHS avrebbe dovuto indicare l’entità di eventuali interessi collegati e provvedere a soppesare gli effetti della rescissione su questi ultimi, individuando ad esempio altri interessi concorrenti determinati dalle nuove politiche di immigrazione. Anche tale omissione è ritenuta dalla Suprema Corte come arbitrary and capricious.
In relazione alla questione della Equal Protection Clause, sollevata dai convenuti ma respinta dalla Corte, il giudice Sotomayor ha messo in luce che in futuro la questione del DACA potrebbe essere rivista proprio sulla base della suddetta clausola costituzionale. In particolare, Sotomayor ritiene che le esternazioni del Presidente Trump sugli immigrati messicani – i maggiori beneficiari del DACA – ritenuti come “animali” responsabili “per la droga, le gang, i cartelli, la tratta di esseri umani e riconducibili alla pandilla MS-13”, non siano estranee alle politiche messe in atto dalla sua amministrazione (al contrario, la maggioranza della Corte ha ritenuto che le esternazioni di Trump non siano correlate al contesto delle azioni poste in essere dalla sua amministrazione).
La sentenza si presta a una doppia chiave di lettura. L’orientamento dei giudici sul thema decidendum si muove limitatamente sul piano procedurale-amministrativo, definendo una soluzione significativa ma non di certo risolutiva per l’intera politica dell’immigrazione. La decisione potrebbe avere comunque alcune ripercussioni su una campagna elettorale presidenziale quanto mai violenta. I giudici della Corte Suprema, come visto, non hanno cassato le politiche di Trump né hanno impedito all’amministrazione di procedere in futuro con la rimozione del DACA. Trump può dunque continuare a battere il ferro sulla questione dell’immigrazione clandestina, compattando così la propria base elettorale, ma col rischio però di creare ulteriori spaccature che potrebbero risultare fatali sul piano nazionale, soprattutto in un momento in cui le divisioni sociali e razziali sembrano essere ingovernabili. Biden può puntare invece sull’infattibilità delle politiche di Trump in materia di immigrazione e ribadire, ancora una volta, l’incompetenza dell’amministrazione Trump, un’incompetenza che la Corte Suprema ha fatto emergere, questa volta, proprio sul piano della mera conoscenza dei processi amministrativi.


Il Super Tuesday 2020: vecchie fratture in un’America polarizzata

Il 3 marzo 2020 si è tenuto il Super Tuesday, giorno in cui si è votato contemporaneamente in più Stati per le elezioni primarie presidenziali statunitensi, in vista delle nomination per i candidati per le prossime elezioni presidenziali, che si terranno il 3 novembre.
Sia democratici che repubblicani hanno organizzato primarie o caucus in Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Virginia. Gli elettori democratici hanno votato anche nel territorio delle American Samoa, che non facendo parte della Federazione non conta nessun Grande Elettore e dunque non entrerà nel processo elettorale di novembre. Gli elettori democratici all’estero hanno cominciato inoltre a votare proprio a partire dal 3 marzo alla cosiddetta primaria dei Democrats abroad, che sarà aperta sino al 10 marzo e che assegnerà in totale 21 delegati. I delegati della “sezione estero” voteranno insieme a tutti gli altri delegati di partito alla convention nazionale che si terrà tra il 13 e il 16 luglio e nella quale sarà designato definitivamente il candidato democratico.
L’interesse per le primarie statunitensi del 2020 è tutto orientato a favore della competizione interna al Partito Democratico. Sul fronte repubblicano, infatti, Donald Trump non ha rivali, forte del fatto di essere il Presidente in carica (incumbent President), tanto che in molti casi, come è accaduto ad esempio in Maine e Minnesota, non vi sono altri candidati oltre Trump, il quale partecipa in tali primarie come uncontested. Nella storia recente degli Stati Uniti, tutti i Presidenti in carica hanno riottenuto la nomination dal proprio partito in vista del secondo mandato, senza grandi problemi. In tal senso, le primarie del partito dell’incumbent President si sono ridotte a pura formalità.
È pur vero, infatti, che a partire dagli anni ’70 le primarie hanno assunto un ruolo decisivo nella scelta dei candidati presidenziali, aumentando il peso del voto popolare e limitando contestualmente il potere dei partiti nella selezione dei candidati presidenziali, ma soluzioni come quella del Super Martedì, applicate più di recente, hanno ripristinato nuovamente il ruolo dei partiti e dunque il ruolo del “candidato di partito”, poiché concentrando in un unico giorno tante primarie si favoriscono quasi inevitabilmente i candidati più “strutturati”, ovvero quelli meglio organizzati o quelli appoggiati dal partito.
La nomination di Trump è dunque cosa quasi del tutto certa e i risultati del Super Martedì confermano le aspettative. Il Presidente ha vinto finora in tutti gli Stati, collezionando più di 800 delegati (ne servono 1.276 per ottenere la nomination e non siamo nemmeno a metà del processo delle primarie), mentre lo sfidante “fantoccio” Bill Weild resta fermo a un solo delegato.
Trump può dunque essere già considerato come il presumptive nominee del partito dell’elefantino. Il senso politico delle primarie repubblicane sta allora tutto nel messaggio di forza che l’incumbent President rivolge al suo Partito e agli elettori: con il tour delle primarie Trump può far mostra al Paese della compattezza del fronte repubblicano sia sul fronte istituzionale che sul fronte elettorale, oltre che risparmiare risorse per la campagna di novembre.
Trump ha poi un momentum favorevole: al netto del baccano social e del procedimento di impeachment, da cui il Presidente è uscito comunque indenne, l’economia americana va bene e tanto basta all’elettore repubblicano. In politica estera Trump ha poi saputo conciliare, pur senza una vera e propria strategia (e chi potrebbe averla?) realismo (capendo che l’America non può tutto) e protezionismo (avanzando la retorica dell’America First che ha incantato i sovranisti di mezza Europa), senza farsi mancare alcuni piccoli interventi di chirurgia bellica (Iran) che hanno mantenuto alto il morale dei conservatori.
In queste primarie, però, come visto, la competizione vera e propria è quella che si sta svolgendo sul fronte del Partito Democratico, dove a sfidarsi al Super Martedì sono stati soprattutto Bernie Sanders, già avversario di Hillary Clinton alle primarie del 2016, Joe Biden, il vice di Obama tra il 2008 e il 2016, Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts e il magnate Michael Bloomberg, già sindaco di New York tra il 2002 e il 2013.
I risultati hanno visto una netta vittoria, sia in termini di Stati – e dunque di delegati – che di voti popolari, di Joe Biden, che è riuscito a conquistare in particolare gli Stati del Sud (Texas, Tennessee, Oklahoma, Arkansas, North Carolina e Virginia). Sanders è riuscito a colmare il gap vincendo soprattutto in California, lo Stato più popoloso tra quelli del Super Martedì e quello che assegna più delegati in assoluto, e superando inoltre gli altri candidati in Colorado, nello Utah e nel proprio Stato di casa, il Vermont. Warren, già partita male nei primi quattro appuntamenti elettorali in Iowa, New Hampshire, Nevada e South Carolina, nel Super Martedì non è riuscita ad ottenere una vittoria nemmeno nello Stato di casa, il Massachusetts, dove è arrivata solo terza. Lo scarso risultato di Warren sembra aver compromesso la campagna della Senatrice del Massachusetts e del pari si può dire di Bloomberg, che è riuscito a vincere solo nelle American Samoa. Bloomberg, entrato nella competizione proprio nel Super Martedì, ha perso così per il momento la sua scommessa, mancando quell’effetto “big win” che, secondo la sua strategia, avrebbe dovuto aprirgli la strada verso la nomination.
I risultati del Super Martedì ci mostrano dunque ancora una volta una frattura netta all’interno del Partito Democratico, diviso tra un candidato moderato maggiormente affine al partito – Biden, che poco prima del Super Martedì ha ricevuto gli importanti endorsement di Amy Kobluchar e di Pete Buttigieg – e un candidato più spostato a sinistra e non controllato dal partito, ovvero l’indipendente progressista Sanders. L’effetto del Super Martedì ha premiato da un lato il candidato di partito, in questo caso Biden, il cui campo centrista era già stato sgombrato per le defezioni di Kobluchar e Buttigieg, ma ha anche confermato dall’altro la solidità della candidatura di Sanders sul campo progressista, complice anche l’ennesima disfatta di Warren.
Biden e Sanders sembrano dunque lanciati verso una corsa a due del tutto simile a quella che ha opposto Hillary Clinton e lo stesso Sanders alle primarie del 2016, ma a questo punto della competizione sarebbe del tutto azzardato trarre delle conclusioni.
Come è già stato notato altrove, la storia sembra ripresentarsi coi suoi fantasmi, anche se dopo questo Super Martedì gli spettri nel Partito Democratico sono due: da un lato la campagna di Sanders ha fatto riemergere, ancora una volta dopo il 2016, l’incubo di McGovern –  candidato democratico inviso al partito per le sue idee troppo progressiste che nel 1972 riuscì comunque a conquistare la nomination per poi capitolare rovinosamente contro Nixon alle elezioni di novembre – ma è anche vero che il comeback di Joe Biden in questo Super Martedì ha rievocato un fantasma ancor più recente per il Partito dell’asinello: quello di Hillary Clinton con la sua disfatta del 2016.
Le primarie sono sicuramente un processo importante per la democrazia americana, ma l’elezione del Presidente si gioca su un altro campo. Gli ottimi risultati di Joe Biden negli Stati del Sud dimostrano la forza di attrazione dell’ex Vice-Presidente nei confronti dell’elettorato afroamericano, soprattutto delle fasce meno giovani, anche se tale fetta di elettorato sembra essere determinante solo per le primarie dei democratici e non anche per le elezioni vere e proprie, soprattutto in un’area geografica, quella meridionale degli Stati Uniti, dove sono i repubblicani a dominare.
Sanders al contrario ha compensato gli scarsi risultati in Maine e in Minnesota, dove aveva trionfato nel 2016, vincendo in California e confermandosi altrove in alcuni Stati settentrionali, dove prevale il voto dei maschi bianchi della middle class e quello della working class, settori dell’elettorato maggiormente affini alla rivoluzione proposta da Sanders, insieme alla fascia dell’elettorato più giovane e ai Latinos (che in Nevada hanno premiato “el Tío Bernie”). Vincere in California avrà anche un suo peso specifico per la nomination, ma per le elezioni di novembre il risultato di Sanders vale relativamente poco, trattandosi di un safe State per i democratici. La California non è considerato infatti uno Stato competitivo e quasi sicuramente a novembre prevarrà comunque il candidato democratico.
Fintanto che il sistema elettorale per le presidenziali sarà incentrato sullo Electoral College e fintanto che il sistema politico sarà caratterizzato da un’estrema polarizzazione, bisognerà guardare allora principalmente alla competizione negli Stati in bilico (swing States), ovvero negli Stati dove nessuno dei due partiti ha, in proiezione, una maggioranza schiacciante o “sicura”. È negli Stati in bilico, infatti, che si assegna quella porzione di Grandi Elettori determinante per la vittoria finale.
Guardando ai risultati della precedente tornata elettorale, se si prendono in considerazione gli Stati in cui vi è stato un margine tra i due candidati maggiori inferiore al 2%, si possono individuare come Stati in bilico la Florida, il Michigan, il Minnesota, il New Hampshire, la Pennsylvania e il Wisconsin. Al netto degli eventi che nel breve termine potranno indirizzare la campagna elettorale in un senso o in un altro, sono questi, in buona sostanza, gli swing States a cui i due maggiori partiti (soprattutto i democratici) dovranno prestare attenzione nel 2020 e dove potrebbe giocarsi la vera partita elettorale.

 


La Corte Suprema britannica tra prorogation e Brexit: una lezione di diritto costituzionale

Con la decisione R (on the application of Miller) (Appellant) v The Prime Minister (Respondent) Cherry and others (Respondents) v Advocate General for Scotland (Appellant) (Scotland) del 24 settembre 2019, la Corte Suprema del Regno Unito ha segnato una tappa fondamentale nel processo della Brexit e al contempo ha posto una vera e propria pietra miliare nel sistema costituzionale britannico. La decisione della Corte si concentra essenzialmente sull’istituto della prorogation e in particolar modo sui limiti costituzionali entro i quali questa può essere legittimamente invocata. Può essere utile tuttavia riassumere le tappe principali della Brexit, questione che la Corte ha espressamente tenuto fuori dal giudizio de quo, ma che è comunque connessa alla richiesta di prorogation di Boris Johnson.
Questi i fatti: il 29 marzo 2017 Theresa May notificava l’intenzione di recesso del Regno Unito dall’UE ai sensi dell’art. 50(2) TFUE. Ai sensi dell’art. 50(3) TFUE, pertanto, i trattati euro-unitari non sarebbero stati più applicati in Regno Unito a partire dal 29 marzo 2019, anche in assenza di un accordo di recesso. Il 25 novembre 2018 il Consiglio europeo approvava un accordo sul recesso che il Regno Unito avrebbe dovuto ratificare entro la fine di marzo. Al 29 marzo 2019 il Regno Unito non aveva ratificato l’accordo, pertanto il 5 aprile presentava all’UE una richiesta di proroga della scadenza ex art. 50(3) TFUE. Con Decisione dell’11 aprile, il Consiglio europeo rinviava la data del recesso al 31 ottobre ma escludeva comunque qualsivoglia riapertura dei negoziati. Il 28 agosto, il nuovo Premier Boris Johnson richiedeva alla Regina la c.d. prorogation della sessione parlamentare a partire da una data compresa tra il 9 e il 12 settembre e sino al 14 ottobre. La mossa del Premier britannico ha avuto l’obiettivo, non tanto velato, di limitare la possibilità per il Parlamento di legiferare contro un’uscita dall’UE senza accordo (no deal). La richiesta di prorogation di Boris Johnson ha aperto pertanto una voragine politico-costituzionale, attirandosi le ire dello Speaker dei Comuni, John Bercow, che ha giudicato la decisione un “oltraggio alla Costituzione”, tenendo anche conto del fatto che il Parlamento si era espresso più volte contro il no deal.  La Corte ha anzi messo in rilievo che il Parlamento, dopo la pausa estiva, ha adottato lo European Union (Withdrawal) (No 2) Act 2019, che prevede che il Primo Ministro debba richiedere all’UE una nuova richiesta di proroga di tre mesi dell’art. 50(3) TFUE, spostando la data del recesso al 31 gennaio 2020.
A inizio settembre sono stati avanzati due ricorsi che si sono conclusi però con esiti contrapposti. Nel ricorso Cherry, sollevato presso la Court of Session scozzese, la Inner House ha ritenuto non solo che la questione fosse giustiziabile, ma anche che l’atto con cui si è proceduto per la prorogation fosse illegittimo e quindi nullo e senza effetto. Al contrario, nel ricorso Miller sollevato presso la EWHC, il giudice ha ritenuto inammissibile la questione poiché non implicava nessuna legal question, ma solo una questione di responsabilità politica del governo.
I ricorrenti hanno dunque fatto appello alla Corte Suprema, la quale ha unito i ricorsi riunendosi in un panel di 11 giudici, il numero massimo ammesso nell’Alta Corte. Entrambi i ricorrenti hanno sollevato le medesime domande: 1) è giustiziabile lo advice del Primo Ministro? 2) se è giustiziabile, quali sono gli standard di legittimità giudicabili? 3) lo advice in questione è legittimo? 4) in caso negativo, quali garanzie vi sono contro tale advice?
La Corte ha affrontato tutte le questioni poste dai ricorrenti con metodo maieutico, articolando dialogicamente i propri ragionamenti con una ferrea logica costituzionale. Preliminarmente, la Corte ha specificato che la decisione non avrebbe riguardato in alcun modo la Brexit, ma solo la legittimità dello advice di Johnson. La Corte si interroga dunque su cosa sia la prorogation. Il termine prorogation può essere tradotto come “fine della sessione parlamentare”. Si tenga conto che in Regno Unito i lavori parlamentari sono scanditi da sessioni annuali (ma nulla impedisce che le sessioni possano essere più lunghe, com’è il caso dell’attuale sessione parlamentare, avviata il 21 giugno 2017). Le sessioni hanno inizio con lo State Opening of Parliament, una cerimonia che culmina con un discorso della Regina dinanzi ai Comini e ai Lord sull’agenda politica e legislativa, e si concludono con la c.d. prorogation, ovvero con un periodo di tempo (generalmente di qualche giorno) in cui si interrompono i lavori parlamentari in attesa dell’apertura della nuova sessione. Durante la prorogation nessuna delle due Camere può essere convocata, non vi sono dibattiti, né possono essere adottate leggi. Inoltre, i disegni di legge che non hanno completato il loro iter decadono, salvo eccezioni. Nel corso della prorogation il governo rimane invece in carica ma non può ottenere l’assenso parlamentare per atti che prevedono ulteriori spese. Il Parlamento non può stabilire per sé la prorogation, poiché tale istituto è una prerogativa esercitata dalla Corona tramite Order in Council emesso attraverso il Privy Council. In teoria, il Monarca potrebbe esercitare in persona tale prerogativa ma nella prassi è il governo, nella figura del Primo Ministro, a sollecitare con un advice il Monarca ad esercitare tale prerogativa.
La prorogation deve essere distinta dalla dissolution, atto con cui si pone fine alla Legislatura, e deve essere distinta anche dall’aggiornamento (adjourning) e dalla pausa (recess), che sono stabiliti direttamente dai due rami del Parlamento tramite mozione e che non pongono fine alla sessione parlamentare. Si tenga conto che il periodo di prorogation richiesto da Johnson faceva seguito al recess estivo e si sovrapponeva a una conference recess (pausa per i convegni di partito) prevista ai Comuni dal 14 settembre al 9 ottobre.
La Corte ha messo in chiaro di non avere notizie circa i colloqui intrapresi tra la Regina e il Primo Ministro sulla richiesta di prorogation, pertanto non si è pronunciata nel merito. Gli unici tre documenti relativi alla richiesta di prorogation di cui la Corte ha avuto conoscenza sono stati: 1) un Memorandum del 15 agosto 2019 inviato al Primo Ministro dal Director of Legislative Affairs, Nikki Da Costa, in cui si raccomandava di porre fine alla sessione parlamentare in corso, non solo per l’eccessiva durata della stessa, ma anche per consentire l’avvio di una sessione impostata sul programma della nuova amministrazione Johnson. Si proponeva di stabilire una prorogation tra il 9-12 settembre e il 14 ottobre che avrebbe interrotto così i lavori parlamentari per un periodo di 34 giorni, un tempo inusuale per l’istituto in parola. Nel Memorandum si giustificava la lunga durata della prorogation con il fatto che questa si sarebbe sovrapposta alla conference recess prevista ai Comuni 2) la risposta del Primo Ministro al Memorandum, scritta il giorno seguente, nella quale Johnson dichiarava che non vi era “nulla di scioccante” nella richiesta di prorogation 3) un secondo Memorandum di Da Costa del 23 agosto, in cui si organizzavano i preparativi per formalizzare la richiesta di prorogation.
Venendo alla prima delle questioni sollevate dai ricorrenti, la Corte ha messo in chiaro quattro punti: 1) la prorogation rientra tra le prerogative dell’esecutivo ed è un potere riconosciuto dal diritto comune ed esercitato dalla Corona che può agire motu proprio o su impulso (advice) del Primo Ministro 2) la Corte non può invischiarsi in “questioni politiche” ma ciò non impedisce alla Corte di decidere su questioni legali che emergono anche da controversie politiche. Anzi, la maggior parte delle questioni sottoposte alla Corte sono in qualche modo questioni politiche 3) non è escluso un ruolo della Corte nell’ambito dei rapporti tra il Parlamento e l’esecutivo e ciò per almeno due ragioni: la prima è che l’effetto immediato della prorogation è quello di “disinnescare” la responsabilità dei ministri; la seconda è che le corti hanno il compito di dare effettività alle leggi, indipendentemente dal principio di responsabilità parlamentare. In altre parole, il fatto che un ministro sia “politicamente responsabile” dinanzi al Parlamento non esime quest’ultimo dalla responsabilità “legale” 4) se il caso può essere considerato giustiziabile, la decisione che ne conseguirà, non potrà invalidare il principio della separazione dei poteri, ma piuttosto lo renderà effettivo, proprio perché stabilendo ad esempio l’illegittimità dello advice, la Corte ripristinerebbe le funzioni costituzionali del Parlamento altrimenti impedite dall’esecutivo.
La questione della giustiziabilità pone due ordini di problemi: capire da un lato se esista la prerogativa e quali siano i suoi limiti; dall’altro, capire se l’esercizio di tale prerogativa possa essere giudicato sul piano legale. La Corte ritiene che l’esistenza della prerogativa non sia messa in dubbio. In merito alla seconda problematica, la risposta dipende essenzialmente dalla natura delle questioni legali connesse all’esercizio di tale potere. Pertanto tale questione si lega alla seconda delle questioni avanzate dei rimettenti, relativa agli standard sulla base dei quali deve essere giudicata la legittimità dello advice.
La Corte mette in rilievo che poiché la prerogativa della prorogation non è formalizzata in un atto normativo, è ben difficile determinarne i limiti. Ma poiché la prerogativa è un potere riconosciuto dal diritto comune, essa deve essere compatibile con i principi di legge. Incidendo però su rapporti tra organi costituzionali fondamentali, la prerogativa si inserisce nell’alveo costituzionale ed è pertanto dai principi fondamentali del diritto costituzionale che si possono ricavare i limiti di tale potere.
Nel caso de quo rilevano in particolare due principi di diritto costituzionale, ovvero il principio della sovranità parlamentare e quello della responsabilità dell’esecutivo dinanzi al Parlamento. Nel considerando n. 42, la Corte ritiene che un uso illimitato della prorogation sarebbe incompatibile con il principio della sovranità parlamentare, poiché impedirebbe al Parlamento di esercitare le proprie funzioni costituzionali. La Corte rileva inoltre che il fatto che l’esecutivo in fase di prorogation sia limitato nel suo potere di spesa, non costituisce una valida rassicurazione contro l’uso illimitato della prerogativa in parola. Normalmente, il periodo della prorogation è molto limitato, perciò la sua incidenza sulla capacità del Parlamento di esercitare i propri poteri è ritenuto irrilevante. Lo stesso ragionamento è seguito anche nei confronti del principio costituzionale della responsabilità parlamentare: una prorogation di corta durata sarebbe infatti irrilevante nei confronti di tale principio. Certo è che più lunga è la durata della prorogation, più lungo è il rischio che il governo venga rimpiazzato da un’amministrazione “irresponsabile”. Quando allora si può ritenere che la prorogation attenti ai due principi costituzionali succitati?
Nel considerando n. 50, la Corte ha ritenuto di individuare tale “punto di rottura” nello scrutinio della “giustificazione ragionevole”, stabilendo che una prorogation sarà illegale se avrà l’effetto di prevenire, senza una giustificazione ragionevole, la capacità del Parlamento a svolgere le sue funzioni costituzionali, sia come legislatore che come supervisore dell’esecutivo. La questione dell’individuazione della giustificazione ragionevole diviene pertanto una “questione di fatto” più che di diritto, poiché è nei fatti che dovrà essere valutata la ragionevolezza della giustificazione posta alla base del ricorso alla prerogativa in questione.
Poste tale basi, pertanto, la Corte conclude non solo che la questione sollevata è giustiziabile ma anche che lo advice di Johnson è illegittimo. La Corte non ritiene che la lunga durata della prorogation sia di per sé fattore giustificabile per decretarne l’illegittimità. Una lunga durata sarebbe anzi accettabile in condizioni politiche normali. Ma la Corte sottolinea che la decisione della prorogation è stata presa in un contesto politico “quite exceptional”, ovvero nel corso di una fase di transizione fondamentale che prevede l’uscita del Paese dall’UE il 31 ottobre 2019. Si tratta dunque di una fase politica in cui il Parlamento ha un ruolo fondamentale nelle decisioni da prendere, posto che il referendum sulla Brexit di per sé non è “binding” per il Legisaltore. Sulla questione dell’esistenza di una giustificazione ragionevole tale da rendere legittima la prorogation di Johnson, la Corte risponde che il governo ha certamente una certa discrezionalità nell’esercizio di tale potere, ma tuttavia non si rileva alcun motivo per cui il Primo Ministro abbia deciso di agire in tal guisa. In nessuno dei documenti citati dalla Corte vi è una sola ragione che giustifichi il ricorso alla medesima prorogation. Tutto è focalizzato sulla necessità di procedere con un nuovo discorso della Regina il 14 di ottobre ma alla domanda “perché una prorogation di 5 settimane?” non è possibile ricavare alcuna risposta. Per la Corte, è come se l’esecutivo fosse entrato in Parlamento con un “foglio bianco” che in quanto tale non può avere alcun effetto dal punto di vista legale.
Due considerazioni finali: da un lato, la Corte ha rimesso ancora una volta la Chiesa al centro del villaggio, ovvero ha posto nuovamente la centralità del Parlamento nel sistema costituzionale britannico, ponendo un vero e proprio usbergo contro la ormai ultradecennale traslazione del centro del potere a favore dell’esecutivo, ribadendo dunque l’essenza della democrazia parlamentare, la quale non può che basarsi sul principio della sovranità parlamentare. Dall’altro, la Corte ha messo in rilievo che il caso analizzato è un caso una tantum (“a one off”) ma anche a dispetto dell’unicità del caso, “l’ordinamento britannico è pronto a queste sfide e assicura ai giudici gli strumenti legali per giungere a una soluzione”. Questa flessibilità della Costituzione britannica può essere vista invece come la vera forza del sistema britannico, in grado di poter fornire risposte certe e funzionali senza la camicia di forza di disposizioni normative fisse nel tempo e incapaci di far fronte alle sfide poste nel tempo della costituzione materiale.


La Catalogna tra secessione e Costituzione

La questione ‘che cos’è un popolo?’ ha messo a dura prova studiosi di ogni genere. Giuristi, filosofi, sociologi, antropologi, storici ed altri ancora hanno cercato, infruttuosamente, di dare sostanza ad un concetto, quello di ‘popolo’, fin troppo fumoso. Comunque la si voglia affrontare, quella del popolo rimane una questione magmatica e tuttora in grado di scaldare gli animi dentro e fuori gli ambienti accademici. Sul piano politico-giuridico, la questione del ‘popolo’ e dei suoi diritti è riemersa con veemenza negli ultimi anni in ambito europeo in relazione alla crescita di movimenti secessionisti che hanno scosso le fondamenta di alcuni ordinamenti nazionali, su tutti il Belgio, il Regno Unito e la Spagna. La questione indipendentista ha costretto ad un ripensamento della forma di Stato di quei Paesi ed ha portato in alcuni casi alla definizione di nuove forme di regionalismo pensate ad hoc. Per capire meglio la connessione tra popoli, regionalismo e secessionismo è necessario premettere brevemente in che modo la categoria ‘popolo’ viene intesa dal punto di vista giuridico. Il popolo assume rilevanza sia sul piano costituzionale che su quello internazionale. Nel primo caso con esso si individua il soggetto che, negli ordinamenti democratici, riveste la sovranità. Per il diritto internazionale, invece, i popoli sono destinatari principalmente di quello che la Carta ONU ha definito come il ‘diritto all’auto-decisione’, che richiama a sua volta la self-determination di wilsoniana memoria. Tale principio consisterebbe nel diritto di ciascun popolo di poter scegliere liberamente il regime politico al quale sottoporsi. La scelta del regime è intesa pertanto sia in senso ‘interno’ sia in senso ‘esterno’, ovvero sia in relazione alle forme del regime che si vuole porre in essere, sia in relazione al Sovrano cui si intende sottostare. Nella prassi ONU il principio di autodeterminazione si è rivolto primariamente ai popoli coloniali, affermandosi pertanto nella sua accezione ‘esterna’, ovvero quale diritto di un popolo sottomesso da una potenza straniera di liberarsi da quel giogo e di definire un ordinamento indipendente dalla Madrepatria. L’autodeterminazione dei popoli ha finito così per costituire la base del processo di decolonizzazione, concretizzandosi nella definizione di nuove entità statuali e contribuendo alla costituzione di uno ‘State-oriented international system’ (Pavkovič & Radan). Ciò non è bastato a stabilire sul piano giuridico una diretta consequenzialità tra principio di autodeterminazione e statualità, posta l’incompatibilità del primo con il principio dell’integrità territoriale degli Stati (Tancredi). In altre parole, il riconoscimento del principio dell’autodeterminazione non ha comportato un riconoscimento, a livello internazionale, di un ‘diritto alla secessione’. Per il diritto internazionale i popoli non sottoposti a condizioni di ‘dipendenza’ assimilabili a quelle proprie dei popoli coloniali non avrebbero il diritto di rompere l’unità dello Stato di cui fanno parte in nome del principio di autodeterminazione, se non in forza di un diritto alla secessione riconosciuto dallo Stato stesso.

È in tale quadro che si inseriscono le questioni secessioniste europee di cui si è accennato ed è in tale quadro che va affrontata in particolare la questione del referendum sull’indipendenza della Catalogna previsto per il primo ottobre 2017 (1-O). La proposta di referendum, che rappresenta l’ennesimo tentativo in tal senso della Generalitat de Catalunya dopo il fallimento della proposta del 2014, è stata votata dal Parlamento catalano il 6 settembre u.s. Il quesito del referendum è stato formulato nel seguente modo: ‘Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di repubblica?’ e ad esso si potrà (ma il condizionale è d’obbligo) rispondere con un Sì o con un No. Secondo i sostenitori del referendum l’esito dello stesso dovrebbe avere carattere ‘vincolante’ poiché lo stesso è ‘sostenuto a larga maggioranza politica e sociale dal popolo della Catalogna’. La nuova proposta di consultazione referendaria, voluta fortemente dal Presidente della Generalitat, Carles Puigdemont, ha scosso nuovamente in profondità l’ordinamento spagnolo, già provato dall’attentato terroristico del 17 agosto u.s. a Barcellona. Il governo centrale, dopo aver tentato inutilmente di bloccare dapprima il processo costituente avviato dalle autorità catalane nel 2015, ha risposto all’ennesimo tentativo indipendentista con la forza, inviando agenti della Guardia Civil nella Generalitat catalana ed arrestando 14 tra funzionari ed esponenti del governo catalano.

Questo braccio di ferro rappresenta forse l’apice di una contrapposizione tra Madrid e Barcellona che va ben al di là dei tentativi referendari catalani avanzati negli ultimi anni. La storia costituzionale spagnola moderna può essere vista invero come l’attuazione continuativa di due processi strettamente integrati tra di loro, ovvero quello di democratizzazione e quello di regionalizzazione. Il costituente spagnolo del 1978 aveva dovuto affrontare infatti una duplice necessità: evitare l’implosione dello Stato dopo la caduta del regime franchista e ripristinare al contempo gli spazi di autonomia già riconosciuti nel corso della Seconda Repubblica. La Catalogna aveva goduto di uno Statuto di Autonomia fin dal 1932 ma l’avvento del regime franchista eliminò ogni forma di autonomismo (Ysàs). Dopo la morte del Caudillo, avvenuta il 20 novembre 1975, il ripristino del sistema democratico sarebbe avvenuto congiuntamente al ripristino del sistema delle autonomie, anche per stabilire una cesura con il centralismo del regime. Il processo di transizione verso la democrazia, avviato formalmente con la Ley para la Reforma política del 1976, si concluse con il referendum di ratifica della nuova Costituzione spagnola (CE) nel dicembre 1978. L’art. 2 CE racchiude in sé le basi del compromesso raggiunto tra le forze di sinistra (c.d. Platajunta) promotrici del ripristino delle autonomie, e le forze governative di destra, maggiormente preoccupate di mantenere l’unità nazionale. L’art. 2 CE riconosce infatti, accanto al principio di ‘indissolubile unità della Nazione spagnola’, anche il ‘diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono’. Il Titolo VIII (artt. 137-158) della CE introduce differenti procedure per la costituzione delle Comunità autonome (CC.AA.) e per l’adozione dei relativi Statuti, stabilendo così un sistema di tipo asimmetrico. Tale asimmetria si è concretizzata in un primo momento anche mediante il riconoscimento di una ‘specialità’ per alcune nazionalità storicamente consolidate. La Seconda Disposizione Transitoria della CE stabilisce infatti che per quei territori che in passato avevano sottoposto a referendum, con risultato affermativo, progetti di Statuto di autonomia vi sia la possibilità di elaborare i rispettivi Statuti di autonomia in conformità al dettato dell’art. 151 CE. Quest’ultimo prevede la c.d. via veloce dell’autonomismo, la quale consente di accedere direttamente a tutte le materie non espressamente riservate allo Stato oltre a quelle elencate all’art. 148 CE (Viver Pi-Sunyer). Catalogna, Paesi Baschi, Galizia e Andalusia hanno avuto così immediatamente accesso ad un insieme di competenze ben più ampio rispetto alle altre CC.AA., anche se la CE ha previsto comunque che le CC.AA. istituite secondo la via lenta, passati cinque anni dalla loro costituzione, avrebbero avuto comunque accesso all’intero comparto residuale. La differenziazione temporale per l’accesso alle competenze non ha impedito così un progressivo livellamento tra le varie CC.AA., livellamento realizzato mediante una serie di riforme degli Statuti introdotte tra il 1983 ed il 1992. Ciò ha visto sminuire il carattere di ‘specialità’ rivendicato soprattutto dalla comunità catalana e da quella basca sulla base dei cc.dd. hechos diferenciales ed è in tale prospettiva che si è inserito il processo di riforma dello Statuto catalano del 2006.

Lo Statuto del 2006 è stato oggetto di una lunga battaglia legale tra Madrid e Barcellona dinanzi al Tribunale Costituzionale (TC). Il TC ha provveduto, con la sentenza n. 31 del 28 giugno 2010, ad uno svuotamento degli obiettivi prefissati dal legislatore statutario catalano, ridimensionando inoltre il Preambolo dello Statuto che aveva riconosciuto del carattere di ‘nazione’ per la Catalogna (Andretto). Il TC ha ribadito che nello Stato spagnolo non si ammette che una sola ‘Nazione’ in senso costituzionale e che la Catalogna costituisce soggetto di diritto istituito in conformità con la CE e non è destinataria di poteri ‘sovrani’. Particolarmente incidente è stata poi l’interpretazione costituzionalmente orientata offerta dal TC in riferimento alle competenze esclusive della Comunità catalana in materia di referendum. Il TC ha stabilito infatti che la materia del referendum è oggetto di specifica riserva statale in relazione alla sua istituzione, alla sua regolamentazione e alla sua convocazione.

Quattro anni più tardi da quella sentenza, un TC completamente rinnovato nei membri sarebbe tornato proprio sulla questione sovranista e referendaria, definendo però un nuovo approccio giurisprudenziale nell’ambito del c.d. ‘derecho a decidir’. Il 23 gennaio 2013, in seguito al fallimento del negoziato avviato col Governo Rajoy sull’adozione del c.d. ‘Pacto fiscal’, il Parlamento catalano aveva approvato la Risoluzione 5/X, ovvero la ‘Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña’, in base alla quale si stabiliva di dare effettività all’esercizio del ‘diritto a decidere’ per i catalani sul proprio futuro politico in accordo coi principi di legittimità democratica, trasparenza, dialogo, coesione sociale, europeismo, legalità e partecipazione. Il governo centrale impugnò la Risoluzione 5/X dinanzi al TC sulla base del disposto dall’art. 161, c. 2 CE. Tale impugnazione aveva sollevato però a sua volta una serie di questioni, la prima delle quali, preliminare ad ogni altra, relativa all’ammissibilità del ricorso. Il TC aveva da sempre stabilito che l’impugnazione era ammissibile solo se le Risoluzioni adottate dagli organi autonomici avessero rispettato il carattere perfetto o definitivo (anziché endo-procedimentale) dell’atto e l’idoneità della risoluzione stessa a produrre effetti giuridici (Ibrido). Nonostante il Parlamento catalano avesse richiesto l’inammissibilità del ricorso poiché, a parere di quest’ultimo, la Risoluzione non era produttiva di ‘effetti giuridici’, il TC ha optato per la decisione opposta. Il TC si è pronunciato nel senso in cui il ‘carattere assertivo della Risoluzione impugnata, che stabilisce l’avvio del processo per rendere effettivo l’esercizio del diritto di decidere non consente di ritenere limitati i suoi effetti sul terreno strettamente politico, in quanto richiede il compimento di un’attuazione concreta suscettibile di un controllo parlamentare previsto per le risoluzioni approvate dal Parlamento catalano’. L’effetto giuridico della Risoluzione starebbe pertanto nella possibilità di ritenere la stessa come attributiva di competenze inerenti a sovranità superiori a quella da cui deriva l’autonomia della Generalitat. La Risoluzione implica poi un effetto giuridico anche nel senso in cui abiliterebbe il Parlamento catalano ad attivare una ‘funzione di controllo’. Una volta stabilita l’ammissibilità del ricorso, il TC è andato nel merito della Risoluzione, valutandone in particolare l’art. 1 e la sua clausola finale. Secondo l’art. 1 della Risoluzione 5/X, ‘il popolo della Catalogna ha, per ragioni di legittimità democratica, carattere di soggetto politico e giuridico sovrano’; nella clausola finale si stabiliva invece che ‘il Parlamento della Catalogna esorta tutti i cittadini e le cittadine ad essere protagonisti attivi nel processo democratico di esercizio del diritto a decidere del popolo della Catalogna’. Per quanto attiene l’art. 1, il TC si è pronunciato per l’incostituzionalità, ritenendolo in contrasto con gli artt. 1 c. 2 e 2 CE nonché con gli artt. 1 e 2, c. 4 dello Statuto di Autonomia della Catalogna. Diverso è stato l’approccio del TC sulla clausola finale. Il TC ha cercato di dare un’interpretazione conforme al ‘derecho a decidir’, stabilendo che tale diritto non può autorizzare la convocazione di un referendum sull’indipendenza della Catalogna. Il diritto a decidere del popolo catalano non si inserisce infatti nell’alveo della ‘sovranità del popolo catalano’ ma si lega invece ai principi di legittimità democratica, di pluralismo e di legalità. La conformità a Costituzione del diritto a decidere starebbe allora nella facoltà del Parlamento catalano di presentare alle Cortes un progetto di revisione costituzionale che abbia ad oggetto proprio la convocazione di un referendum sulla indipendenza. Non solo: riprendendo il paradigma canadese del ‘giusto negoziato’, il TC spagnolo ha stabilito che nel caso in cui le istituzioni catalane intendano richiedere alle Cortes l’avvio di un processo di riforma costituzionale che conduca alla convocazione di un referendum sull’indipendenza della Catalogna, queste ultime sono obbligate a considerare tale proposta. In tal senso, il TC ha immesso il c.d. ‘derecho a decidir’ nell’alveo della ‘revisione costituzionale’, optando per una visione proceduralizzata del processo di autodeterminazione.

Nonostante la sentenza del TC, il Parlamento catalano ha preferito evitare la via ‘costituzionale’ e cinque mesi dopo la sentenza ha adottato la legge n. 10/2014 sulle ‘Consultazioni popolari non referendarie e altre forme di partecipazione cittadina’. La legge configurava una forma di consultazione popolare ‘non referendaria’ che ha aperto un dibattito in merito al significato di ‘referendum consultivo’. Secondo il Consiglio di garanzia statutaria catalano, l’istituto del referendum consultivo non poteva essere assimilato a quello del referendum ex art. 23 CE, in primo luogo perché non faceva riferimento al ‘corpo elettorale’ ma bensì ad un insieme della cittadinanza più esteso che includeva i maggiori di 16 anni e i cittadini dell’Unione Europea o di Stati terzi che avessero risieduto in modo legale e continuativo in Catalogna per almeno tre anni e che risultassero iscritti nel registro della popolazione catalana. Sul piano sostanziale il Consiglio di Garanzia aveva poi sottolineato che ‘non esistono temi che sono vietati all’opinione dei cittadini’ e che ‘la Generalitat può decidere di conoscere l’opinione cittadina su di un tema, come premessa o come supporto alle iniziative che competono alle istituzioni catalane’. Tuttavia, la Legge è stata impugnata in tempi rapidissimi dinanzi al TC che si è pronunciato per la sospensione di efficacia della norma. Ciò non ha impedito tuttavia l’attivazione di una ‘votazione spontanea’ tenutasi il 9 novembre 2014. La consultazione, priva di efficacia, è stata gestita da volontari ed ha visto una maggioranza schiacciante dei partecipanti votare a favore dell’indipendenza. L’invalidità della consultazione non ha impedito comunque l’avvio di un nuovo processo indipendentista a partire dalle nuove elezioni catalane del 2015.

Il 27 ottobre 2015, ovvero il giorno dopo le elezioni parlamentari catalane o ‘plebiscitarie’ che dir si voglia (Ferraiuolo), i gruppi parlamentari di Junts pel Sí e CUP hanno avanzato in Parlamento una proposta di risoluzione per l’instaurazione di un processo per la creazione di uno Stato catalano (c.d. Declaración de ruptura del 9-N). Tale Risoluzione è stata poi approvata il 9 novembre ma il 2 dicembre il TC si è pronunciato per l’incostituzionalità. Il 28 gennaio 2016, il Parlamento catalano ha dato vita invece alla ‘Commissione di studio del processo costituente’ la quale ha terminato i propri lavori nel mese di luglio. La Commissione ha stabilito undici punti nei quali si riconosce tra l’altro il ‘diritto a decidere’ del popolo catalano e la legittimità per il popolo catalano dell’avvio di un processo costituente ‘proprio, democratico, cittadino, trasversale, partecipativo e vincolante’.

Il 19 luglio 2016, ovvero il giorno dopo l’approvazione delle conclusioni della Commissione, il TC ha richiesto però al Parlamento catalano di dichiarare ‘inammissibile’ il lavoro della Commissione, poste le similitudini tra le conclusioni della Commissione e la Dichiarazione del 9-N. Tuttavia, il 6 ottobre 2016, il Parlamento catalano ha approvato una nuova Risoluzione nella quale si sollecitava il Governo catalano a celebrare un referendum ‘vincolante’ sull’indipendenza catalana entro il settembre 2017. Allo stesso modo il Governo è stato invitato a portare avanti il processo costituente approvato nel luglio dello stesso anno. Il 14 febbraio 2017 il TC ha però annullato nuovamente la Risoluzione adottata dal Parlamento catalano. Quest’ultimo ha continuato tuttavia nel suo intento indipendentista ed il 9 giugno 2017 ha ufficializzato la data per la celebrazione del referendum sull’indipendenza per la Catalogna, fissandola al 1° ottobre 2017 (1-O). Il 28 agosto la maggioranza indipendentista al Parlamento catalano ha presentato il progetto di legge denominato “Legge di transitorietà giuridica e fondazionale della Repubblica”, il cui obiettivo principale è quello di garantire la sicurezza giuridica e la successione ordinata tra le amministrazioni e la continuità dei servizi pubblici in quello che viene definito processo di transizione della Catalogna verso l’indipendenza e la costituzione di uno Stato catalano. La legge è stata approvata l’8 settembre con 72 voti a favore e 11 astensioni. Tale legge entrerebbe immediatamente in vigore in caso di vittoria del Sì al referendum del 1-O. Il 6 settembre 2017 i gruppi indipendentisti hanno invece approvato la c.d. ‘Legge sul referendum di autodeterminazione vincolante per l’indipendenza della Catalogna’, una legge che regolerebbe invece la celebrazione del suddetto referendum. La legge stabilisce che il popolo della Catalogna è un soggetto politico sovrano e come tale esercita il diritto a decidere liberamente e democraticamente la sua condizione politica e che il Parlamento della Catalogna è il rappresentante della sovranità del popolo catalano. Ad una settimana circa dal (possibile) voto, la tensione rimane dunque molto alta.

La reazione violenta di Madrid al nuovo processo indipendentista inscenato dai catalani dovrebbe far riflettere sulle condizioni di salute della democrazia spagnola. Vero è che lo Stato è il detentore del monopolio dell’uso della forza, ma è pur vero che le difficoltà dimostrate dal Governo nella gestione dei processi separatisti fanno emergere piuttosto una intrinseca debolezza dello Stato spagnolo, che pure avrebbe tutti gli strumenti costituzionali per poter procedere ad una soluzione pacificata della questione catalana o di qualsiasi altra questione indipendentista. Su un piano più ampio, questioni sull’ammissibilità della secessione e sui rischi di una eccessiva parcellizzazione degli ordinamenti giuridici dovrebbero essere affrontate in una chiave maggiormente moderna, trattandosi di questioni vecchie anche per giuristi di cent’anni fa. Bisognerebbe piuttosto ripensare i modelli organizzativi generali, convincendosi che lo Stato non può più permettersi di permanere nella condizione latente in cui ad oggi versa.


La nomina di Neil Gorsuch alla Corte Suprema USA e il nuovo ruolo del Senato

Il 7 aprile scorso, con un voto a maggioranza semplice al Senato, Neil Gorsuch è stato confermato come nuovo giudice alla Corte Suprema statunitense. Gorsuch ha preso il posto di Antonin Scalia, venuto a mancare nel febbraio del 2016, in piena campagna elettorale presidenziale. Scalia era uno dei massimi esponenti della dottrina dell’interpretazione “originalista” della Costituzione e costituiva uno dei baluardi conservatori in seno all’Alta Corte. La judicial philosophy di Gorsuch non si allontana molto da quella di Scalia, del quale riprende l’approccio testualista, ovvero fedele ai canoni costituzionali come interpretabili in base alle volontà stabilite sulla Carta dai Framers. Il nuovo giudice supremo sembra poter dunque mantenere gli equilibri “ideologici” interni alla Corte, sinora divisa equamente tra corrente “progressista” e corrente “conservatrice”.
La nomina di Gorsuch e la sua successiva conferma al Senato è stata però il risultato di un lungo braccio di ferro tra i Senatori repubblicani e la controparte democratica. La morte di Scalia è avvenuta infatti nel pieno della Presidenza Obama, ad un anno circa dalle nuove elezioni presidenziali, tenutesi l’8 novembre 2016. I Repubblicani in Senato si erano però battuti sin da subito affinché venisse nominato uno justice conservatore che “rimpiazzasse il voto” di Scalia, opponendosi così in maniera preventiva ad ogni possibile soluzione da parte del Presidente Obama.
Il leader del GOP al Senato, Mitch McConnell del Kentucky, aveva giustificato la propria riluttanza nel considerare ogni possibile nomina da parte di Obama con il fatto che il Presidente si trovasse ormai “a fine mandato” e che pertanto non avrebbe potuto prendere una decisione così rilevante, tenendo conto soprattutto del fatto che i giudici supremi godono di un mandato a vita. L’argomentazione di McConnell era del tutto inaccettabile sul piano costituzionale, posto che il Presidente può esercitare “pienamente” i suoi poteri dal momento del giuramento sino al termine del suo mandato, senza interruzioni di sorta, né dal punto di vista temporale, né dal punto di vista sostanziale. Il Partito Repubblicano aveva così inasprito le tensioni con i Democratici, già di fatto alterate dal processo di polarizzazione in atto nel sistema politico statunitense, nonostante Obama avesse compiuto un passo in avanti sulla strada del compromesso, nominando quale nuovo justice Merrick Garland, giudice “moderato” che non avrebbe indebolito oltremodo la componente conservatrice. I Senatori repubblicani si erano rifiutati di procedere addirittura con gli “hearings” (audizioni) preliminari alla votazione, inscenando una vera e propria tattica ostruzionistica ben al di là del perimetro definito dallo stesso Regolamento del Senato.
La tattica ostruzionistica dei Repubblicani ha pagato nel lungo termine, grazie alla vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali e grazie soprattutto al fatto che i Repubblicani hanno mantenuto anche la maggioranza in Senato. Il GOP gode, nella presente Legislatura, di 52 seggi al Senato, anche se tale maggioranza, prima della conferma di Gorsuch, non era sufficiente per poter confermare le nomine dei giudici supremi, per i quali era necessario invece raccogliere almeno 60 voti, al fine di superare un eventuale ostruzionismo da parte della minoranza.
I Repubblicani in Senato hanno sopperito alla mancanza di quella supermaggioranza, adoperando una procedura “straordinaria”, la cosiddetta “opzione nucleare” o, per i suoi sostenitori, “constitutional option” che ha di fatto ha modificato le regole del Senato senza porre in essere una revisione sostanziale dello stesso Regolamento del Senato (Standing Rules). Il par. 1(a) della Rule XIX del Regolamento del Senato non prevede limiti temporali per i dibattiti, iscrivendo pertanto per i Senatori un “right to debate” pressoché assoluto. Questo consente di fatto la cosiddetta pratica del filibustering, ovvero dell’ostruzionismo, pratica alla quale si può soprassedere con la cosiddetta “cloture motion” la cui invocazione è disciplinata dalla Rule XXII del Regolamento del Senato. Questa prevede, ai paragrafi 2 e 3, che un Senatore possa presentare per l’appunto una mozione di chiusura, firmata da almeno 16 Senatori, con la quale si pone fine ad un dibattito su una data proposta di legge o su ogni altra questione pendente al Senato, come ad esempio la conferma delle nomine presidenziali. Passato il tempo necessario dopo la sua presentazione, la cloture motion viene dunque sottoposta a votazione. La Rule XXII prevede che siano necessari i due terzi dei Senatori per approvare una cloture motion per una misura che comporti una modifica del Regolamento del Senato, mentre per tutte le altre deliberazioni è previsto un quorum più basso, ovvero dei tre quinti (60 Senatori).
Il Senato a maggioranza repubblicana ha scavalcato di fatto questa procedura tramite il sistema della “nuclear option”. Ogni Senatore ha infatti il potere di invocare, tramite point of order, il rispetto di una determinata Rule o di una determinata procedura, dinanzi al Presiding Officer del Senato. Questi decide tramite ruling, potendo creare, nel caso, un nuovo “precedente”, nel caso in cui venga data un’interpretazione della norma invocata, che differisca dalla prassi o dalle Regole in vigore sino ad allora. Al ruling del Presiding Officer si può ricorrere attraverso “appeal”, ma in quel caso si procede con una votazione a maggioranza semplice. In altre parole, il Senato può, a maggioranza semplice, creare dei “precedenti” che di fatto modificano le stesse procedure parlamentari, spesso contravvenendo alle norme poste in essere dal Regolamento del Senato, il quale, come visto, richiede invece una maggioranza qualificata per le revisioni dello stesso.
I Repubblicani in Senato hanno dunque modificato, con un nuovo precedente, la Rule XXII, senza però modificare la stessa, prevedendo la possibilità di poter scavalcare a maggioranza semplice (e non dei tre quinti, come previsto dalla Rule XXII) il filibustering sulle nomine dei giudici supremi. Va detto che nel 2013, anche i Democratici si avvalsero della nuclear option, eliminando di fatto la supermaggioranza per tutte le altre nomine presidenziali.
Con il nuovo precedente stabilito dai Repubblicani, la cloture motion ora è divenuta applicabile pertanto solo per la legislazione e non anche per le nomine presidenziali, ivi comprese le nomine dei giudici supremi. In questo modo, le pratiche di filibustering sono state svuotate, lasciando la possibilità alla minoranza in Senato di potersi opporre a scelte unilaterali della maggioranza solo per le misure legislative. Questo stato di cose altera naturalmente i rapporti tra Senato e Presidente a favore di quest’ultimo. Il Presidente degli Stati Uniti ha ora la possibilità di nominare i giudici supremi senza dover tenere conto della minoranza in Senato, ovvero potendo contare solo su una maggioranza semplice, aumentando considerevolmente le possibilità di optare per una soluzione più “politicamente” mirata, in grado di ristabilire a favore della sua parte politica anche gli equilibri all’interno del massimo organo del potere giudiziario.
La polarizzazione in atto nel sistema politico statunitense lascia temere che la Corte Suprema potrebbe divenire ben presto estremamente “politicizzata”, mancando di fatto un contrappeso importante, com’era quello dato dalla supermaggioranza prima richiesta per la conferma dei giudici supremi. Sino alla nomina di Neil Gorsuch, vi era sempre stato un “equilibrio tra poteri” dettato per l’appunto dalle contrapposizioni esistenti in ambito congressuale ed erano gli stessi partiti ad impedire al Presidente, con un esemplare gioco di contrappesi, la possibilità di operare scelte “radicali”.
La nuclear option ha rimesso in gioco la stessa funzionalità del Senato, posti i timori avanzati da alcuni Senatori Democratici circa la possibilità che i Repubblicani possano rimuovere ben presto anche la supermaggioranza richiesta per oltrepassare il filibustering sulle misure legislative (pratica, quella del filibustering, che i repubblicani hanno utilizzato in maniera continuativa tra il 2007 ed il 2014, allorquando in minoranza al Senato).
I Repubblicani si trovano così dinanzi ad un bivio: il ricorso alla nuclear option sulla legislazione, seppure scongiurato dallo stesso McConnell, potrebbe avere degli effetti positivi nel breve termine, posto che il Partito Repubblicano con molta probabilità manterrà a lungo la maggioranza in Senato. Il rischio è però quello di consegnare la medesima “arma” ai Democratici, una volta che questi ultimi riotterranno la maggioranza nella Camera Alta. In un altro senso, infine, il ricorso alla nuclear option per la legislazione apparirebbe del tutto paradossale per un Partito che difende lo spirito “originalista” della Costituzione: il Senato fu creato appunto come “camera di raffreddamento” che rendesse più difficile per una “ristretta maggioranza” la possibilità di imporre la propria volontà all’intera assemblea. Con una nuova modifica delle procedure al Senato, sul piano della produzione legislativa, il volto della stessa Assemblea cambierebbe radicalmente, e verrebbe a mancare proprio quell’equilibrio (o vero e proprio contrappeso) stabilito dagli stessi Padri Costituenti.


Verso un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia?

Per la seconda volta nel giro di appena un lustro, il popolo scozzese potrebbe essere chiamato alle urne per decidere nuovamente del proprio destino politico. Il 13 marzo 2017, la leader dello Scottish National Party, Nicola Sturgeon, ha annunciato infatti che richiederà al Parlamento di Holyrood – dove i nazionalisti scozzesi godono di una maggioranza relativa di 63 seggi sui 129 totali – l’autorizzazione per procedere ad un negoziato con il Governo britannico mediante il quale stabilire i dettagli di un “30 Section Order”, ovvero di avviare la procedura con la quale autorizzare il Parlamento scozzese, tramite lo strumento dello Order in Council, a legiferare in materia di referendum. L’intenzione della First Minister di Scozia è quella di indire, entro i prossimi due anni, una consultazione popolare per decidere sull’indipendenza della Scozia dal Regno Unito. Si tratterebbe, ancora una volta, di un referendum “consultivo”, posto il principio della sovranità parlamentare, la quale permane comunque in capo a Westminster (Caravale). Lo stesso principio della sovranità parlamentare è stato d’altro canto riaffermato con forza dalla Supreme Court britannica, che con la sentenza del 24 gennaio scorso sulle modalità di attivazione delle procedure ex art. 50 TUE, ha di fatto “respinto la teoria della sovranità popolare non mediata dagli organi rappresentativi” (Lanchester).

Tuttavia, Sturgeon ha aggiunto che l’attivazione del negoziato col Governo di Londra, che riaprirebbe il processo indipendentista scozzese conclusosi sfavorevolmente con la vittoria del “No” al referendum del 18 ottobre 2014, è subordinato alla eventuale possibilità che il Primo Ministro britannico Theresa May offra concessioni dell’ultimo minuto ai desiderata scozzesi nell’ambito del delicato processo di fuoriuscita del Regno Unito dell’Unione Europea. L’annuncio della First Minister di Scozia è stato dato infatti dopo l’ennesimo rifiuto della May di considerare la possibilità per la Scozia di procedere con uno “special deal” con l’Unione Europea nell’ambito della Brexit (Carrell).

Già immediatamente dopo il referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea dello scorso 23 giugno, la stessa Sturgeon aveva annunciato la possibilità di indire un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese, proprio al fine di mantenere la Scozia all’interno dell’Unione Europea. Nella Consultation on a Draft Referendum Bill di ottobre, Sturgeon aveva poi sostenuto che “the Scottish Parliament should have the right to hold an independence referendum […] if there was a significant and material change in the circumstances that prevailed in 2014, such as Scotland being taken out of the EU against our will”. Il risultato referendario del 23 giugno vedeva infatti in territorio scozzese il 62% dei voti favorevoli al “Remain”.

La vittoria del “Leave” ha dunque rivitalizzato le istanze indipendentiste dello SNP e, paradossalmente, è proprio in ambito euro-unitario che l’indipendenza scozzese potrebbe trovare nuovo terreno fertile, quantomeno sul piano politico, sebbene dal punto di vista giuridico manchino le premesse per poter sperare in un mantenimento della Scozia nell’UE nell’ambito dei negoziati per la Brexit.

Gli indipendentisti scozzesi avevano invero sempre sostenuto di voler mantenere la Scozia all’interno dell’Unione Europea, come è possibile rilevare chiaramente dai numerosi white paper confezionati dal Governo scozzese di Alex Salmond nel periodo pre-referendum 2014, intitolati “Choosing Scotland's Future: A National Conversation: Independence and Responsibility in the Modern World” ed “Your Scotland, Your Voice: A National Conversation”, e pubblicati rispettivamente nel 2007 e nel 2009. Tuttavia, nella fase pre-referendaria del 2014, secondo l’allora Presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, la Scozia non avrebbe potuto accedere direttamente all’Unione Europea come nuovo Membro in caso di secessione dal Regno Unito, ma avrebbe dovuto seguire l'iter definito nell'art. 49 TUE. Nelle parole di Barroso si poteva ravvisare una certa ostilità all’ipotesi di una secessione scozzese, non solo per l’incertezza che un evento di tale portata implicava sul piano politico e soprattutto sul piano economico, ma anche per una sorta di incompatibilità dell’istituto della secessione con lo stesso processo di integrazione.

Alcuni studiosi (Tierney) avevano sottolineato poi che non esisteva alcun precedente in materia di secessione di una porzione di uno Stato Membro dell’Unione Europea (le eccezioni di Groenlandia e Algeria non erano paragonabili al caso scozzese, posto che la Scozia intendeva rimanere nell’UE) e che molto difficilmente si poteva procedere con un accesso “diretto” della Scozia all’UE in caso di vittoria del “” al referendum del 2014. In particolare, Tierney aveva messo in luce che la separazione della Scozia avrebbe implicato una serie di questioni maggiormente attinenti “all’adesione” anziché alla “successione di Stati”, ed in particolare: “on what terms would Scotland find itself a member of the EU? Would it be required to adopt the euro or not? Would it ‘succeed’ with or without existing UK Treaty opt-outs? How many seats in the European parliament would it have, how many votes in the Council, etc.?” (Tierney, 385).

Le considerazioni di Tierney, che rifiutava l’ipotesi di una “dual succession”, partivano però dal presupposto che la Scozia si sarebbe separata da un Regno Unito che manteneva comunque lo status di Membro dell’UE. David Edward ha invece sottolineato che in base allo “spirito dei trattati”, si può ragionevolmente ritenere che se l’art. 50 TUE impone che in caso di “withdrawal” le parti interessate debbano procedere attraverso un negoziato preventivo, allo stesso modo si dovrebbe procedere anche in caso di “separation”. Secondo Edward, un negoziato preventivo, precedente alla separazione della Scozia dal resto del Regno Unito, non avrebbe potuto evitare un periodo di “limbo” per la Scozia in riferimento alle sue relazioni con l’UE, ma avrebbe comunque eluso le complicazioni di una “dual succession”, ripiegando su una revisione dei Trattati esistenti (Edward).

Tuttavia, nell’ambito della Brexit, è difficile ritenere che la permanenza scozzese nell’UE passi attraverso lo schema dei negoziati preventivi individuata da Edward, posto che il destino della Scozia è legato a doppio filo a quello del Regno Unito. In caso di successo della Brexit, per essere riammessa appieno nell’UE la Scozia dovrebbe infatti accedere prima all’indipendenza dal Regno Unito e poi procedere all’adesione secondo le procedure dell’art. 49 TUE. Il comma 2 dell’art. 50 TUE lascia aperta alle parti la definizione delle modalità di recesso, recitando appunto che “Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l'Unione negozia e conclude con [lo Stato che intende recedere] un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l'Unione”. Tuttavia appare irrealistico, sia dal punto di vista politico che dal punto di vista giuridico, un accordo tra Regno Unito e UE che preveda il mantenimento della sola Scozia nell’UE, poiché questo implicherebbe per il Regno Unito il riconoscimento del diritto euro-unitario in una porzione del proprio territorio, ipotesi dunque in contraddizione con la ratio del recesso.

La stessa Supreme Court, nella sentenza poc’anzi citata, ha messo in evidenza che le relazioni tra Regno Unito ed Unione Europea permangono in capo al Parlamento di Westminster e non anche alle assemblee devolute che non hanno in materia di politica estera un potere paritario con quello di Londra. Le autorità scozzesi sembrano dunque non avere voce in capitolo nel processo della Brexit neanche dal punto di vista del diritto interno e ciò non potrebbe essere altrimenti, data la natura della devolution (Bogdanor).

La Supreme Court non esclude tuttavia la possibilità che si possa procedere per via politica, in base ai principi che ispirano la Sewel Convention, ovvero quella convenzione costituzionale che implicherebbe l’assenso delle assemblee devolute per autorizzare il Parlamento di Londra a legiferare su materie oggetto di devoluzione. In altre parole, “la Corte afferma la mancanza in capo al Parlamento scozzese […] di un diritto di veto riconosciuto per legge, ma ciò facendo non esclude in termini assoluti l’opportunità politica di consultare [tale organo] proprio in forza della convenzione che costituisce il fondamento di un rapporto armonioso tra parlamento centrale e [Parlamento scozzese]” (Parolari).

Va sottolineato però che manca la volontà politica da parte del Governo di Londra di concedere alle assemblee devolute una tale possibilità. Il Governo di Theresa May appare ostile ad una nuova consultazione popolare indipendentista, in perfetta linea con la tradizione conservatrice britannica, generalmente ostile anche agli stessi processi di devolution (Jeffery, Lodge & Schmuecker). Per tali motivi, il referendum sull’indipendenza si pone quale ipotesi di last resort per la Scozia per poter sperare di poter accedere nuovamente e pienamente all’UE, indipendentemente dalle sorti della Brexit. Tuttavia, come sottolineato da Jim Gallagher, Brexit appare foriera di un nuovo processo di devoluzione favorevole alla Scozia, posto che la fuoriuscita del Regno Unito dall’UE comporterà necessariamente un trasferimento pressoché diretto di alcune competenze ora in capo alle autorità europee a favore del Parlamento di Edimburgo, in particolare quelle relative all’agricoltura, alla pesca e alla protezione ambientale (Gallagher). Si tratta di materie “protette”, per così dire, dalla Sewel Convention, convenzione che di fatto ha assunto in parte valore giuridico in seguito all’adozione dello Scotland Act 2016 che modifica lo Scotland Act 1998 con il quale si era dato vita alle istituzioni devolute scozzesi.

Brexit si pone così come un ulteriore passo in avanti nell’ormai ventennale processo di devolution, ponendo in essere un’opportunità unica per le autorità scozzesi, le quali potranno godere di un ampliamento delle proprie competenze senza necessariamente doverne fare richiesta al Parlamento di Londra. Le autorità scozzesi, dal canto loro, pur al di fuori dell’Unione Europea, avrebbero comunque la possibilità di stipulare accordi internazionali con quest’ultima limitatamente alle materie devolute, anche se a tal fine sarà necessaria una modifica degli Acts costitutivi della devolution scozzese nella parte relativa alle reserved matters.

Al di là delle complicazioni derivanti dalla norma dello Scotland Act 2016 che alla section 1 afferma che “it is recognised that the Parliament of the United Kingdom will not normally legislate with regard to devolved matters without the consent of the Scottish Parliament” (enfasi aggiunta), e tenendo conto che è possibile, in linea teorica, ritenere il processo di fuoriuscita del Regno Unito dalla UE come una situazione che si pone al di “fuori dal normale” e dunque potenzialmente sottratta alla disciplina del suddetto Act, Brexit pone ad ogni modo una questione cruciale sul futuro assetto costituzionale e territoriale del Regno Unito, ed in particolare sul futuro della Scozia, questione alla quale il Governo di Londra non potrà sottrarsi.

Riferimenti bibliografici

  1. Bogdanor (1998). Devolution: Decentralisation or Disintegration, in The Political Quarterly, vol. 70(2):185-194.
  2. Caravale (2015). Il referendum sull’indipendenza scozzese: quali scenari futuri per la devolution britannica?, in federalismi.it, n. 1/2015.
  3. Carrell (2017). Scottish independence: Nicola Sturgeon fires starting gun on referendum, in The Guardian, 13.03.2017.
  4. Edward (2012). Scotland and the European Union, in Scottish Constitutional Futures Forum, 17.12.2012.
  5. Gallagher (2016). Jim Gallagher: The Brexit Referendum: a Cautionary Tale and an Unexpected Opportunity, in Scottish Constitutional Futures Forum, 10.10.2016.
  6. Jeffery, G. Lodge, K. Schmuecker (2010). The Devolution Paradox, in G. Lodge, K. Schmuecker (eds), Devolution in Practice 2010: Public Policy differences in the United Kingdom, London: IPPR.
  7. Lanchester (2017). Brexit per via parlamentare, in la Rivista Il Mulino, 27.1.2017.
  8. Parolari (2017). La pronuncia della Supreme Court del Regno Unito sul caso Miller e le questioni aperte per l’ordinamento costituzionale britannico, in Forum di Quaderni Costituzionali, 20.2.2017.
  9. Tierney (2013). Legal Issues Surrounding the Referendum on Independence for Scotland, in European Constitutional Law Review, 9, pp. 359-390, doi:10.1017/S1574019612001216.

Documentazione

Choosing Scotland's Future: A National Conversation: Independence and Responsibility in the Modern World
http://www.gov.scot/Resource/Doc/194791/0052321.pdf
Your Scotland, Your Voice: A National Conversationhttp://www.gov.scot/Resource/Doc/293639/0090721.pdf


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