Il varo della nuova legislatura in Germania: il diritto parlamentare fra continuità e adattamento

Il 26 ottobre 2021, esattamente a un mese di distanza dalle elezioni e nell’ultimo giorno utile consentito dall’art. 39 della Legge fondamentale (GG), si è tenuta la seduta inaugurale della XX legislatura della Repubblica federale tedesca. Si è trattato, per molti versi, di uno spartiacque: con l’avvio della nuova legislatura è giunto a conclusione il IV Governo Merkel, che in virtù dell’art. 69 GG rimane in carica per il disbrigo degli affari correnti. In attesa che si formi un nuovo esecutivo federale – con ogni probabilità, un Governo sostenuto da una maggioranza “semaforo” rosso-giallo-verde e presieduto da Olaf Scholz –, la giornata del 26 ottobre ha offerto indicazioni interessanti sulla tenuta di alcune regole e prassi del parlamentarismo tedesco in una stagione politica caratterizzata da una frammentazione e da un’incertezza crescenti.
Si tratta, in primo luogo, dell’elezione del Presidente del Bundestag, primo punto all’ordine del giorno dopo la costituzione dell’Ufficio di presidenza provvisorio. Il par. 2 del regolamento interno del Bundestag (GO-BT) si limita a prevedere la regola della maggioranza assoluta per i primi due scrutini e della maggioranza relativa per l’eventuale terzo (e ultimo scrutinio). Cionondimeno, un “antico uso parlamentare” (J. Bücker) vuole che il gruppo parlamentare numericamente più cospicuo abbia il diritto di proporre un proprio candidato alla Presidenza. Tale uso, del resto, troverebbe un riconoscimento implicito nello stesso regolamento, che prevede che il Presidente in caso di impedimento sia sostituito dal Vicepresidente espressione del secondo gruppo più consistente (par. 7, c. 6). Questa radicata prassi prescinde dalle trattative per la formazione del Governo, e non è peregrina l’ipotesi di un Presidente di opposizione: negli anni Settanta, caratterizzati dall’egemonia della coalizione social-liberale, la carica di Presidente del Bundestag è rimasta a lungo appannaggio della CDU/CSU. Nelle scorse settimane, a mano a mano che si faceva strada la prospettiva di una maggioranza “semaforo” SPD-Verdi-FDP, i media hanno dato conto di voci che segnalavano l’inopportunità di un’eccessiva concentrazione di potere in capo ai socialdemocratici. Questi ultimi, pur rivitalizzati dopo una stagione di grave declino, hanno ottenuto soltanto il 25,7% dei suffragi: con poco più di un quarto dei voti, si obiettava, i socialdemocratici avrebbero espresso il Cancelliere, il Presidente del Bundestag e il Presidente federale, nel caso assai probabile di una rielezione di Frank-Walter Steinmeier nel gennaio 2022. Ragioni di riequilibrio politico (e di genere) portavano dunque a ipotizzare una deroga rispetto alla prassi consolidata, con l’attribuzione della Presidenza a una parlamentare dei Verdi, seconda forza della costituenda maggioranza “semaforo”. Tutto ciò non si è concretizzato, e alla Presidenza del Bundestag è stata proposta ed eletta la socialdemocratica Bärbel Bas in quanto espressione del gruppo più numeroso.
Particolarmente degno di nota, poi, risulta l’interazione fra l’Alternativa per la Germania (AfD) e gli altri gruppi parlamentari. Il partito di estrema destra ha registrato perdite significative nei Länder occidentali, ma ha consolidato le proprie posizioni nei Länder dell’Est. Già quattro anni fa, in previsione dell’ingresso dell’AfD nel Bundestag, erano state modificate le disposizioni regolamentari sull’Ufficio di presidenza provvisorio (par. 1 GO-BT). Per l’individuazione del Presidente provvisorio (Alterspräsident) il criterio dell’età anagrafica fu sostituito da quello dell’anzianità di servizio, con l’intento di favorire i partiti storici. Non diversamente da ciò che è accaduto al Parlamento europeo nel 2009, il regolamento interno è stato modificato poco prima delle elezioni per evitare che la carica di Presidente provvisorio – naturalmente dotata di grande visibilità – fosse occupata da un parlamentare dell’AfD. In virtù del principio di discontinuità, il 26 ottobre il deputato dell’AfD Bernd Baumann ha chiesto invano l’immediato ripristino della regola dell’anzianità anagrafica, con la conseguente sostituzione di Wolfgang Schäuble – eletto per la prima volta nel 1972 – con l’ottantenne Alexander Gauland. Come già quattro anni fa, inoltre, Baumann si è avventurato in un parallelismo piuttosto impreciso con la soppressione della carica di Alterspräsident promossa da Hermann Göring nel 1933.
Ulteriori contrasti si sono registrati al momento dell’elezione dei Vicepresidenti. A differenza di altri parlamenti europei, dal 1994 il regolamento del Bundestag non prevede più un numero fisso di Vicepresidenti e si limita a stabilire (par. 2, c. 1) che ogni gruppo parlamentare (Fraktion) “è rappresentato nell’Ufficio di presidenza da almeno un Vicepresidente o una Vicepresidente”. Con questa disposizione il diritto parlamentare si adattò alle trasformazioni del sistema politico, a lungo caratterizzato da grande stabilità ma segnato, negli ultimi quarant’anni, dall’avvento di nuovi soggetti: i Verdi, la Linke e infine l’AfD. La ratio della disposizione regolamentare è di consentire a ogni gruppo di disporre di un proprio rappresentante nell’Ufficio di presidenza. È eletto Vicepresidente, però, chi ottiene il sostegno della maggioranza – assoluta e al terzo scrutinio relativa – dei membri del Bundestag. Ogni gruppo, insomma, ha il diritto di proporre un proprio candidato, ma ciò non si traduce automaticamente nella sua elezione: è stato scritto, con un’efficace sintesi, “ogni gruppo, ma non con qualsiasi candidato” (S. Lovens). Già nel 2005 la Linke non era riuscita a far eleggere il proprio candidato, Lothar Bisky, sospettato di legami con la Stasi prima della riunificazione. Secondo lo stesso Lovens, perciò, la norma regolamentare relativa alla presenza di esponenti di tutti i gruppi nell’Ufficio di presidenza deve intendersi come “la regolamentazione parallela di un risultato e di un procedimento, senza che il procedimento conduca necessariamente a quel risultato”. In tempi recenti anche l’ex Presidente Schäuble ha negato seccamente che vi sia un diritto al Vicepresidente. La norma ricavabile dai regolamenti e dalla prassi dovrebbe essere intesa in questo senso: “Diventerà Vicepresidente solo chi ottenga la maggioranza prescritta a scrutinio segreto. Un candidato proposto [da un gruppo] che non ottenga questa maggioranza non sarà Vicepresidente”.
Nel corso della passata legislatura, l’AfD non è riuscita a ottenere l’elezione di un proprio rappresentante a Vicepresidente del Bundestag. Anche dopo le prime sedute inaugurali della legislatura, il partito antisistema, servendosi di un’opzione contemplata dal regolamento (par. 2, c. 3, GO-BT), ha chiesto l’organizzazione di nuovi scrutini per l’elezione di un Vicepresidente: in quattro anni sei candidati dell’AfD non sono riusciti a raggiungere i quorum prescritti dal regolamento. Lo stesso è accaduto con Michael Kaufmann, il candidato presentato dall’AfD il 26 ottobre, che ha ottenuto 118 voti a favore e 553 contro. La vicenda pare destinata a protrarsi nei prossimi mesi ed è paradigmatica del difficile adattamento dell’AfD ai meccanismi della democrazia parlamentare. La controversia, prettamente politica, ha acquisito anche una dimensione giurisdizionale a causa del ricorso per conflitto tra organi presentato dal gruppo dell’AfD dinanzi al Tribunale costituzionale, e dallo stesso Tribunale dichiarato inammissibile con un Beschluss del 7 luglio 2021. Nel ricorso – che s’inserisce in una lunga teoria d’iniziative giudiziarie dell’AfD dinanzi ai giudici di Karlsruhe, puntualmente documentata da F. Saitto – si lamentava la violazione dello status costituzionale dei deputati in quanto rappresentanti di tutto il popolo (art. 38 GG) e del diritto a un’equa e leale applicazione del regolamento. I candidati di volta in volta proposti dall’AfD sarebbero stati respinti “senza garantire con adeguate precauzioni procedimentali che tali voti contrari non siano provocati da motivazioni inappropriate” (par. 9). Il principio delle pari opportunità fra i gruppi nella formazione dell’Ufficio di presidenza e di altri organi interni del Bundestag potrebbe cioè venire contraddetto dalla logica del voto a maggioranza; al Tribunale si chiedeva di imporre al Bundestag con un provvedimento cautelare la modifica delle norme procedimentali. I giudici di Karlsruhe si sono pronunciati nel senso dell’inammissibilità del ricorso sia perché mirava a produrre effetti non compatibili col giudizio per conflitto tra organi, sia perché non sono stati presentati con sufficiente precisione i rischi incombenti né l’idoneità del provvedimento cautelare richiesto a sanarli. Se anche il Bundestag fosse obbligato a dotarsi di nuove regole interne, non è chiaro quali vantaggi potrebbe trarne il gruppo dell’AfD nel tentativo di ottenere l’elezione di un proprio Vicepresidente.
Come si possono interpretare i ripetuti insuccessi dell’AfD nel tentativo di far eleggere Vicepresidente un proprio deputato? Non ci sono spiegazioni univoche. Si può dire, in primo luogo, che non si tratta della conventio ad excludendum che colloca l’AfD al di fuori del perimetro dei partiti regierungsfähig, idonei cioè ad assumere responsabilità governative. Nella passata legislatura, del resto, l’AfD si è vista attribuire alcune presidenze di Commissione, fra cui la presidenza della cruciale Commissione bilancio, che per convenzione è assegnata al più forte gruppo di opposizione. In quel caso è stato applicato il par. 12 del regolamento, che prevede la distribuzione delle presidenze di Commissione fra tutti i gruppi parlamentari in ragione della loro consistenza numerica. Le disposizioni regolamentari riguardanti l’Ufficio di presidenza, invece, si prestano a essere integrate da convenzioni fra gli attori politici, con una corrispondenza mai perfetta, come detto in precedenza, tra procedimento e risultato. I Vicepresidenti coadiuvano il Presidente in diverse funzioni, a rilevanza tanto esterna quanto interna: oltre a rappresentare il Bundestag e a preservarne la “dignità” (par. 7, c. 1, GO-BT), i membri dell’Ufficio di presidenza sono custodi del regolamento e titolari del potere di polizia all’interno delle sedi del Bundestag. Proprio su questo dato fanno leva gli oppositori dell’elezione di un Vicepresidente in quota AfD. Dopo aver fatto il suo ingresso nel Bundestag, quattro anni fa, il partito si è distinto per un approccio fortemente aggressivo alle attività parlamentari che costituisce un novum per la vita istituzionale tedesca, come messo in luce sia dai media generalisti, sia da indagini politologiche. È un punto importante, che offre materiale per una riflessione comparatistica sulla “svolta populista” nei parlamenti contemporanei (si veda, con riguardo al caso italiano, il contributo di C. Fasone). Di qui la riluttanza a coinvolgere l’AfD nell’esercizio di funzioni significative sia per la vita interna del Bundestag, sia per la sua proiezione esterna, verso le altre istituzioni e la società civile. Le voci critiche, d’altra parte, fanno notare che questo ostracismo a bassa intensità, praticato ma non pienamente formalizzato, rappresenta un segnale di debolezza più che di forza dell’istituzione parlamentare e della sua capacità di promuovere l’integrazione politica. In futuro il coinvolgimento dell’AfD nelle dinamiche parlamentari potrebbe essere favorito da un’evoluzione del partito e da un suo allontanamento del radicalismo ideologico e verbale, con qualche assonanza con la traiettoria dei Verdi negli anni Ottanta; evoluzione, però, che oggi appare quantomai remota ed è resa ancor più improbabile dalla netta affermazione della frangia völkisch nelle votazioni interne che hanno dato l’avvio all’ultima campagna elettorale del partito.


“Un evidente rischio di violazione grave” dello Stato di diritto: qualche osservazione sulle più recenti iniziative della Commissione europea nei confronti della Polonia

Lo scorso 20 dicembre la crisi costituzionale polacca, che ormai si protrae fin dalla tornata elettorale del 2015, è entrata in una nuova fase: la scelta della Commissione europea di attivare la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE dice molto sia dell’escalation registratasi sul fronte interno, con sempre nuove iniziative della maggioranza parlamentare, sia dell’irrigidimento delle posizioni dei due livelli istituzionali, nazionale e sovranazionale. In pari tempo, all’attivismo della Commissione europea corrisponde l’indebolimento dei “contrafforti” interni opposti al Governo e al Parlamento di Varsavia, come le corti supreme e – in maniera più ambigua – il Presidente della Repubblica Duda.
Con un comunicato stampa datato 20 dicembre – cui si affianca un discorso del Vicepresidente Timmermans – la Commissione ha perciò chiesto al Consiglio di adottare una delibera in cui si constati l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave di uno dei valori fondanti dell’art. 2 – nel caso di specie, lo Stato di diritto – in Polonia. La richiesta si fonda su un nutrito corpus di interventi di riforma del potere giudiziario polacco; ad avviso della Commissione, quest’ultimo si trova ormai sotto il controllo politico della maggioranza parlamentare.
Il comunicato stampa della Commissione appare interessante sotto diversi angoli visuali, che nel loro complesso attestano la centralità della questione dei “valori” nell’Unione di oggi e le difficoltà in cui si dibattono i tentativi di assicurarne l’effettività.
Una prima considerazione è relativa al linguaggio adoperato dalla Commissione per giustificare la sua ultima iniziativa: la scelta di attivare una delle due procedure dell’art. 7 – quella prevista per l’ipotesi di un “evidente rischio di violazione grave”, e non ancora per l’“esistenza di una violazione grave e persistente” dei valori dell’art. 2 TUE – si configura come un’extrema ratio, che fa seguito a quasi due anni di tentativi di avviare un dialogo costruttivo con le autorità polacche. Se è stato necessario ricorrere a “these unprecedented measures”, ragiona la Commissione, il motivo dev’essere rintracciato nella scarsa disponibilità della Polonia a cooperare nell’ambito del quadro giuridico per la salvaguardia dello Stato di diritto, varato dalla Commissione stessa nel marzo 2014. Si assiste qui a un curioso scambio di ruoli fra istituti e procedure differenti: la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE fu introdotta nel 2001 dal trattato di Nizza, dopo che il “caso Austria” aveva reso evidente l’opportunità di introdurre un procedimento di natura preventiva per situazioni in cui i valori dell’art. 2 non erano ancora violati. Nelle intenzioni dei riformatori dei trattati, la procedura dell’art. 7, par. 1, TUE doveva presentarsi come un’alternativa “minimalista” alla constatazione dell’“esistenza di una violazione grave e persistente” dei valori fondanti da parte di uno Stato membro: avrebbero dovuto concorrere a questo minimalismo sia il coinvolgimento del Consiglio in luogo del Consiglio europeo, sia la previsione di un quorum deliberativo dei quattro quinti in luogo dell’unanimità. Da ultimo, i diritti di voto dello Stato membro coinvolto in seno al Consiglio possono essere sospesi soltanto nel caso in cui sia stata constatata l’esistenza di una violazione in atto. Le vicende successive, però, hanno indubbiamente portato a un offuscamento delle distinzioni fra le due procedure, tanto che nel discorso sullo stato dell’Unione del 2012 l’allora Presidente Barroso adoperò per entrambe la definizione “opzione nucleare”. Con l’ultimo comunicato della Commissione il cerchio sembra chiudersi: dopo due anni di dialogo fra istituzioni polacche e sovranazionali – condotto nella cornice “ibrida” del quadro per la salvaguardia dello Stato di diritto – l’attivazione dell’art. 7 TUE si configura in ogni caso come un’extrema ratio. Lo stesso Vicepresidente Timmermans ammette, con toni appassionati, che “it is with a heavy heart that we have decided to initiate Article 7(1), but the facts leave us no choice”.
Un secondo spunto di riflessione è anch’esso inerente alla scelta della procedura. Perché la Commissione ha deciso di agire ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE – limitandosi cioè a contestare un “evidente rischio di violazione grave” – e non ha invece denunciato la sussistenza di “una violazione grave e persistente” in virtù del par. 2? In effetti, si potrebbe avere l’impressione che il potere giudiziario polacco sia già stato plasmato in profondità dalle leggi di riforma – non meno di 13, secondo la Commissione – approvate negli ultimi due anni. Nella proposta ragionata indirizzata dalla Commissione al Consiglio si leggono anzi osservazioni molto preoccupanti, come il fatto che “the independence and legitimacy of the Constitutional Tribunal is seriously undermined and the constitutionality of Polish laws can no longer be effectively guaranteed” (par. 109). Al di là del riferimento al potere giudiziario in senso, lato, poi la Commissione individua un filo rosso che caratterizza la recente legislazione polacca in questo ambito: l’ampliamento sistematico delle possibilità, per i poteri legislativo ed esecutivo, d’interferire nella composizione, nelle attribuzioni e nel funzionamento del giudiziario (par. 173). Naturalmente si può avanzare l’ipotesi che queste misure rischino di compromettere il valore-Stato di diritto, mentre si potrà parlare di vera e propria violazione soltanto nel momento in cui esse saranno state effettivamente applicate. L’impressione, però, è che i caratteri della procedura dell’art. 7, par. 1, TUE già segnalati in precedenza – primo fra tutti, il quorum dei quattro quinti degli Stati membri – abbiano suggerito alla Commissione di parlare soltanto di “evidente rischio”. In questo modo, infatti, si può pensare di depotenziare il potere di veto dell’Ungheria e forse della Romania e di giungere ugualmente all’accertamento, con la solennità di una deliberazione del Consiglio, di una situazione di grave disagio costituzionale in uno Stato membro (una interpretazione, questa, condivisa da Kochenov, Pech e Scheppele).
In terzo luogo, un elemento che viene sempre sottolineato nel dibattito sugli artt. 2 e 7 TUE è la loro capacità di offrire un orientamento agli Stati membri al di là dell’ambito competenziale del livello istituzionale sovranazionale. I valori dell’art. 2, ad esempio, svolgono un ruolo centrale nella costruzione intellettuale dello ius publicum Europaeum, tratteggiata da Armin von Bogdandy: “All legal acts of any public authority in the European legal space are subject to the common principles of Article 2 TEU, supplemented by the ECHR guarantees” (A. von Bogdandy, The Idea of European Public Law Today, in id., P.M. Huber, S. Cassese (a cura di), The Administrative State, Oxford, OUP, 2017, 21). Nel linguaggio adoperato dalla Commissione – sia nel suo comunicato stampa, sia nella proposta ragionata inviata al Consiglio, sia nel discorso del Vicepresidente Timmermans – questo dato appare pacifico: “The Commission, beyond its task to ensure the respect of EU law, is also responsible, together with the European Parliament, the Member States and the Council, for guaranteeing the common values of the Union” (par. 1 della proposta). Al tempo stesso, però, la Commissione si preoccupa di sottolineare che le riforme dell’ordinamento giudiziario polacco suscitano dubbi e preoccupazioni “about the effective application of EU law, from the protection of investments to the mutual recognition of decisions in areas as diverse as child custody disputes or the execution of European Arrest Warrants”. Il percorso argomentativo della Commissione rinvia a una delle premesse teoriche del dibattito sulla clausola di omogeneità dell’art. 2 TUE: quale funzione dovrebbe assolvere il richiamo ai valori fondanti dell’Unione? Accanto ad altre funzioni – identitaria, legittimante, d’integrazione – autori come Pernice hanno sostenuto che la ratio dell’art. 2 è ridurre il pericolo che fra gli Stati membri si producano differenze così profonde da turbare la funzionalità dell’UE: la questione della funzionalità dell’Unione appare peraltro assai urgente in un ordinamento che dipende fortemente, sia nella formazione dei suoi atti normativi sia nella loro esecuzione, dalle istituzioni nazionali (I. Pernice, Europäisches und Nationales Verfassungsrecht, Walter Hallstein-Institut working paper 13/01, 30).
Un quarto elemento è degno di nota: la procedura “solenne” dell’art. 7, par. 1 – Timmermans rifiuta infatti di parlare di “opzione nucleare” – è complementare, e non alternativa, rispetto ad altri strumenti di cui la Commissione continua a servirsi. Così, nello stesso momento in cui propone al Consiglio di constatare la sussistenza di un evidente rischio di violazione dello Stato di diritto da parte della Polonia, la Commissione annuncia la propria intenzione di agire dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE in virtù dell’art. 258 TFUE: oggetto della procedura d’infrazione già avviata dalla commissione sono le disposizioni della legge sui tribunali ordinari relative alla collocazione a riposo dei giudici: a una possibile violazione del divieto di discriminazione fra uomini e donne si accompagna il fatto che al Ministro della giustizia sia attribuito il potere discrezionale di mantenere in servizio giudici che abbiano già raggiunto l’età pensionabile. In questi anni le procedure d’infrazione hanno costituito un tassello importante, anche se criticato da varie parti, delle iniziative della Commissione nei confronti degli Stati membri dell’Europa centro-orientale: pochi giorni prima, il 7 dicembre, la Commissione aveva annunciato la propria intenzione di adire la Corte di giustizia a proposito della legge ungherese sull’istruzione superiore, la c.d. lex CEU. Nello stesso tempo, rimane aperto il canale del dialogo costruttivo, avviato dalla Commissione nell’estate 2016 e tradottosi nell’emanazione di quattro “raccomandazioni sullo Stato di diritto” indirizzate alle autorità polacche e datate, rispettivamente, 27 luglio 2016, 21 dicembre 2016, 27 luglio 2017 e 15 dicembre 2017. Parallelamente alla proposta di attivare l’art. 7, infatti, la Commissione indirizza alla Polonia una quarta raccomandazione, avente ad oggetto le due leggi del 15 dicembre 2017 sulla Corte suprema e sul Consiglio nazionale del potere giudiziario.
Come si vede, l’iniziativa annunciata dalla Commissione lo scorso 20 dicembre costituisce un affidabile indicatore della complessità di cui nell’Unione europea è inevitabilmente circonfusa la questione dei valori. Come si è cercato di dimostrare, la scelta di attivare l’art. 7, par. 1, TUE riflette la difficoltà di tracciare una distinzione netta fra profili sostanziali, profili procedurali e considerazioni di opportunità. Procedure differenti si accavallano e si sovrappongono fra loro, nel tentativo di mantenere una forte pressione sulle autorità polacche e di ridimensionare i progetti di Diritto e giustizia e del suo leader informale, Jarosław Kaczyński (ma Kochenov, Pech e Scheppele segnalano che effetti collaterali di natura virtuosa potrebbero prodursi in Romania, segno di una sempre più marcata interdipendenza fra gli ordinamenti). Rimane, infine, la centralità dello Stato di diritto, vero valore-faro per le istituzioni sovranazionali. Non sono mancati i tentativi di decostruire nozioni suggestive come quella di “democrazia illiberale” – come anche, in pari tempo, di criticare il formalismo della nozione eurounitaria di Stato di diritto – ma la Commissione e le altre istituzioni sovranazionali preferiscono fare assegnamento su un concetto che da sempre svolge un ruolo decisivo nelle autorappresentazioni dell’ordinamento dell’UE (sul punto cfr. G. Itzcovich, The European Court of Justice as a Constitutional Court. Legal Reasoning in a Comparative Perspective, STALS Research Paper n. 4/2014, 39 s.). Per altro verso, gli elementi ora segnalati – il peso di considerazioni di opportunità, ma anche la riluttanza della Commissione ad affermare valori distinti dallo Stato di diritto – contribuiscono altresì a spiegare la timidezza delle istituzioni sovranazionali nei confronti dell’Ungheria.


Il crepuscolo dell’ipotesi-Giamaica: osservazioni comparatistiche sulle trattative per la formazione del Governo in Germania

Una parte non trascurabile dei commenti sulle ultime vicende politiche e istituzionali tedesche sono caratterizzati da una certa, talora implicita Schadenfreude: per il successo elettorale, anche in Germania, di formazioni genericamente etichettate come populiste; per la crescente frammentazione nella composizione del Parlamento; per la necessità, conseguentemente, di costituire ampie e non sempre coerenti coalizioni; da ultimo, soprattutto, per il fallimento delle trattative fra cristiano-democratici, cristiano-sociali, liberali e verdi per il varo di una “coalizione Giamaica”. Anche in una Repubblica federale storicamente pervasa dalla “stella polare” della stabilità politica – oltre che economica e finanziaria – avrebbe perciò preso ad aleggiare lo spettro di italienische (o spanische) Verhältnisse: l’avvicendarsi frequente di governi e maggioranze, ritenuto un tratto caratteristico dell’Italia e – soprattutto nell’ultimo decennio di crisi economica – dell’Europa del sud in genere. Di queste difficoltà di tipo nuovo offrirebbe una plastica ricostruzione l’intervento diretto del Presidente Frank-Walter Steinmeier, teso a sbloccare lo stallo e a evitare l’extrema ratio dello scioglimento del Bundestag e di una nuova convocazione dei comizi: senza che vi fossero precedenti nella storia costituzionale tedesca, il capo dello Stato ha avviato consultazioni coi rappresentanti dei partiti. Nel corso delle consultazioni è emersa la disponibilità della SPD a modificare la propria intenzione di non partecipare ad alcun Governo in questa legislatura e a negoziare con la CDU/CSU la costituzione di una ennesima grande coalizione. Se anche queste trattative avessero esito positivo, però, l’accordo fra i due partiti di massa (Volksparteien) sarebbe sottoposto al voto degli iscritti della SPD.
Queste vicende suscitano l’interesse del comparatista per almeno tre motivi.
In primo luogo, l’inatteso protagonismo di Steinmeier pare mettere in discussione un postulato da cui generalmente prendono le mosse la dottrina costituzionalistica e la Corte di Karlsruhe al fine di inquadrare il ruolo del Presidente federale. Vero è che il Presidente è titolare di attribuzioni costituzionali, potenzialmente significative, in fatto di formazione del Governo dopo le elezioni, di scioglimento del Parlamento federale e di controfirma delle leggi (artt. 63, 68 e 82 della Legge fondamentale); nondimeno la dottrina e la giurisprudenza costituzionale si sono sempre preoccupate di valorizzare attribuzioni ulteriori, che si collocano “accanto” a quelle espressamente conferite al Presidente dalla Legge fondamentale e anzi lo connotano in maniera ancor più decisiva. Come ha spiegato la Corte in una sentenza del 2014, al Presidente spettano, “oltre” alle competenze che gli sono espressamente attribuite dalla Costituzione, “soprattutto compiti generali di rappresentanza e d’integrazione” (Ihm kommen … vor allem allgemeine Repräsentations- und Intesgrationsaufgaben zu). Attorno a questa funzione d’integrazione della società, non codificata nel testo costituzionale e influenzata in maniera decisiva dalla lezione di Rudolf Smend, si è dunque concentrata la riflessione sul ruolo del Presidente federale nell’ordinamento costituzionale. Ad avviso di critici come Isensee (Braucht die Republik einen Präsidenten?, in Neue Juristische Wochenschrift, 1994), anzi, enfatizzando le prestazioni svolte dal Presidente nei confronti dello Stato-comunità si tenterebbe di compensare la mancanza di attribuzioni reali in capo al medesimo, oppure il fatto che questo difficilmente possa agire in maniera autonoma nel contesto di un parlamentarismo razionalizzato in cui i principali attori hanno come bussola della propria azione la stabilità. Ora, la situazione di fatto appare in qualche misura mutata, e con essa l’atteggiamento del Presidente rispetto agli altri organi costituzionali e ai partiti politici. Riprendendo con qualche cautela l’immagine della fisarmonica presidenziale, nota alla riflessione italiana, al mutare delle circostanze di fatto paiono ritornare in primo piano le attribuzioni costituzionali standard del capo dello Stato. Dopo il fallimento delle trattative d’inizio legislatura per la formazione di una Jamaika-Koalition il Presidente Steinmeier ha dato l’avvio a consultazioni coi capipartito, avvertendo fin dall’inizio che “chi si presenta alle elezioni e partecipa alla competizione per la responsabilità politica non può tirarsi indietro una volta che si trovi ad averla in mano”. Poiché l’incarico di costituire un Governo è forse “il più alto” che l’elettorato possa conferire ai partiti in un regime democratico, questa responsabilità, che va al di là degli interessi propri di ciascun partito, “non può semplicemente essere riconsegnata agli elettori”. Come si vede, perciò, una situazione d’incertezza – forse momentanea ma certo inedita – ha portato a una rivalutazione delle possibilità d’intervento del capo dello Stato nel quadro del parlamentarismo della Repubblica federale.
Anche in questo caso, però, la valutazione dell’operato del capo dello Stato risente in misura determinante del peso di paradigmi interpretativi consolidati. Si vuole dire, cioè, che una parte delle aspettative che si proiettano sul Presidente federale in relazione alla sua funzione d’integrazione sociale si sono trasferite, in maniera per lo più irriflessa, sulle sue iniziative per risolvere l’impasse postelettorale. Nella dottrina tedesca, perciò, alcune voci hanno espresso perplessità e scetticismo su una eccessiva valorizzazione del ruolo – maieutico o demiurgico secondo le differenti letture – svolto dal Presidente Steinmeier nelle trattative per la formazione di un nuovo Governo. Oggetto di critica sono soprattutto le ricostruzioni giornalistiche del mutamento di rotta avvenuto all’interno della SPD, che sarebbe passata repentinamente da una risoluta opposizione all’esperienza – ritenuta logorante – della grande coalizione a una disponibilità di massima a trattare con la CDU/CSU in vista proprio del suo rinnovo. Tutto questo avrebbe potuto verificarsi soltanto grazie all’intervento risolutivo di Steinmeier: “se così vuole il Presidente, allora bisogna continuare a partecipare al Governo, almeno un poco” (così, sarcasticamente, T. Kingreen nel suo commento apparso sul Verfassungsblog). In ricostruzioni di questo tenore e nelle aspettative riposte nel Presidente federale – a fronte della crescente insoddisfazione nei confronti della democrazia rappresentativa e del sistema politico-partitico – i critici hanno da tempo ravvisato una “nostalgia dell’autorità” (Sensucht nach Obrigkeit) oppure una “lieve predilezione” per un Obrigkeitsstaat predemocratico, com’era prima del 1918 (H. Schulze, Über den Parteien”. Richard von Weizsäcker und das Erbe des Obrigkeitsstaats, in Gewerkschaftliche Monatshefte, 1992, 538 ss.). L‘emersione di sentimenti antipolitici (antipolitischer Affekt) si coagulerebbe perciò nell’auspicio che il Presidente ricomponga in una sintesi superiore le querelle fra i partiti e all’interno dei medesimi. Affiorano, insomma, le preoccupazioni della dottrina tedesca per una valorizzazione degli organi che in Italia si direbbero “di garanzia”; a danno, si teme, delle dinamiche ordinarie della democrazia rappresentativa (considerazioni analoghe sono state svolte a proposito del Bundesverfassungsgericht da C. Möllers e C. Schönberger nel volume scritto con M. Jestaedt e O. Lepsius Das entgrenzte Gericht. Eine kritische Bilanz nach sechzig Jahren Bundesverfassungsgericht, Berlin, 2011, pp. 297 e 43).
Da ultimo, per un osservatore italiano appaiono interessanti le modalità concretamente assunte fino a questo momento dalle consultazioni presidenziali. Fra le autorità con cui Steinmeier ha avuto contatti figura anche il Presidente della Corte costituzionale federale. Questo dato si spiega forse con la possibilità che in un sistema parlamentare più fortemente parlamentarizzato di quello italiano, in caso di fallimento delle trattative fra i partiti si apra la via allo scioglimento del Parlamento; e sull’ammissibilità dello scioglimento anticipato del Bundestag – anche se non all’inizio della legislatura – il Bundesverfassungsgericht ha già avuto modo di pronunciarsi nel 1983 e nel 2005. In secondo luogo, sebbene il Presidente abbia affermato di aspettarsi da tutti i partiti “disponibilità al dialogo” (Gesprächsbereitschaft), nondimeno la prima settimana di colloqui ha interessato soltanto democristiani, socialdemocratici, liberali e verdi. Si tratta, cioè, di quei partiti “per i quali l’esistenza d’intersezioni programmatiche non esclude la formazione di un Governo”. Sono invece escluse da quest’area della “governabilità” – e perciò destinate a essere consultate soltanto in un secondo momento – l’Alternative für Deutschland e la Linkspartei. In considerazione del carattere inedito della situazione attuale, coi suoi comportamenti il Presidente Steinmeier si trova inevitabilmente a porre precedenti, che potranno risultare più o meno persuasivi al ripresentarsi di circostanze analoghe. Nel perseguimento dell’obiettivo d’individuare una maggioranza governativa stabile, perciò, risulta interessante la scelta di consultare tutti i partiti, ma di accordare una indiscutibile priorità a quelli effettivamente suscettibili di partecipare a una maggioranza.


La designazione dei giudici della Corte suprema canadese: elementi d’insoddisfazione e tentativi di riforma

Lo scritto analizza i tentativi di modificare il procedimento di nomina dei giudici della Corte suprema canadese. Questi tentativi sono direttamente riconducibili a due problemi, la cui gravità è stata avvertita con sempre maggior forza a mano a mano che la Corte suprema acquisiva una posizione sempre più centrale nell’ordinamento canadese: il “deficit federale” e il “deficit democratico”. Entrambi hanno a che vedere con l’insoddisfazione nei confronti di un procedimento di nomina in cui svolge un ruolo decisivo il Primo ministro federale.
Le ipotesi di riforma hanno puntato sul coinvolgimento delle Province nella nomina dei giudici della Corte suprema – in coincidenza con la stagione della Patriation della Costituzione – oppure, più recentemente, su una “parlamentarizzazione” delle stesse. In questo processo evolutivo, in linea generale, ha sempre prevalso un approccio incrementale, con scandito da ripensamenti e da battute di arresto.
L’articolo presenta la discussione canadese calandola in un contesto comparatistico più ampio, in cui i procedimenti di nomina dei giudici costituzionali sono spesso oggetto di discussione; di grande importanza, in particolare, è il confronto a distanza, mai agevole, fra l’ordinamento canadese e il modello statunitense.


Governare con le ordonnances e moralizzare la vita pubblica: il Presidente Macron di fronte all’assetto costituzionale della V Repubblica

Fra i molti interrogativi che hanno accompagnato la sorprendente ascesa e poi il successo elettorale di Emmanuel Macron alle elezioni presidenziali del 21 aprile e 5 maggio scorsi, gli orientamenti del nuovo Presidente in materia di istituzioni e di politica costituzionale hanno occupato una posizione nel complesso secondaria. Dopo la sua elezione, è forse possibile formulare alcune ipotesi muovendo dalle dichiarazioni – non numerose e non sempre coerenti fra loro – con cui Macron ha preso posizione sul suo modo di intendere il funzionamento delle istituzioni della V Repubblica.
Si tratta, in qualche modo, di interrogativi ineludibili. Quasi tutti i Presidenti della V Repubblica hanno tentato di lasciare la propria “impronta” sulla Carta del 4 ottobre 1958, suggerendone modifiche di volta in volta corrispondenti alle loro rispettive priorità politiche e ideali. Assai spesso, in effetti, l’organo cui è affidato il compito di “veille[r] au respect de la Constitution” (art. 5, c. 1) si è fatto promotore di modificazioni più o meno incisive del testo della Carta fondamentale (in linea con quanto previsto all’art. 89). Limitandoci alle vicende più recenti, il fallimento di un tentativo presidenziale di promuovere una modifica della Costituzione può essere visto come la cifra di un mandato presidenziale: è il caso del Presidente Hollande, sia rispetto alla traduzione in prescrizioni giuridiche delle conclusioni della Commissione Jospin (Commission de rénovation et de déontologie de la vie publique) sia con riguardo alla tormentata vicenda della déchéance de nationalité successivamente agli attentati del novembre 2015.
Se ci si pone dal punto di vista del nuovo capo dello Stato, invece, si deve registrare una certa incertezza: questa è il riflesso, d’altra parte, sia della novità della sua proposta politica e del suo impatto sul sistema politico, sia di una certa vaghezza delle sue enunciazioni programmatiche.
Quali sono dunque le indicazioni desumibili dalle prese di posizione del candidato Macron?
Diversamente dai due candidati esplicitamente riconducibili alla sinistra – il socialista Benoît Hamon e il leader della France insoumise Jean-Luc Mélenchon – Macron non ha in alcun modo agitato la bandiera della VI Repubblica, espressione sintetica con cui si fa riferimento a una decisa soluzione di continuità rispetto al presidenzialismo maggioritario della V. Già prima della campagna elettorale, del resto, il tema di una profonda trasformazione degli assetti attuali era stato sollevato con forza dalle conclusioni del gruppo di lavoro Bartolone-Winock, “première mission de réflexion sur les institutions d’importance qui n’a pas été réunie par un Président de la République mais par le Parlement lui-même”.
Discostandosi da quell’impostazione, Emmanuel Macron non ha posto esplicitamente in discussione i fondamenti della V Repubblica e ha preferito porre l’accento sulla necessità di una democrazia “rinnovata” grazie al consolidamento delle istituzioni esistenti e alla razionalizzazione del lavoro parlamentare. In sintonia con una tradizionale rivendicazione delle forze centriste che lo hanno sostenuto – e riprendendo un impegno del 2012 del candidato Hollande, poi non mantenuto – Macron si è inoltre espresso a favore dell’inserimento di una “dose di proporzionale” nella legge elettorale per l’Assemblea nazionale Poco dopo essere venuto a conoscenza della propria vittoria elettorale, il neopresidente ha annunciato la presentazione di un projet de loi per la moralizzazione della vita pubblica. Anche in questo caso la valutazione della proposta di Macron appare complessa: se gli scandali che hanno costellato la campagna elettorale costituiscono il naturale presupposto di questa iniziativa, non sfuggono le affinità (e gli elementi di continuità) col rapporto presentato dalla Commissione Jospin durante il mandato di Hollande. La moralizzazione della vita pubblica – regolazione del conflitto d’interessi, limitazione del numero dei mandati, maggiore trasparenza nell’impiego delle risorse finanziarie legate al mandato parlamentare – costituisce una sorta di Leitmotiv dei dibattiti di politica costituzionale dell’ultimo quinquennio, in cui la crisi economica si è saldata con una crisi di legittimità delle istituzioni: come osservava nel suo rapporto la Commissione Jospin, “[s]ont en cause aussi bien les modalités d’accès aux responsabilités publiques que les conditions dans lesquelles celles-ci sont exercées”. Mentre i lavori di quella Commissione si erano svolti all’insegna di una certa indifferenza al problema delle fonti – costituzionali o legislative – su cui incardinare l’intervento riformatore, il nuovo capo dello Stato pare concepire la revisione costituzionale come una sorta di extrema ratio, privilegiando invece la via della legislazione ordinaria. In altre occasioni il candidato Macron ha evocato l’opportunità di modifiche “mirate” di singole disposizioni costituzionali, al fine, per esempio, di rendere più flessibile il diritto applicabile al Dipartimento ultramarino della Riunione. Il Presidente eletto contemplerebbe perciò la possibilità di promuovere revisioni “espressione di opzioni di politica costituzionale” oppure “di adeguamento”, mentre sarebbero escluse, almeno per ora revisioni “organiche” e “di sistema” (per questa classificazione cfr. P. Passaglia, La Costituzione dinamica. Quinta Repubblica e tradizione costituzionale francese, Torino, Giappichelli, 2008, 154 ss.).
Per quanto riguarda il funzionamento delle istituzioni, ancora una volta può essere utile ritornare sulle vicende della legislatura 2012-2017. Nel 2015 l’allora Ministro dell’economia Macron si era aspramente scontrato col Primo ministro Valls, non condividendone la scelta di fare ricorso alla procedura dell’art. 49-3 della Costituzione allo scopo di accelerare l’approvazione del projet de loi pour la croissance, l’activité et l’égalité des chances (noto in seguito come legge Macron). Il problema dell’eterogeneità delle maggioranze parlamentari – e, conseguentemente, della difficoltà di ottenere l’approvazione di testi legislativi efficaci e coerenti – si è inevitabilmente posto anche al candidato Macron nel corso della sua campagna elettorale. Pur con molte oscillazioni, nell’ultimo mese Emmanuel Macron ha affermato l’opportunità di riformare il diritto del lavoro ricorrendo alle ordonnances previste all’art. 38 della Costituzione. Le ordonannces – grossomodo paragonabili alla legislazione delegata italiana – sono un altro strumento di razionalizzazione del parlamentarismo previsto dalla Costituzione francese del 1958: l’utilizzo della procedura dell’art. 38, peraltro, si è fatto sempre più frequente dopo il 2002, in seguito al tendenziale allineamento fra i mandati del Presidente della Repubblica e dell’Assemblea nazionale (per più ampie informazioni, eventualmente, cfr. G. Delledonne, G. Martinico, La dimensione comparata del controllo “politico” sulle deleghe, in Le trasformazioni della delega legislativa. Contributo all’analisi delle deleghe legislative nella XIV e nella XV legislatura, a cura di E. Rossi, Padova, CEDAM, 2009, 133 s.). Al pari dunque di altri suoi predecessori estranei alla tradizione gollista, anche un homo novus come Macron sembra intenzionato a sfruttare pienamente le possibilità offerte dal modello di “parlamentarismo risanato” consacrato nella Costituzione della V Repubblica.
Durante la campagna elettorale, la necessità di “gouverner par ordonnances” per reagire alla crisi era stata sostenuta con forza – ancorché con modesto successo – da uno dei candidati alle primarie della destra e del centro, Jean-François Copé. Nelle ultime settimane, l’annuncio di Macron ha suscitato contestazioni assai vivaci, che hanno fatto leva su una presunta affinità fra l’art. 49-3 e le ordonnances, descritti entrambi come strumenti di compressione dei margini d’intervento del Parlamento e, conseguentemente, della discussione sulle iniziative dell’Esecutivo. Non mancano però alcune differenze, che sembrano cruciali: mentre la procedura dell’art. 49-3 normalmente ha l’effetto di porre fine all’esame parlamentare di un’iniziativa legislativa che stenta a farsi strada, nel caso delle ordonnances spetta al Parlamento sia delegare il Governo all’esercizio di poteri normativi (con una loi d’habilitation), sia, eventualmente, ratificare un’ordonnance per conferirle lo stesso valore di una legge ordinaria (con una loi de ratification). In questo senso, il ricorso alle ordonnances sembra coerente, almeno nelle intenzioni, con una strategia che mira a razionalizzare il lavoro del Parlamento senza modificare in profondità i capisaldi dell’assetto costituzionale dei rapporti fra Esecutivo e Parlamento (come anche delle loro ricadute sulle fonti del diritto, nel senso indicato da Alessandro Pizzorusso fin dagli anni Ottanta).
Quali conclusioni si possono trarre dal quadro finora descritto (un quadro, è bene precisarlo, frammentario ed esposto a smentite e a inversioni di rotta)? La prima impressione può risultare sorprendente. Adottando l’angolo visuale del sistema politico-partitico, la vittoria di Macron rappresenta una fortissima discontinuità con gli assetti consolidati della V Repubblica. Da un altro punto di vista, però, il nuovo Presidente pare poco interessato a trasferire questa esigenza di discontinuità sul versante del funzionamento delle istituzioni e della politica costituzionale. Anche in questo, perciò, Macron ha marcato chiaramente la propria distanza rispetto alle posizioni dei suoi avversari, in primis Mélenchon e Marine Le Pen. A una certa continuità con le priorità di politica costituzionale del mandato presidenziale di François Hollande pare accompagnarsi l’intenzione di fare assegnamento sul quadro costituzionale vigente, nel tentativo di valorizzare le attuali possibilità d’intervento del Parlamento: è il caso, ad esempio, della funzione, attribuita alle Camere dall’art. 24 della Costituzione, di controllo dell’azione governativa e di valutazione delle politiche pubbliche. Almeno nelle intenzioni iniziali, insomma, la Costituzione vigente si presenta come un elemento di stabilità a fronte di dinamiche del sistema politico caratterizzate piuttosto dall’incertezza e dall’apertura a molteplici esiti.


Fra solidarietà e responsabilità. A proposito del volume di Francesco Saitto Economia e Stato costituzionale. Contributo allo studio della “Costituzione economica” in Germania (Milano, Giuffrè, 2015)

Gli anni successivi all’erompere della crisi economica e finanziaria sono stati caratterizzati da un intenso dibattito sulla cornice costituzionale nelle materie dell’economia e delle finanze pubbliche. È sufficiente citare, facendo esclusivamente riferimento al caso italiano, l’annuncio di una revisione dell’art. 41 della Costituzione e, soprattutto, l’entrata in vigore della legge cost. n. 1/2012. In entrambi i casi, le soluzioni di diritto positivo e le discussioni scientifiche caratteristiche dell’ordinamento tedesco hanno rappresentato un punto di riferimento importante. La centralità della riflessione condotta su questi problemi dalla cultura giuridica tedesca è stata ulteriormente acuita dalle vicende che hanno originato importanti riforme nella struttura dell’Unione economica e monetaria: l’immagine di una “Europa che parla tedesco” – come anche, con una carica suggestiva ancora più forte, di un’“Europa tedesca” che finirebbe col fagocitare una “Germania europea”[i] – è stata ripetutamente evocata nel dibattito politico e costituzionalistico. Il punto di chiusura di tutte queste riflessioni dev’essere probabilmente rinvenuto nelle conseguenze del fermento suscitato dalla crisi per una ricostruzione aggiornata delle fattezze dello Stato costituzionale nel momento presente. Il lavoro monografico di Francesco Saitto su Economia e Stato costituzionale, di recente pubblicazione, si caratterizza per il tentativo di fare i conti con tutti questi nodi problematici calando l’analisi nelle discussioni e nelle vicende costituzionali di un ordinamento e di una cultura giuridica, quelli tedeschi, in cui tale dibattito appare particolarmente “ricco e profondo” (p. XII). Muovendo dalla constatazione che i rapporti “tra le diverse parti delle Costituzioni che hanno ad oggetto i vari aspetti dell’economico” – con particolare riguardo all’economia reale e alle finanze pubbliche – “appaiono ormai altamente integrati” (p. IX), l’opera propone uno studio della “Costituzione economica” in stretta correlazione con la “Costituzione finanziaria”, concentrando l’attenzione su un’esperienza costituzionale, quella tedesca, cui è attribuito un rilievo paradigmatico. Il libro si caratterizza allora per un tentativo – non frequente negli studi dedicati all’uno o all’altro profilo – di riflettere sui nessi tra Wirtschaftsverfassung e Finanzverfassung in uno Stato costituzionale ormai “aperto”. Si tratta cioè di riflettere criticamente e di prendere sul serio il classico insegnamento di Peter Badura, secondo cui “Die Finanz- und Haushaltspolitik ist ein Teil der Wirtschaftspolitik” (Wirtschaftsverfassung und Wirtschaftsverwaltung, IV edizione, Tübingen, Mohr Siebeck, 2011, p. 138).

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Alla ricerca del fondamento: a proposito dell’ultimo libro di Martin Loughlin

In un suo recente scritto Sabino Cassese, riflettendo sulla situazione attuale del diritto amministrativo e della sua scienza in Italia, rilevava che il diritto amministrativo vive oggi un significativo arricchimento delle tematiche studiate, cui si accompagna però una forte difficoltà metodologica; che l’appannamento del legame con la tradizione romanistica è sempre più causa di insicurezze e imprecisioni nell’impiego di concetti e termini fondamentali della disciplina; e, infine, che tra i due principali rami del diritto pubblico interno, il costituzionale e l’amministrativo, si è prodotta una divaricazione che appare difficilmente ricomponibile nel breve periodo (Lo stato presente del diritto amministrativo italiano, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”, 2010).

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