Russiagate: un’inchiesta pericolosa per la democrazia americana, a rischio crisi costituzionale?

L’inchiesta scottante del Russiagate che ha travolto lo staff del 45esimo Presidente degli Stati Uniti e lo stesso Trump, con indagini su presunte collusioni e ingerenze del Cremlino nell’elezione presidenziale del 2016, non finisce di destare grande scalpore e ingenerare pesanti polemiche da parte di diversi, e attualmente contrapposti, soggetti politici e istituzionali del Paese, nonché grande preoccupazione a livello interno e internazionale.
Le tappe, i protagonisti e i filoni d’indagine di una vicenda ormai di lunga data (che affonda le sue radici nella campagna elettorale delle scorse presidenziali americane del 2016), sono numerosi e complessi.
Non pare affatto semplice districarsi nelle maglie di una colossale inchiesta - ancora in parte sicuramente coperta da riservatezza, quando non insabbiata, e in parte pubblicizzata dai media e commentata in maniera infiammata dagli stessi soggetti a diverso titolo coinvolti (basti pensare ai poco ortodossi tweet del Presidente Trump) - che, ad oggi, non risulta per nulla conclusa ma, anzi, vede con incredibile e direi allarmante frequenza complicarsi e infittirsi, con nuove investigazioni e nuovi indagati, ulteriori informazioni e dettagli trapelati, interrogatori e intercettazioni, un susseguirsi contraddittorio di diversi memo e report - prodotti da soggetti politico-istituzionali di quelli che, ormai, sono opposti schieramenti - interamente o parzialmente divulgati. Inchiesta giudiziaria, conflitto politico, contrapposizione interna alla stessa compagine governativa, campagna mediatica, polarizzazione politico-sociale, questo e molto altro rappresenta il Russiagate. Ovviamente in ballo c’è, prima di tutto, la corruzione e la collusione con una grande potenza straniera, la Russia, che avrebbe manipolato, o tentato di condizionare, criminosamente la campagna elettorale delle ultime presidenziali. Non si sa ancora, non per certo, a danno e/o a favore di chi, fra Trump e la Clinton, queste manovre fossero dirette, e se i due ex candidati fossero attivamente e personalmente coinvolti nel tentativo di inquinare e manovrare i risultati elettorali.
Quello che si può senz'altro evidenziare sono la portata, la delicatezza e la gravità delle questioni in gioco, delle accuse reciprocamente mosse - e respinte - dalle parti, della conflittualità politica e istituzionale esasperata e della conseguente instabilità generale, della mancanza, o quantomeno del pregiudizio, della trasparenza, della collaborazione e della correttezza istituzionali ovvero dei rischi politici e istituzionali in agguato se non di una vera e propria crisi in corso (non manca chi tema, o minacci, il pericolo di una crisi costituzionale).
Nell’occhio del ciclone ci sono diversi soggetti dell’entourage del Presidente Trump, suoi esponenti familiari e, in modo più o meno diretto, il Presidente in persona.
Come se la situazione non fosse abbastanza grave e intricata, all’altro banco degli imputati troviamo ora lo stesso FBI e il Dipartimento di Giustizia, che dirigono le indagini (con manovre oltre il limite della legalità, secondo l’accusa), e ancora il Partito Democratico e l’ex Presidente Obama, sostenitori (fraudolenti) della candidata Hilary Clinton alle scorse elezioni.
Lo scontro è infuocato, la contrapposizione e la tensione alle stelle, le accuse reciprocamente mosse pesanti, le possibili future mosse della congerie di soggetti implicati – con differenti imputazioni, rivelazioni e prove più o meno compiutamente corroborate e solide – solo ipotizzate, i progressi delle indagini, quindi, gli esiti e l’impatto che avranno, nel breve e nel lungo periodo, rimangono ad oggi tanto imprevedibili quanto seri e allarmanti.
Fra le ultime novità del caso ricordiamo la decisione di un giudice federale, sulla base delle accuse mosse dal team del procuratore speciale Robert Muller, che ha disposto l’arresto, al posto dei domiciliari, per Paul Manaford, ex manager della campagna elettorale di Trump, per aver tentato di manipolare due testimoni coinvolti nell’inchiesta. A 2 anni dall’inizio delle indagini arriva la prima incarcerazione di un uomo dello staff di Trump che è accusato di attività di lobbying illecita con i russi che ne avrebbe favorito la vittoria elettorale. Il durissimo braccio di ferro fra il procuratore speciale che guida le indagini, Robert Muller (nominato dal numero due del ministero della Giustizia, Rod Rosenstein , dopo la rinuncia al controllo delle indagini da parte del segretario alla Giustizia nominato da Trump, Jeff Session, a causa di contatti avuti con funzionari russi in campagna elettorale e dopo il licenziamento del  direttore dell’Fbi, James Comey, da parte di Trump) e il Presidente Trump, vede il primo accusare l’altro, insieme ad esponenti del suo staff, di collusione con la Russia e ostruzione alla giustizia, e il secondo ribattere la sua totale estraneità ai fatti, nonché l’immunità da ogni incriminazione, tacciando l’inchiesta come viziata, faziosa e politicamente motivata a suo danno, una “caccia alle streghe”, incostituzionale come la nomina dello stesso Muller.
Se per l’Fbi il Russiagate significa collusione del Presidente e dei “suoi” con il Cremlino, per il Presidente rappresenta, al contrario, un complotto orchestrato da Hilary Clinton e i democratici, suoi avversari politici, per danneggiarlo, insomma una gigantesca cospirazione anti-Trump. Ricordiamo alcuni degli altri esponenti dello staff presidenziale coinvolti nell’inchiesta: Rick Gates (consigliere della campagna elettorale), George Papadopoulos (consigliere per la politica estera) e Micheal Flynn (ex capo del Consiglio per la Sicurezza nazionale e amico di Trump), ma anche il genero di Trump Jared Kushner,  la figlia Ivanka e il figlio Donald Jr. Questi sono solo alcuni dei soggetti vicini al Presidente su cui il procuratore Muller ha indagato o sta indagando senza pervenire ad alcuna prova veramente schiacciante della collusione diretta di Trump con Mosca per danneggiare la rivale Clinton alle elezioni e uscirne vincente. C’è inoltre la connessione con la faccenda dell’emailgate (e di Wikileaks) e l’accusa rivolta al ministero della Giustizia e all’Fbi, che sarebbe stato utilizzato politicamente dal Partito democratico e da Hilary Clinton, con l’appoggio di Obama, per raccogliere informazioni “viziate” contro Trump, con mezzi illegittimi. A sostegno della tesi dell’abuso di potere e di gestione “politicizzata” in chiave anti-Trump dell’inchiesta Russiagate c’è il memo “Nunes”, approvato dai repubblicani della Commissione Intelligence della Camera dei Rappresentanti che denuncia l’intento di danneggiare Trump dietro le indagini del Bureau investigativo. Si è arrivati, in pratica, ad indagare gli investigatori e ad incolpare gli accusatori, così come aveva richiesto, ritenendolo necessario, il principale legale di Trump, Rudy Giuliani, ex sindaco di New York.
La rete di sospetti, omertà, complicità, bugie, errori, abusi e illeciti si fa sempre più fitta e difficile da districare una volta per tutte. Che si tratti, fondamentalmente, di una “cospirazione” anti-Trump o, all’opposto, di una campagna “diffamatoria” per screditare l’Fbi e condizionarne l’indipendenza non è ancora dato saperlo. Che Trump abbia cercato e usufruito dell’appoggio di Mosca per danneggiare l’avversaria Clinton e grazie a queste manovre collusive e alla vicenda dell’emailgate abbia vinto le elezioni o che sia stata piuttosto quest’ultima, insieme ai “nemici” di Trump presenti nelle istituzioni, in particolare nell’Fbi, a “giocare sporco” e ad orchestrare le indagini del Russiagate, non è ancora sorretto da prove solide ed evidenti ed è, quindi, ancora tutto da dimostrare. Quanto tempo ancora ci vorrà per giungere alla verità piena e saperla tutta su questa brutta storia è difficile prevederlo. Di certo ci sono state delle gravi malefatte e dei retroscena oscuri, dei dietro le quinte criminosi su cui si spera si possa presto fare luce pienamente, nonostante l’impresa appaia, ad oggi, alquanto problematica e forse addirittura improbabile.
Quello che salta agli occhi - al di là dei tanti e confusi passaggi dell’inchiesta, delle accuse pesanti reciprocamente mosse dai protagonisti della vicenda, dei numerosi soggetti e delle istituzioni chiamati in causa e sospettati di attività e comportamenti quanto meno poco limpidi e regolari, delle dichiarazioni e delle rivelazioni, di segno opposto, che di volta in volta sono emerse -, è la situazione delicatissima e allarmante di instabilità e debolezza politica-istituzionale generalizzata, una traumatica polarizzazione e  una estrema conflittualità politica, nonché un segnale evidente di grave sfiducia e perdita di credibilità nelle istituzioni di Washington. Molti osservatori denunciano, dietro il Russiagate, la strisciante crisi istituzionale americana che rischierebbe di sfociare perfino in una vera e propria crisi costituzionale (così si è espresso, ad esempio, l’ex direttore della Cia, Leon Panetta e la minoranza democratica nel Congresso davanti alla possibilità che il Presidente Trump licenzi il viceministro alla Giustizia Rosenstein o il procuratore speciale Muller).
C’è in gioco la tenuta del sistema costituzionale e del suo insieme valoriale, messo a dura prova, quindi, nella tenuta dei suoi principi fondamentali, come la separazione dei poteri combinata ai checks and balances, ovvero a quei contrappesi finalizzati ad evitare che l’indipendenza necessaria dei poteri degeneri in tirannia o abusi. Ad emergere in questa faccenda, inoltre, sono tanti richiami alla storica vicenda del Watergate e alla Presidenza Nixon. È stato richiamato, ad esempio, il famigerato “privilegio dell’esecutivo”, ossia la possibilità di mantenere segrete le conversazioni del Presidente con i suoi collaboratori per esigenze di indipendenza e sicurezza dell’azione dell’esecutivo, ma sappiamo anche che, nella sentenza United States v. Nixon del 1974, la Corte Suprema ha evidenziato l’esistenza di importanti limiti a tale diritto dell’esecutivo alla riservatezza su notizie, colloqui e documenti d’ufficio, ovvero qualora la loro conoscenza sia indispensabile per l’accertamento dei fatti nella definizione di cause penali.
A tornare alla mente è stato anche il c.d. “massacro del sabato sera”, l’episodio che ha visto il Presidente Nixon licenziare il procuratore speciale d’allora, Archibald Cox, che guidava le indagini del Watergate.
Il Presidente Trump, avvertito sull’effetto catastrofico della sua intenzione di estromettere il procuratore speciale Mueller dalle indagini - così come quella stessa decisione costituì, a suo tempo, il “suicidio” politico di Nixon, che si trovò poi costretto alle dimissioni per scampare ad un sicuro impeachment - ha rinunciato a procedere al licenziamento in extremis. Di intralcio alla giustizia e di segnale di autoritarismo alla Nixon si è parlato anche a seguito di alcune decisioni di licenziamento anzitempo da parte di Trump, ad esempio alla cacciata del direttore dell’Fbi, James Comey, anche se c’è pure chi ha difeso e rivendicato il diritto costituzionalmente garantito del Presidente di licenziare ministri e direttori delle agenzie governative a suo insindacabile giudizio, dimenticando la pronuncia, in senso contrario, della Corte Suprema, nel caso Morrison v Olson del 1988, riguardante la revoca presidenziale proprio di un procuratore speciale.
Si è discusso molto, anche, della possibilità che il Presidente Trump sia chiamato a rispondere alle domande che il procuratore Muller vorrebbe porgli, riguardanti, fra l’altro, il sospettato tentativo di ostacolare la giustizia posto in essere dal Presidente, in vario modo, nel corso delle indagini. Ricordiamo, inoltre, come Bill Clinton fu costretto dalla Corte Suprema a comparire davanti al grand jury nell’inchiesta su Monica Lewinski. Questo precedente prospetta l’eventualità che in caso di rifiuto di Trump a farsi interrogare da Mueller questo potrebbe citarlo davanti al grand jury e in caso di un’ulteriore opposizione si potrebbe finire alla Corte Suprema.
I legali di Trump hanno risposto con l’inammissibilità che un Presidente in carica possa essere convocato in giudizio o incriminato avendo dalla sua lo “scudo presidenziale” dell’immunità  e potendo inoltre esercitare il suo potere costituzionale di grazia, perfino verso se stesso. Una fetta consistente dell’opinione pubblica (sul New York Times e sulla stampa “liberal”), anche in questa circostanza spaccata dalla serie di scandali e dichiarazioni contraddittorie sul Russiagate, reagisce, comprensibilmente, con sdegno allarmistico alla possibilità che il Presidente venga, di fatto, considerato un “untouchable”, improcessabile, alla stregua di un re al di sopra della legge e della Costituzione e possa, quindi, rimanere impunito, anche qualora davanti a prove schiaccianti, almeno finché rimanga in carica.
Il Presidente, infatti, non è chiamato a rispondere degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, secondo quanto stabilisce la sentenza Nixon v. Fitzgerald (1982), mentre resta sempre responsabile, in base a Clinton v. Jones (1997), anche durante il suo mandato, per atti compiuti al di fuori delle funzioni della sua carica. La Corte Suprema, in quest’ultima occasione, non riconobbe l’immunità presidenziale da azioni civili per fatti compiuti prima dell’assunzione del mandato e i fatti oggi contestati riguarderebbero Trump prima della sua elezione. Inoltre nel giustificare l’immunità per i pubblici ufficiali, la Corte vi ha ravvisato la necessità di prevenire un’atmosfera di intimidazione ingiustificata che sarebbe in conflitto con lo svolgimento regolare, corretto e “tranquillo” delle funzioni loro attribuite e, ancora, nella decisione Nixon v. Fitzgerald aveva ribadito come «la sfera delle azioni protette deve essere strettamente connessa ai fini che giustificano l’immunità». Non è possibile, ovvero, sostenere la tesi della obbligatoria sospensione dei processi -  o dell’improcedibilità a giudizio -durante il mandato del Presidente per illeciti “extrafunzionali”, soprattutto se antecedenti, che non riguardino il potere di eseguire i doveri del suo ufficio senza alcuna ostruzione e impedimento dovuto ad azioni legali promosse da oppositori politici per ragioni politiche.
Un Presidente in carica non ha diritto all'immunità assoluta dal contenzioso legale derivante da eventi emersi prima del suo insediamento. Questo, a mio avviso, non può che essere considerato indubbio, nonostante risulti, invece, alquanto controversa e ampiamente dibattuta, in quanto non ben specificata dalla Corte Suprema che rimane ambigua sul punto, la dimensione dell'immunità necessaria, per ragioni attinenti alla garanzia della separazione dei poteri, a preservare la capacità del Presidente di svolgere “serenamente” le funzioni del suo ufficio.
Il grande rispetto e la dignità dovute all'ufficio esecutivo - per unicità, delicatezza e importanza dei compiti attribuiti -, insieme alla dottrina della separazione dei poteri, non sono elementi sufficienti a giustificare un'immunità presidenziale assoluta. L'indipendenza dell’azione del governo, sicuramente protetta dalla Costituzione, non proibisce ma anzi richiede che le diverse branche del governo possano effettuare il controllo l'una sull'altra, affinché l’esercizio dei poteri di ciascuna si mantenga nei limiti costituzionalmente previsti. La Casa Bianca non può e non dovrebbe mai rappresentare la roccaforte che permette ai suoi inquilini di violare la legge, di porsi al di sopra della Costituzione e rimanere impuniti.
L’unica strada per “accusare” un Presidente e sentenziarne la colpevolezza rimarrebbe, a detta di molti, esclusivamente quella “politica” dell’impeachment che comporta soltanto l’interdizione dai pubblici uffici, lasciando aperta la strada dell’accertamento successivo di eventuali responsabilità civili e penali e della comminazione di corrispondenti sanzioni da parte delle autorità giudiziarie competenti. Ma anche qui c’è ampio disaccordo su cosa debba intendersi per “high crimes and misdemeanors”, manca un’interpretazione pacifica sulla natura prevalentemente politica o giurisdizionale dell’istituto e, in definitiva, non è chiaro che ampiezza abbia la discrezionalità del Congresso nell’attivare il procedimento, che rappresenta, indubbiamente, un’arma politica potentissima (e per questo utilizzata solo in tre occasioni durante l’intera storia americana).
La messa in stato d’accusa, con i capi d’imputazione dell’abuso di potere, dell’ostruzione alla giustizia, della corruzione o della falsa testimonianza, promossa, a maggioranza semplice, dalla Camera dei Rappresentanti deve poi essere approvata dal Senato, presieduto dal Chief Justice della Corte Suprema, col voto dei 2/3. Ecco che per pensare di attivare la procedura e vederne approvata la destituzione dall’incarico occorrerà quantomeno aspettare le elezioni di midterm di novembre 2018 quando la maggioranza al Congresso potrebbe cambiare e non essere più tanto favorevole a Trump. Solo la prospettiva di un ribaltamento dei rapporti di forza all’interno del Congresso all’indomani delle mid-term election potrebbe, ad oggi, aprire la strada dell’avvio del procedimento congressuale di Impeachment. L’alternativa costituzionale rimane quella, non meno difficoltosa e ancora più remota e improbabile, del XXV emendamento, che porterebbe a decretare, con i due terzi dei voti di ambedue le camere e dopo complessi e aggravati procedimenti, l’inabilità e incompetenza del Presidente a ricoprire la carica ed assolvere ai compiti del suo ufficio.
Che attualmente gli Stati Uniti si trovino sull’orlo di una crisi costituzionale o meno non toglie il fatto che la situazione emersa, e quella sicuramente ancora sommersa, dalle indagini del Russiagate è sintomo evidente, comunque vada a finire, di un grave deterioramento delle regolari forme di opposizione/scontro politico, nonché di corruzione e degenerazione dei normali meccanismi di funzionamento delle istituzioni e quindi anche delle ordinarie dinamiche di governo, risultando compromesso l’equilibrio e il reciproco rispetto fra i poteri; quindi a rischio, a mio parere, è la stessa democrazia che di tutto questo ne è presupposto fondamentale e cornice imprescindibile.


Il giudiziario at the bar of politics. La countermajoritarian difficulty nello scontro politico-giuridico sul “muslim ban” del Presidente Trump: una riflessione

L’annosa ed estremamente controversa questione della legittimità democratica della funzione del controllo di costituzionalità (judicial review) nelle mani del potere giudiziario (federale) e al suo vertice della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America viene analizzata alla luce delle vicende legate all’adozione dell’executive order del Presidente Trump in materia di immigrazione (“Protecting the Nation from foreign terrorist entry into the United States”, ribattezzato dai mediaMuslim ban”e modificato due volte) che ha ingenerato accese polemiche nell’opinione pubblica e numerosi ricorsi al circuito giudiziario. Nella dinamica plurale e multilivello dei poteri statunitensi si innesca quel particolare cortocircuito rappresentato dalla giustizia costituzionale la quale consente, di fatto, di giungere ad identificare la volontà del popolo o costituente, solennemente impressa nella Costituzione, nella volontà del potere giudiziario e soprattutto della Corte Suprema, che di quella volontà si fa interprete e garante inappellabile attraverso il controllo dei poteri costituiti, rappresentanti della volontà popolare. La contemporanea e contraddittoria incompatibilità/necessità della judicial review accanto al principio democratico-costituzionale verrà osservata all’interno del recente scontro, ad un tempo giuridico-legale e politico, sui decreti esecutivi adottati dal Presidente Trump in tema di chiusura delle frontiere a determinate categorie di individui per ragioni di sicurezza nazionale. Emergeranno, attualizzati, tutti i temi caldi del dibattito sulla countermajoritarian difficulty, ci si interrogherà sul ruolo ermeneutico e di protezione della Costituzione esercitato dal giudiziario federale e se e a quali condizioni l’operato dalla Corte Suprema possa rappresentare un elemento imprescindibile e positivo, nonostante la lamentata carenza in termini di rappresentatività e responsabilità democratica, di equilibrio sistemico e democratico.