Il diritto all’asilo e la nebulizzazione dell’indirizzo politico: cosa racconta Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant?

La decisione della Corte Suprema nel caso Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant (588 U. S. __ (2019) ha guadagnato la dignità sostanziale di sentenza benché si tratti di un decreto di sospensione, privo di motivazione e, però, accompagnato da una brevissima dissenting opinion, firmata da Justice Sotomayor e condivisa da Justice Ginsburg.
La sospensione colpisce due ordinanze della corte distrettuale dello Stato della California, con le quali era stata bloccata l’applicazione della rule 16 luglio 2019 (84 Fed. Reg. 33829), adottata dal Department of Justice di concerto con il Department of Homeland Security. Il provvedimento normativo inibisce la presentazione di domande di asilo e di protezione internazionale agli immigrati che giungono alla frontiera meridionale degli Stati Uniti, avendo precedentemente attraversato il Messico ovvero altro paese terzo senza aver ivi richiesto rifugio. L’esecutivo, nella memoria di costituzione in giudizio in sede di ricorso presentato da un’organizzazione umanitaria, spiega la ratio della nuova regola in questi termini: la circostanza per cui gli immigrati non si premurano di richiedere asilo o analoga forma di protezione internazionale nei paesi che attraversano prima di giungere al confine testimonia che non si tratta di soggetti in fuga da situazioni di pericolo imminente, bensì di migranti economici che scelgono liberamente gli Stati Uniti come stato di residenza. La spiegazione non soddisfa la corte di distretto che adotta, in due occasioni, preliminary injunctions così arrestando l’applicazione della regola. Il governo appella la decisione presso la corte del Ninth Circuit e, a fronte del diniego di quest’ultima che decide di procedere nel merito, chiede alla Corte Suprema la sospensione delle due ordinanze di primo grado. Il collegio concede la sospensiva e consente in tal modo all’esecutivo di realizzare la nuova policy in materia di immigrazione.
La sospensione è insomma una vittoria per Trump, soprattutto ove si consideri che, da quasi due anni, la presidenza è costretta a difendere la disciplina dell’immigrazione in diverse sedi giudiziarie. Alcune corti di distretto hanno, per esempio, bloccato l’applicazione del travel ban, il decreto presidenziale che vietava l’ingresso a tutti i cittadini provenienti da sette paesi individuati come ricettacoli di estremismo e terrorismo, attraverso preliminary injunctions a effetti generali, applicabili cioè erga omnes. La questione ha generato uno scontro tra magistratura ed esecutivo, culminato in dichiarazioni di Trump dalle quali Justice Gorsuch, allora udito in Senato per la conferma della sua nomina, ha dovuto prontamente dissociarsi, onde assicurarsi la ratifica della designazione presidenziale. L’intervento della Corte Suprema ha infine risolto lo scontro. Secondo il Collegio il Presidente gode, infatti, del potere di vietare l’ingresso agli stranieri che egli reputi costituire un pericolo per gli interessi del Paese (Trump v. Hawaii, 138 S.Ct. 2392).
Archiviato il travel ban, l’Amministrazione si concentra ora sul diritto all’asilo. La decisione di concedere lo stay of proceedings si inserisce, dunque, in questo contesto e merita lo spazio per una riflessione per almeno due ragioni. La prima è di politica del diritto: la sospensione lascia supporre che la Corte intenda occuparsi della disciplina dell’immigrazione, inserendola nel docket del prossimo anno giudiziario se, come è assai probabile, la sentenza del Ninth Circuit dovesse essere appellata. La seconda ha invece a che fare con le questioni giuridiche sollevate dal caso, rispetto alle quali la Corte Suprema ha in realtà espresso solo una minima valutazione di merito: attraverso la decisione di restaurare il vigore del provvedimento normativo che quelle ordinanze avevano bloccato, infatti, i giudici supremi hanno dubitato l’esistenza del fumus boni iuris, ossia la plausibilità di una vittoria nel merito del ricorso avverso la legittimità della rule. In altri termini, per la Corte quel provvedimento non è patentemente viziato e, dunque, può restare in vigore nelle more del giudizio pendente davanti alla corte di circuito. Nulla di più si può ricavare sulla posizione della Corte, poiché non è escluso che un eventuale vaglio di costituzionalità conduca il collegio a conclusioni diverse. E ciò perché, a differenza della decisione Trump v. Hawaii, la vicenda in commento solleva un problema che attiene immediatamente ai diritti fondamentali, più che all’ampiezza dei poteri dell’esecutivo in materia di immigrazione.
A ben vedere, la rule adottata nel luglio 2019 riduce sensibilmente la titolarità del diritto all’asilo negli Stati Uniti. La circostanza è evidente se si consideri l’asylum statute (94 Stat. 105, codificata nel 8 U. S. C. §1158. See §1158(b)(2)(C)). Quest’ultimo prevede, infatti, che qualunque non cittadino possa chiedere asilo negli Stati Uniti, benché con talune puntuali eccezioni. Per esempio, la domanda di asilo può essere trasferita altrove o negata quando il non cittadino può essere ricollocato in un terzo paese sicuro. Inoltre, la legge sull’asilo chiarisce che l’eventuale normativa secondaria deve essere coerente con le previsioni della legge stessa. La nuova regola, invece, contempla un’eccezione generalizzata per tutti coloro che attraversano il confine meridionale degli Stati Uniti, a meno che essi non provino di aver infruttuosamente chiesto asilo in Messico o in altro paese del Sud America.
Dal punto di vista del diritto comparato, la regola si presta a essere letta come un esempio di trapianto giuridico decontestualizzato. Il diritto internazionale impone alle autorità nazionali competenti di procedere all’esame delle domande di asilo di coloro che ne facciano richiesta. Durante la procedura di esame, lo straniero è assistito da una serie di tutele e, soprattutto, ha il diritto di avere il proprio caso individualmente vagliato dallo Stato al quale chiede protezione. A ben vedere, la disposizione sull’escludibilità delle domande di asilo presentate da soggetti per i quali gli Stati Uniti non sono il paese di “primo approdo” ripropone la logica interna al cosiddetto sistema di Dublino, il quadro legislativo che coordina la gestione del fenomeno migratorio nell’Unione europea. Ora, in questo contesto, un Paese Membro può legittimamente declinare la propria competenza a decidere sulla richiesta di asilo o protezione internazionale del cittadino di paese terzo che abbia precedentemente raggiunto un altro paese europeo ove ha presentato o poteva presentare domanda di asilo. La finalità è quella di evitare una sorta di country shopping all’interno dell’UE, posto che si presume che le situazioni autenticamente meritevoli di protezione richiedano un’assistenza immediata e siano incompatibili con l’idea per cui il soggetto interessato abbia il tempo di scegliere il paese che più gli aggrada. Solo che questa logica regge perché l’Unione si propone di essere un ordinamento all’interno del quale la responsabilità per la gestione del fenomeno migratorio e per la tutela dei diritti è condivisa, sull’assunto dell’esistenza di un’integrazione politica delle comunità statali. Tanto è vero che il trasferimento dell’onere di esaminare le domande di asilo è pur sempre condizionato alla circostanza per cui il paese individuato in via sussidiaria offra effettive garanzie (in specie il diritto a chiedere asilo). Si tratta di una premessa di cui la rule del luglio 2019 non si cura affatto. In altri termini, nel quadro europeo, la previsione di ipotesi di esclusione dell’obbligo di procedere all’esame delle domande di asilo e protezione internazionale riflette un principio di coordinamento tra gli stati nell’obiettivo della responsabilizzazione di tutte le comunità politiche. Nel contesto americano, quella stessa previsione si traduce nell’attribuzione al migrante dell’onere di individuare prontamente le autorità competenti in uno dei paesi che attraversa, a prescindere dall’esistenza di effettivi strumenti per ottenere asilo o altra forma di protezione internazionale. In ultima analisi, la rule priva i migranti di un effettivo diritto di asilo, in aperta violazione del diritto internazionale.
Ora, questa Corte, incline a riconoscere al presidente un’ampia discrezionalità in materia di immigrazione e modestamente sensibile al diritto internazionale, potrebbe non prestare attenzione a questi profili. Tuttavia, la vicenda sottesa ad Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant verte anche su un’altra questione, assai più insidiosa per questo collegio. Infatti, la rule in questione è stata adottata, come rimarca la dissenting opinion di Justice Sotomayor, attraverso una unorthodox rulemaking procedure, ossia in assenza delle procedure consultive che la legge sul procedimento amministrativo richiede al governo federale e alle agenzie di esperire prima di emanare regolamenti e/o altri provvedimenti equiparabili. Curiosamente proprio la Presidenza Trump ha individuato nei procedimenti normativi eterodossi uno dei problemi essenziali del funzionamento dello stato federale. Nella prospettiva del Presidente, le agenzie e gli apparati burocratici amministrativi del governo sono responsabili per uno sviamento della definizione dell’indirizzo politico, compromesso dall’adozione di regole di attuazione o esecuzione di leggi secondo procedure informali, e per una mortificazione del ruolo del Congresso, posto che quelle procedure mirano ad aggirare il confronto parlamentare sui contenuti puntuali dei provvedimenti normativi. I membri repubblicani del Congresso sono del medesimo avviso e, infatti, sono due le proposte di legge all’esame dell’assemblea volte a limitare il ricorso a procedimenti di questa natura (v. N. Palazzo, G. Romeo, Who fears the big government? A coordinated attempt to downsize agencies’ power in the United States, in Global Jurist, 1, 2018). Il caso Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant evidenzia, dunque, una contraddizione interna alla linea politica del Presidente e del Congresso a maggioranza repubblicana.
La nuova regola sull’esclusione delle domande di asilo e di protezione internazionale non solleva, insomma, solo un problema di diritto dell’immigrazione. Essa apre spazi di riflessione anche sulla questione dell’equilibrio tra poteri all’interno di un sistema democratico. Con un atto normativo secondario, infatti, è stato praticamente riscritto il perimetro del diritto all’asilo negli Stati Uniti, deresponsabilizzando il Congresso. La circostanza manifesta un fenomeno evidente anche in altri settori: la nebulizzazione dell’indirizzo politico in una serie di provvedimenti normativi secondari di incerta natura, data l’assenza di procedure formalizzate per la loro adozione, e di oscura base giuridica, posto che la legislazione primaria impone invece congruenza a quei provvedimenti. Rispetto a questo tema, la tenuta del blocco conservatore, a difesa della rule, è da verificare, data anche la sensibilità di alcuni membri del collegio rispetto alla necessità di ridimensionare, nella sede dell’interpretazione, il peso delle regole prodotte dalle agenzie federali che costituiscono gli apparati burocratici del governo (v. per esempio lo statement di Gorsuch J. nel caso Scenic America v. Department of Transportation, 583 U. S. __ (2017)).
Il problema non è tutto americano. In Italia, la cosiddetta chiusura dei porti è avvenuta per il tramite di circolari ed email, la cui coerenza con il resto delle norme dell’ordinamento giuridico è apprezzabile solo nella sede del conflitto e, dunque, davanti al giudice. Ne risulta che la gestione dei flussi migratori è divenuta un terreno di scontro tra istituzioni politiche e magistratura. Le prime mostrano, talvolta, di concepire la gestione dell’immigrazione come il tema su cui si riflette la sovranità dello stato e tendono a operare un collegamento tra esercizio della sovranità e legittimazione democratica. Si tratta di un collegamento che non regge neppure sul piano teorico-dogmatico. In primo luogo, tra legittimazione democratica ed esercizio libero della sovranità c’è di mezzo la costituzione e il principio di costituzionalità. In secondo luogo, la legittimazione democratica può essere invocata, dalle istituzioni politiche di un ordinamento che si regge sul principio di legalità e sulla rule of law, solo ove il potere è esercitato nelle forme e secondo gli strumenti previsti dall’ordinamento. In questo senso, Attorney General v. East Bay Sanctuary Covenant non è solo un decreto di sospensione di due ordinanze, è una piccola manifestazione drammatica delle ricadute giuridiche di indirizzi politici caoticamente attuati perché di dubbia tenuta costituzionale e di incerto appoggio parlamentare.


Esercizi di common law constitutional interpretation: Obergefell v. Hodges e il diritto fondamentale al matrimonio tra persone dello stesso sesso


1.
Nel corso dell’ultimo anno, il movimento a favore dei diritti delle coppie omosessuali ha ottenuto una serie di vittorie, dal referendum irlandese alla recentissima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Oliari c. Italia. A nessuna di queste vittorie è però stato attribuito, sul piano mediatico e sul quello lato sensu politico, lo stesso significato di cui è stata tributaria la pronuncia della Corte Suprema nel caso Obergefell v. Hodges, sia per il ruolo trainante del modello americano, sia per l’inequivocabile affermazione del carattere fondamentale del diritto al matrimonio tra le coppie dello stesso sesso.

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Le tentazioni scettiche della constitutional adjudication: la Corte suprema e i diritti politici dopo Alabama Legislative Black Caucus v. Alabama

1. – La dottrina americana segnala, ormai da tempo, la progressiva politicizzazione del sindacato di costituzionalità, sempre meno restio a indugiare sui temi che attengono ai processi politici e, in particolare, al diritto di voto [v. R. Hasen, Racial gerrymanfering, partisan politics, and the future of Voting Rights Act, SCOTUSBlog (Oct. 30, 2014) ]. Nonostante i moniti, da ultimo presidenziali, la Corte suprema continua infatti, a rendere pronunce ad alto tasso di politicità, peraltro in una sequenza che lascia poco margine alla sedimentazione delle soluzioni tanto nel formante dottrinale quanto in quello legislativo. Così, i costituzionalisti hanno atteso la pronuncia nel caso Alabama Legislative Black Caucus et al. v. Alabama et al. (U.S. 545 __ (2015), App. n. 13-895, causa riunita con Alabama Democratic Conference et al. v. Alabama et al., App. n. 13-1138) in tema di gerrymandering con la trepidazione normalmente riservata alle pronunce di portata in qualche misura epocale. Soprattutto, hanno atteso nella pressoché diffusa sensazione che il risultato fosse imprevedibile e, al più, divinabile sulla base delle affermazioni, peraltro piuttosto laconiche, dei Justices in occasione dell’udienza pubblica. E infatti il risultato non era affatto previsto: Justice Breyer riesce a coagulare il blocco liberal attorno ad una soluzione narrowly tailored, che proprio per la sua natura di decisione puntualmente costruita attorno al caso di specie riesce a ottenere lo swing vote di Kennedy, ma, al contempo, non si candida come precedente autorevole per la soluzioni di questioni analoghe.

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Time is (finally) ripe: la Corte Suprema degli Stati Uniti ridefinisce il bilanciamento tra il diritto alla privacy e le nuove tecnologie

Riley v. California è una decisione attesa e comunque sorprendente. Con la sentenza in questione, la Corte Suprema degli Stati Uniti estende le tutele contenute nel IV Emendamento alle perquisizioni che hanno per oggetto i telefoni cellulari, chiarendo che per procedere alla ricerca e all’esame dei dati contenuti nei telefoni mobili è necessaria un’autorizzazione giudiziaria.

La pronuncia era attesa perché il Collegio si è misurato di frequente con il tema del diritto alla privacy e delle violazioni perpetrate e perpetrabili attraverso l’impiego di dispositivi tecnologici senza mai giungere ad  esplicitare un principio di diritto in grado di assumere il valore di precedente. La pronuncia è sorprendente perché resa all’unanimità su un tema complesso e, soprattutto, sempre divisivo per la Corte presieduta dal Chief Justice Roberts.

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La Corte divisa: difesa delle prerogative statali e tendenze progressiste nel caso Hollingsworth v. Perry

Non è insolito che le Corti costituzionali, alle prese con la soluzione di questioni giuridiche particolarmente complesse, ripieghino sulla discussione di profili procedurali, dotati magari di estremo tecnicismo, al fine di sciogliere nella dissertazione dotta le insidie che si annidano nella soluzione sostanziale (su questi aspetti, ma con specifico riferimento alla realtà italiana, devono essere richiamate almeno le riflessioni di S. Rodotà, La Corte, la politica, l’organizzazione sociale, in Politica del diritto, 1982, 171, spec. 185).  Può sorprendere forse che questa strada sia stata scelta dalla Corte suprema statunitense proprio in relazione al tema su cui si è pronunciata nel medesimo giorno, con la sentenza che dichiara incostituzionale il Defense of Marriage Act. Eppure, nella pronuncia Hollingsworth v. Perry (No. 12-144, 570 U.S.__ (2013)) il Collegio si ferma all’esame di un profilo procedurale e dichiara inammissibile il ricorso, presentato dal comitato promotore del referendum, avverso la sentenza della Corte distrettuale con cui era stata dichiarata incostituzionale la cosiddetta Proposition 8, ovvero l’emendamento costituzionale con approvazione referendaria che sanciva il carattere eterosessuale del matrimonio. Con una maggioranza di cinque giudici, la Corte stabilisce che il comitato promotore della consultazione popolare non gode dello standing to sue, non essendo legittimato a rappresentare l’interesse dello Stato nell’ambito del contenzioso federale. In particolare, la legittimazione a stare in giudizio è esclusa non dall’affermazione del principio di diritto per cui il comitato promotore del referendum non possa ricorrere avverso il provvedimento giudiziale che annulla l’emendamento per contrarietà ai principi costituzionali, ma per la più circoscritta motivazione, legata al caso di specie, per cui i pubblici ufficiali incaricati dell’applicazione della legge sul matrimonio hanno rinunciato a ricorrere in giudizio e optato per la disapplicazione della normativa statale che non riconosce il matrimonio delle same-sex couples.

Il Chief Justice Roberts, che redige la sentenza, consegna ai lettori una sorta di compendio di diritto processuale costituzionale, in cui il tema della legittimazione a stare in giudizio è affrontato con abbondanti riferimenti giurisprudenziali e un’inedita prospettiva di diritto statale comparato. Il presidente della Corte riesce a coagulare una maggioranza di cinque, assolutamente trasversale, nella quale convergono praticamente tutti i giudici di orientamento progressista, con l’eccezione di Justice Sotomayor, che aderisce alla dissenting opinion di Kennedy.

Il disegno seguito dal Collegio sembrerebbe tutto sommato coerente: per un verso, chiarisce che la Federazione non può imporre agli Stati di concepire il matrimonio come necessariamente eterosessuale (con la sentenza US v. Windsor, su cui v. il commento di M. Winkler pubblicato qui), per l’altro, decide sostanzialmente di non interferire con le decisioni assunte dal livello decentrato di governo. Eppure, tra le due sentenze, gli equilibri della Corte sono talmente diversi che c’è da dubitare che essa abbia avuto a cuore, in primo luogo, la conservazione di una sorta di “federalismo matrimoniale” (sul quale sia consentito il rinvio a G. Romeo, The recognition of same-sex couples’ rights in the United States between counter-majoritarian principle and ideological approaches: a State level perspective, in D. Gallo, L. Paladini, P. Pustorino (eds.), Same-Sex Couples before National, Supranational and International Jurisdictions, Berlin, Springer, forthcoming 2013).

La questione sollevata dai ricorrenti verteva sulla conformità dell’emendamento costituzionale che definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna alla clausola dell’equal protection of law. La decisione non avrebbe soltanto avuto implicazioni in termini di rapporti Stato-Federazione, ma avrebbe anche suscitato una pronuncia su un tema, l’equal protection, che questa Corte appare, in via generale, piuttosto restia a trattare (soprattutto nel term in cui sono state decise Shelby County v. Holder e Fisher v. University of Texas at Austin). La stessa ricostruzione del thema decidendum avrebbe creato non pochi problemi al Collegio, riaprendo almeno la questione delle classi sospette e della scelta del livello di scrutinio. Avrebbe imposto, poi, di affrontare il nodo della fondamentalità, anche nel senso di escluderla, del right to marry e, non da ultimo, avrebbe provocato un effetto domino su tutte le Costituzioni statali in cui sono stati introdotti, per via legislativa o referendaria, emendamenti ad hoc per estromettere le persone dello stesso sesso dall’istituto matrimoniale (in dettaglio: Alabama (Am. 774(d)); Alaska (Art. 1, sec. 25); Arizona (Art. XXX); Colorado (Art. II, sec. 31); Florida (Art. I, sec. 27); Georgia (Art. I, sec. IV); Idaho (Art. III, sec. 28); South Carolina (Art. XVII, sec. 15); South Dakota (Art. XXI, sec. 9); Kansas (Art. XV, sec. 16); Kentucky (sec. 233 A); Louisiana (Art. XII, sec. 15); Michigan (Art. I, sec. 25); Mississippi (Art. XIV, sec. 263A); Missouri (Art. I, sec. 33); Montana (Art. XIII, sec. 7); Nebraska (Art. 1, sec. 29); North Carolina (Art. XIV, sec. 6); North Dakota (Art. XI, sec. 28); Ohio (Art. XV, sec. 11); Oklahoma (Art. II, sec. 35); Tennessee (Art. XI, sec. 18); Texas (Art. I, sec. 32); Utah (Art. I, sec. 29); Virginia (Art. I, sec. 5-A)). I giudici costituzionali hanno forse voluto evitare questo banco di prova oppure, più probabilmente, hanno voluto scongiurare, come pure sembra svelare Il Chief Justice nelle battute iniziali della pronuncia, la “portata contro-maggioritaria” di una sentenza in cui il processo di decisione giudiziale si salda inevitabilmente con il processo politico-costituzionale, per di più al livello statale.

La soluzione privilegiata però non è appagante e, per certi aspetti, ancora più invasiva della sovranità statale. L’esclusione della legittimazione a stare in giudizio, infatti, si presenta come l’esito di un’interpretazione tendenzialmente autoreferenziale, che esclude espressamente la rilevanza della disciplina statale, così come ricostruita dalla Supreme Court dello Stato della California (in questa prospettiva v. peraltro la d.o. di Justice Kennedy, p. 3-4). La lettura fornita dalla corte statale riconosce, infatti, lo standing to sue al comitato promotore del referendum, non soltanto nelle fasi precedenti l’indizione della consultazione, ma anche a votazione conclusa. Il Collegio invece rivendica l’autonomia dell’interpretazione della legge statale ai fini dell’applicazione della disciplina federale relativa alla legittimazione a stare in giudizio. Kennedy scrive un’opinione dissenziente dai toni insolitamente polemici nei confronti della maggioranza, che senza mezzi termini accusa di miopia per aver deciso «to misconstrue principles of justiciability to avoid [the] subject».

L’affermazione è condivisibile, se non altro nella denuncia della precisa volontà della Corte di evitare la questione al centro della controversia. Tale volontà però potrebbe non dipendere tanto dal thema decidendum, quanto piuttosto dalla circostanza per cui esso sia al centro di una fitta dialettica tra corti, legislatori e opinione pubblica nella quale i giudici costituzionali intendono, per il momento, non entrare. L’iniziativa popolare che ha condotto all’adozione della Proposition 8, infatti, ha seguito a stretto giro la sentenza della Corte Suprema californiana con cui era stato riconosciuto il diritto delle persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio (il noto In Re Marriage Case). In molti Stati, la giurisprudenza favorevole al same sex marriage ha suscitato reazioni contrarie da parte del legislatore oppure da parte dell’opinione pubblica (le vicende sono ricostruite puntualmente da M.J. Klarman, From the Closet to the Altar: Courts, Backlash, and the Struggle for Same-Sex Marriage, Oxford UP, Oxford, 2013), anche se la maggioranza degli americani sembra oramai propendere, peraltro cambiando orientamento nel breve volgere di un quinquennio, per il riconoscimento del right to marry alle persone dello stesso sesso (D. Cole, Getting Nearer and Nearer, in The New York Review of Books, Jan. 10th 2013, disponibile all’indirizzo www.nybooks.com/articles/archives/2013/jan/10/getting-nearer-and-nearer). La Corte, in altri termini, sembra voler rimanere spettatrice, ancora per qualche tempo, del discorso pubblico, suscitato dal confronto tra i diversi formanti del diritto costituzionale statale. La vocazione contro-maggioritaria della giurisprudenza costituzionale cede, dunque, il passo al dibattito democratico.

Ad ogni modo, la decisione rivela la fase di transizione degli equilibri del Collegio. Per un verso, esso si conferma ancora fortemente influenzato dalle sue anime conservatrici, restie al riconoscimento, soprattutto attraverso la clausola dell’equal protection, di nuovi diritti che non si presentino inequivocabilmente come l’espressione di esigenze di tutela diffuse e radicate nella società americana; per l’altro comincia ad avvertire le influenze della componente liberal che pur aderendo all’escamotage procedurale indicato dal Chief Justice, finisce per ottenere un risultato favorevole nella sostanza alla causa delle same sex couples.

Le due pronunce consegnano agli Stati la libertà di riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso e sesso, mentre la Federazione si impegna a riconoscere gli effetti dell’unione sul piano del diritto federale. Il risultato è ottenuto senza dedicare neppure una parola alle suspect classes, all’equal protection, ai  fundamental rights. È una Corte con una modesta tendenza alla ricostruzione in chiave costituzionalistica delle controversie, con una certa ritrosia ad affrontare i nodi più spinosi del dibattito costituzionale americano, ma forse con un’invidiabile sensibilità per la soluzione pratica degli hard cases.


I civil rights al tempo del secondo mandato presidenziale di Barack Obama

Il discorso offerto dal Presidente Obama in occasione dell’inaugurazione del secondo mandato rappresenta una sintesi efficace delle tensioni che l’America si prepara ad affrontare nel prossimo futuro sul piano dell’ordinamento giuridico. Nelle pagine di cui è stata autorizzata la pubblicazione (reperibili all’indirizzo internet: www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/01/21/inaugural-address-president-barack-obama) vi è un po’ di tutto: dalla tenuta della riforma sanitaria, all’ideologia del libero mercato sostenibile e socialmente sensibile, dalle affermative actions ai diritti delle coppie omosessuali, dal diritto a portare le armi alla tematica dell’immigrazione. In ognuno di questi temi è manifesta una sorta di chiamata alla corresponsabilità rivolta alla Corte Suprema. E, in effetti, su molti di questi temi, i giudici costituzionali hanno avuto modo di esprimersi nel corso degli ultimi anni, in direzioni qualche volta contrastanti rispetto agli indirizzi politici dell’attuale Presidente. L’esempio più significativo è forse rappresentato da Mc Donald v. Chicago, la decisione con cui la Corte ha dichiarato fondamentale il right to bear arms, protetto dal secondo emendamento. La sentenza ha inserito il diritto a portare armi nell’honor role of superior rights (secondo l’espressione di Justice Benjamin Cardozo) che trascende il catalogo dei diritti federali per imporsi anche nei confronti degli Stati. In tal modo, la Corte ha spazzato via tutte le legislazioni statali che limitavano l’acquisto e il possesso delle armi per scopi di legittima difesa. Dopo la strage nella scuola elementare del Connecticut, Obama ha chiarito che intende proporre una legge che circoscriva le ipotesi in cui è consentita la detenzione di armi. Si tratta, nella sostanza, di un’iniziativa che si pone in contrasto rispetto ad un indirizzo giurisprudenziale di natura del tutto particolare. L’operazione ermeneutica con cui il Collegio, attraverso la clausola del XIV emendamento, procede alla cosiddetta incorporation di un diritto soggettivo nell’insieme delle posizioni giuridiche che, benché federali “per nascita e destinazione”, possono essere fatte valere anche nei confronti degli Stati è riservata ai soli diritti fondamentali. Le parole impiegate dal Presidente, da ultimo nel discorso di inaugurazione del secondo mandato, richiamano alla mente le vigorose dissenting opinions dei Justices Breyer e Stevens nella sentenza Mc Donald, i quali non rintracciavano alcun nesso tra il diritto a portare le armi e il concept of ordered liberty che dovrebbe guidare l’individuazione del criterio della fondamentalità. Su quel tema si è consumata un’aspra battaglia presso la Corte (v. C. Bryant, What McDonald Means for Unenumerated Rights, in 45 Ga. L. Rev. 1073 (2011); il richiamo di Obama, dunque, non è privo di implicazioni per i giudici costituzionali.

Il Presidente democratico non è comunque nuovo a questo genere di cenni: il monito lanciato ai membri del Collegio in occasione del discorso sullo stato dell’Unione nel 2010 a proposito della sentenza Citizens United v. Federal Election Commission (FEC) in tema di finanziamento delle campagne elettorali è stato interpretato come esempio di irrituale interventismo negli indirizzi giurisprudenziali di una Corte indipendente, sebbene caratterizzata da orientamenti ideologici noti al punto da essere studiati con precisione statistica dalla dottrina statunitense (basti pensare allo studio che annualmente svolge la Harvard Law Review sui tassi di allineamento del voto tra i giudici costituzionali di medesimo orientamento ovvero sugli indirizzi del loro voto rispetto all’orientamento presunto: v. ad esempio v. The Supreme Court, 2009-2010 Term, 124 Harv. L. Rev. (2009-2010), Statistics, Table I (BI), 413.). La decisione ha costituito un momento di evidente frattura tra il Presidente e i giudici costituzionali, nell’ambito di un rapporto segnato da alcuni segnali di tensione, così come da prove di equilibrismo. Come l’ordinanza con cui il Collegio dichiarò inammissibile la questione relativa alla conformità a Costituzione della cosiddetta don’t ask, don’t tell rule che imponeva ai membri dell’esercito di tenere segreto il loro orientamento sessuale (Pietrangelo v. Gates). Justice Kagan, nominata da Obama, dichiarò la propria astensione per aver in precedenza ricoperto la carica di Solicitor general nell’ambito della medesima controversia. La Corte decise di non decidere, ma permise così al Congresso di abrogare la legge e al Presidente di dichiarare raggiunto un obiettivo importante per il proprio programma di governo.

Nella stessa settimana dell’inauguration, un noto osservatore della giurisprudenza costituzionale, Jeffrey Toobin, commentava sulle pagine del New Yorker (The people’s choice, The New Yorker, Jan. 28, 2013, p. 20) che mai come in questo periodo è chiaro ed evidente il complesso legame che intercorre tra il processo politico e il riconoscimento giurisdizionale dei diritti (soprattutto dei “nuovi diritti”). In altri termini, sembra esserci, almeno in qualche momento della storia costituzionale americana, una connessione immediata tra l’agenda politica di un leader e le decisioni giurisprudenziali della Corte Suprema. Del resto, non è necessario tornare indietro sino al 1937 e alla storica decisione West Coast Hotel v. Parrish in cui un Collegio apertamente ostile alla riforma del welfare sostenuta dal Presidente Roosevelt muta improvvisamente atteggiamento, per ricordare come la Corte Suprema si sia mostrata spesso sensibile rispetto a taluni indirizzi politici presidenziali e segnatamente quelli su cui si concentrano di più gli sforzi dell’Esecutivo.

Ebbene, dopo la rielezione di Obama, seguita a una campagna presidenziale carica di riferimenti al tema dei diritti civili, gli equilibri tra la Corte e il Presidente paiono destinati a ricostruirsi. La mappa delle questioni (e delle decisioni) dal potenziale impatto politico è molto complessa. Si può provare a ricostruirne solo qualche tappa essenziale, senza indulgere neppure per un momento in divinazioni di indirizzi giurisprudenziali.

La prima tappa sarà la sentenza, attesa per giugno, sulle censure di incostituzionalità mosse nei confronti della Proposition 8 dello Stato della California che vieta il riconoscimento del matrimonio contratto tra persone dello stesso sesso. La questione è decisiva anche per una causa parallela che coinvolge il Defense of Marriage Act (DOMA), la legge che definisce il matrimonio come l’unione di un uomo e di una donna e sbarra la strada al riconoscimento, agli effetti della legge federale, dei same-sex marriages. Molti Stati hanno approvato emendamenti costituzionali (ventinove, mentre otto hanno optato per l’approvazione di atti di legislazione ordinaria) che espressamente sanciscono il carattere eterosessuale del matrimonio, soltanto dieci accordano il diritto a sposare il proprio partner senza alcuna restrizione sulla base del sesso. In molti Stati, l’introduzione per via giudiziale del diritto al same sex marriage è stata seguita da iniziative referendarie, presentazione di disegni di legge e di revisione costituzionale finalizzati a cancellare nel processo politico l’attivismo giudiziale. Con qualche successo e molti orientamenti favorevoli alle Corti (le vicende sono puntualmente ricostruite da M.J. Klarman, From the Closet to the Altar: Courts, Backlash and the Struggle for Same-Sex Marriages, Oxford University Press, 2013). L’attuale Presidente ha chiarito che l’estensione del right to marriage alle coppie omosessuali è uno dei temi su cui intende battersi nel corso del suo secondo mandato. L’esito della pronuncia è naturalmente imponderabile: non è soltanto uno scontro tra liberal e conservatori, nell’ambito del quale Justice Kennedy potrebbe rappresentare l’ago della bilancia, come accaduto in altre occasioni. La decisione solleva, infatti, il tema dei poteri degli Stati e del governo federale, posto che l’eventuale riconoscimento del matrimonio omosessuale si riverbererà necessariamente sulla legge statale, spazzando via ogni resistenza sociologico-culturale al tema. Il confronto, dunque, ha nella sostanza un terreno più ampio, coincidente con le posizioni dei fautori dell’estensione dei poteri federali da un lato e gli states’ rights supporters dall’altro. L’escamotage procedurale rimane una risorsa e, del resto, il difficile equilibrio raggiunto dal Chief Justice Roberts nel caso National Federation of Independent Business et Al. v. Sebelius, sulla riforma sanitaria che pure insisteva ugualmente (anche) sul tema federale, è difficilmente replicabile.

La seconda tappa sarà rappresentata dal tema delle affermative actions e, in particolare, delle disposizioni di legge che stabiliscono misure a sostegno di taluni gruppi identificati come deboli (l’esempio più significativo è rappresentato dalle quote a favore delle minoranze o delle donne). Il più classico degli ambiti della civil rights litigation (v. R. Kaczorowski, The Supreme Court and Congress’s Power to Enforce Constitutional Rights: An Overlooked Moral Anomaly, in 73 Fordham L. Rev. 153 (2004), nel quale la dottrina dell’equal protection e degli standard di giudizio “abbinati” alle classificazioni introdotte dal legislatore è stata elaborata, è da qualche tempo assente nel docket della Corte, complice la precisione geometrica con cui sono stati affinati gli strumenti tipici del giudizio di ragionevolezza delle leggi. Infatti, quand’anche la disposizione costituzionale contenuta nel XIV emendamento è invocata dai ricorrenti, i giudici tendono a decidere su una diversa base costituzionale, sebbene il metodo di scrutinio modellato sulla equal protection ricorra con una certa frequenza nel contenzioso di natura non direttamente costituzionale in materia di facially neutral statutes riferito alle violazioni del Civil Rights Act del 1964. La pronuncia, quindi, riaprirà un argomento carissimo al dibattito giuridico americano e, al contempo, rientrato prepotentemente nell’agenda e nella sensibilità politica del momento.

Il mosaico dei problemi è qui solo abbozzato e gli equilibri del Collegio potranno misurarsi solo a distanza di anni. Il fermento del processo politico, ad ogni modo, non risparmierà la Corte e, anzi, proprio con il rapporto tra discorso pubblico, processo democratico e attivismo giudiziale i giudici costituzionali dovranno, soprattutto in questo momento, giocoforza misurarsi.


La Corte Suprema e l’approccio minimalista alle nuove tecnologie

Il tema del rapporto tra diritto e nuove tecnologie appassiona i giuristi da almeno trent’anni (su tutti deve essere ricordato V. Frosini, Il diritto nella società tecnologica, Milano, 1981, il quale osservava che «le forme artificiali di conoscenza hanno acquistato una dimensione che in altri tempi veniva attribuita esclusivamente alle potenze sovrannaturali», p. 275). Nella dottrina europea l’argomento è stato sviscerato sul versante della teoria generale del diritto, ma è diventato anche un terreno di confronto multidisciplinare e, anzi, da tradizioni disciplinari diverse dalla scienza giuridica provengono alcune delle riflessioni che più influenzano la dottrina in questa materia (v. M. Castells, The network society: a cross-cultural perspective, Cheltenham, 2004).

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Il “difetto genetico” della cittadinanza negli Stati Uniti d’America

Gli Stati Uniti d’America hanno attraversato, negli ultimi dieci anni, un percorso di profonda rimeditazione di taluni dei caratteri strutturali del costituzionalismo americano. Tale percorso è il risultato di una convergenza di fattori: l’apertura della riflessione costituzionalistica ai modelli stranieri, la rinnovata tensione tra federalisti e anti-federalisti sul tema del contrasto tra legge statale e legge federale (sul punto, peraltro, un’indicazione significativa arriverà dalla pronuncia della Corte Suprema nel caso Bruesewitz v. Wyeth in materia di esperimento dell’azione di risarcimento del danno da vaccinazione) e, con riferimento alla Corte Suprema, il recente e parziale riequilibrio tra la componente di ispirazione liberal e quella di ispirazione repubblicana, da un lato, la difesa dell’impiego del diritto comparato in presenza di temi particolarmente sensibili (sul p.to v. M. Tushnet, The possibilities of Comparative Constitutional law, in 108 Yale L. J., 1999, 1225 ss. e, più di recente, S. Choudry, Migration As a New Metaphor in Comparative Constitutional Law, in Id. (cur.), The Migration of Constitutional Ideas, Cambridge UP, 2006, 1 ss.), dall’altro.

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