Il “Muslim Ban” del Presidente Trump alla prova dell’Establishment Clause: alcuni aggiornamenti

La vicenda del cd. “Muslim ban”, varato dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump all’indomani del suo insediamento, continua ad essere al centro della cronaca politica e giudiziaria americana, con un recente e importante sviluppo ad opera di un gruppo di costituzionalisti americani costituitisi lo scorso 19 aprile come amici curiae dinanzi alla Corte d’Appello del Quarto Circuito (che l’8 maggio è chiamata ad esaminare il ricorso promosso dal Presidente e dal Governo contro la decisione della Corte del Maryland di sospendere alcune parti dell’executive order n. 13780 del 6 marzo).

 

  1. L’executive order n. 13769 del 27.1.2016

La storia del ban, per quanto relativamente circoscritta nel tempo, è però articolata e controversa.
Il primo executive order, intitolato “Protecting the Nation from foreign terrorist entry into the United States”, è stato adottato dal Presidente Trump il 27 gennaio 2017, suscitando da subito dure reazioni sia nell’opinione pubblica che a livello giudiziario (sui profili di potenziale illegittimità del provvedimento v. D. de Lungo, L’executive order di Trump: una “cronaca costituzionale”, 15 febbraio 2017, in questo Blog). Le misure più controverse contenute nell’ordine esecutivo, come è noto, consistevano nella sospensione, per 90 giorni, dell’ingresso negli USA dei cittadini di determinati paesi considerati supporter del terrorismo internazionale (Iraq, Siria, Iran, Sudan, Libia, Somalia e Yemen); nella sospensione, per 120 giorni, dello U.S. Refugee Admissions Program (USRAP) e nell’indicazione che, alla ripresa del programma di accoglienza, si sarebbe dovuta assegnare una priorità alle domande di protezione per motivi di “persecuzione religiosa”; nel blocco a tempo indeterminato dell’ingresso di potenziali rifugiati provenienti dalla Siria, considerato “pregiudizievole” per gli interessi degli Stati Uniti; nella sospensione del programma Visa Waiver Program, con la reintroduzione generalizzata, per i visti non immigrant, dell’obbligo del visto e del colloquio personale con il funzionario consolare.
Il 3 febbraio un giudice distrettuale dello Stato di Washington aveva emesso un’ordinanza di sospensione temporanea dell’order, con validità su tutto il territorio nazionale, confermato poi il 9 febbraio all’unanimità dalla Corte d’Appello del Nono circuito (State of Washington v. Trump). La posta in gioco, al di là dei profili di illegittimità del provvedimento presidenziale, è apparsa fin da subito relativa all’equilibrio tra poteri e, in particolare, al fondamento e ai limiti della deference delle corti di fronte alle decisioni degli organi politici in materia di immigrazione e sicurezza nazionale. Mentre il Governo aveva rivendicato l’ampia discrezionalità politica nelle suddette materie, qualificando la deference come principio “incontrovertibile” radicato nella giurisprudenza americana, la Corte aveva chiarito che l’auspicata sottrazione delle decisioni governative allo scrutinio giurisdizionale fosse da considerarsi contrario alla struttura costituzionale della democrazia americana. Il precedente Boumediene v. Bush del 2008 – con il quale si era stabilito che gli organi politici, compreso il Congresso per mezzo di una legge, non possono eliminare la giurisdizione di habeas corpus delle corti federali nei confronti degli enemy combatants – ha segnato un punto difficilmente aggirabile, che i giudici del Nono circuito opportunamente avevano richiamato ricordando che Governo e Congresso non hanno il potere di “accendere e spegnere” la Costituzione a loro piacimento.
Avendo chiarito che spetta ai giudici valutare la costituzionalità del contenuto e delle modalità di attuazione delle politiche di immigrazione (v., in questo senso, INS v. Chadha, 1983 e Zadvydas v. Davis, 2001), anche qualora dovessero venire in rilievo profili legati alla sicurezza nazionale, la Corte aveva poi considerato i motivi di illegittimità dell’executive order ai fini della conferma dell’ordinanza di sospensione – ovvero la violazione, da un lato, del Quinto emendamento (Due Process) e, dall’altro, del divieto di discriminazioni religiose (Establishment clause). Rispetto al primo punto, la Corte aveva sottolineato come – limitando o impedendo la libertà di determinate categorie di stranieri, già residenti negli Stati Uniti, di rientrare in territorio americano – l’order non avesse rispettato le garanzie imposte dal Due Process procedurale (obbligo di notifica e diritto di essere ascoltato in udienza), le quali spettano tanto ai cittadini quanto agli stranieri a qualsiasi titolo presenti negli Stati Uniti. Rispetto al secondo punto, gli argomenti a sostegno dell’incostituzionalità dell’executive order facevano riferimento al suo intento di impedire l’ingresso di musulmani nel paese, ricostruibile a partire dal contesto, politico e normativo, nel quale il provvedimento si inseriva e, in particolare, dalle dichiarazioni rese dallo stesso Trump; la corte, a questo proposito, aveva rivendicato la facoltà di realizzare tale operazione “ricostruttiva” in presenza di un provvedimento formulato in termini neutrali.

 

  1. L’executive order n. 13780 del 6.3.2017

A poco più di un mese dal temporary restraining order adottato nei confronti del suo primo provvedimento, il Presidente Trump varava una versione parzialmente rivista dell’ordine precedente.
Rispetto alla sospensione temporanea degli ingressi da determinati paesi africani e mediorientali, che veniva riproposta nel nuovo atto, si decideva di eliminare l’Iraq, sulla base della stretta cooperazione tra il governo iracheno, democraticamente eletto, e gli Stati Uniti e la forte presenza diplomatica e militare americana nel paese (nei confronti dei cittadini iracheni intenzionati ad entrare negli Stati Uniti si disponeva in ogni caso un controllo rafforzato). Un’altra modifica significativa andava nella direzione di precisare l’ambito soggettivo di applicazione della sospensione degli ingressi, con la previsione di eccezioni (a favore, ad es., dei residenti permanenti e di coloro a cui era già stato riconosciuto il diritto di asilo o lo status di rifugiato) e della possibilità di derogare al blocco con una valutazione su base individuale.
Nel ribadire la volontà di sospendere l’USRAP per 120 giorni, venivano però eliminati i passaggi relativi alla priorità delle persecuzioni su base religiosa e al blocco a tempo indeterminato degli ingressi di rifugiati siriani, mentre – con riferimento alla sospensione del Visa Waiver Program – venivano espressamente indicate le eccezioni a favore di determinate categorie di stranieri (es. possessori di visto diplomatico, visto Nato o Onu, coloro che entrano negli Stato Uniti per motivi di affari o meeting con il Governo americano, ecc.).
A seguito dei ricorsi presentati da più parti anche nei confronti di questo secondo order, il giorno prima della sua entrata in vigore, prevista per il 16 marzo, un giudice federale delle Hawaii adottava un’ordinanza di sospensione del provvedimento con efficacia su tutto il territorio nazionale (State of Hawaii v. Trump), seguito il giorno successivo da un giudice del Maryland.
Il ragionamento del giudice si è concentrato sull’Establishment clause, implicante il divieto di preferire ufficialmente una confessione religiosa ad un’altra, con il ricorso al cd. Lemon test – lo scrutinio in tre fasi sviluppato dalla Corte Suprema nel landmark case Lemon v. Kurtzman del 1971. In base a questo test (tradizionalmente utilizzato, ad es., per valutare la legittimità delle preghiere a scuola o in relazione ad altre funzioni pubbliche) l’azione delle pubbliche autorità: 1) deve avere uno scopo primario non religioso (“secular”); 2) non deve avere l’effetto principale di avvantaggiare o inibire una determinata confessione religiosa; 3) non deve promuovere un coinvolgimento eccessivo con la sfera religiosa. Nella prospettiva del giudice delle Hawaii, l’executive order del 6 marzo non riusciva a superare il primo passaggio del Lemon test: nonostante il provvedimento governativo fosse formulato in termini neutrali, infatti, la ricostruzione del suo background storico portava all’identificazione dell’animus religioso che aveva ispirato tanto l’order del 6 marzo quanto quello del 27 gennaio. Qualsiasi scopo non religioso esplicitamente addotto dal Governo (e, in particolare, quello relativo alla difesa della sicurezza nazionale) sarebbe stato, quantomeno, “secondario” rispetto all’obiettivo, di carattere religioso, di sospendere temporaneamente l’ingresso di musulmani negli Stati Uniti. Il giudice, dimostrando l’incongruenza tra tale scopo formalmente dichiarato e alcune previsioni del nuovo executive order (come l’esclusione dell’Iraq dal novero degli Stati i cui cittadini sono “banditi” dagli USA o la previsione della derogabilità del ban, su base individuale, a favore dei ragazzi stranieri), è arrivato a qualificare come “pretestuoso” l’argomento della sicurezza nazionale. Alla stessa conclusione portava la considerazione del posticipo di dieci giorni dell’entrata in vigore dell’order (prevista, come già ricordato, per il 16 marzo) e il focus sulla cittadinanza (con l’effetto paradossale, riprendendo l’esempio citato nell’ordinanza, di vietare l’ingresso di un siriano che vive da decenni in Svizzera e di ammettere invece uno svizzero che si è trasferito in Siria durante la guerra).
L’udienza d’appello presso la Corte del Nono circuito nel caso State of Hawaii v. Trump è prevista per il 15 maggio.

 

  1. L’intervento dei costituzionalisti come amici curiae del 19.4.2017

Tra le decine di memorie presentate dai diversi soggetti intervenuti in qualità di amici curiae nei procedimenti avviati contro gli executive orders di Trump, il brief prodotto da alcuni costituzionalisti statunitensi nell’ambito del procedimento International Refugee Assistance Project  v. Trump, al momento pendente in appello presso la Corte d’Appello del Quarto circuito, risulta particolarmente interessante dal punto di vista delle argomentazioni a supporto della violazione del Primo emendamento.
La necessità di prefigurare una linea argomentativa alternativa per giungere alla pronuncia di incostituzionalità è ricondotta dagli autori del brief alla valutazione del carattere “controverso” dell’orientamento basato sul Lemon test, adottato dall’ordinanza della Corte del Maryland al pari di quella delle Hawaii. Le critiche al Lemon test, formulate in ambito dottrinale e giurisprudenziale ormai da decenni, si concentrano prevalentemente sulla sua scarsa operatività, soprattutto con riferimento ai primi due passaggi dello scrutinio – lo “scopo” e l’”effetto” – che quasi sempre si risolvono nella (affatto agevole) determinazione del “grado” di rilevanza dello scopo secolare e della “misura” in cui si produce l’effetto di avvantaggiare o inibire una determinata confessione religiosa. Uno dei più aspri critici del Lemon test era il giudice Antonin Scalia, il quale, in un passaggio particolarmente evocativo e spesso citato di una sua concurring opinion, aveva associato il test ad un “ghoul” – essere demoniaco che, come in un film dell’orrore, si solleva dalla tomba dopo essere stato più volte ucciso e sepolto, perseguitando la giurisprudenza sull’Establishment clause (v. Concurring opinion nel caso Lamb’s Chapel v. Center Moriches Union Free School District, 1993).
La linea argomentativa alternativa proposta dagli amici curiae si concentra invece sul divieto di atti governativi caratterizzati da un’ostilità nei confronti di un determinato gruppo religioso, ovvero, per dirla in altri termini, di atti governativi che restringano diritti, doveri o vantaggi di singoli individui sulla base della loro appartenenza religiosa. Si tratta di un principio ampiamente consolidato in sede giurisdizionale, non soltanto in casi relativi all’Establishment Clause, ma altresì sotto l’ombrello della Free Exercise clause e della Equal Protection clause (v. Larson v. Valente, 1982; Church of the Lukumi Babalu Aye, Inc. v. City of Hialeah, 1993; Bd. of Educ. of Kiryas Joel Vill. Sch. Dist. v. Grumet, 1994; Town of Greece v. Galloway, 2014).
Si tratta quindi di stabilire, secondo questa prospettiva, se il provvedimento del Presidente Trump fosse motivato primariamente da un’ostilità anti-islamica del Presidente, tale da fondare la violazione dell’Establishment clause; al fine di accertare l’animus anti-islamico il giudice deve poter valutare le dichiarazioni rilasciate da Trump tanto durante la campagna elettorale quanto in alcune occasioni successive all’elezione e all’insediamento. Anche nella prospettiva degli amici curiae, quindi, è decisiva la questione dell’utilizzabilità di tali dichiarazioni in sede di ricostruzione, da parte dei giudici, dei motivi alla base del provvedimento impugnato: alla posizione governativa, secondo la quale che le affermazioni di Trump prima dell’elezione non possono essere prese in considerazione, i costituzionalisti oppongono una serie argomenti di principio e basati sui precedenti della stessa Corte Suprema (in particolare, Lukumi, cit.), concludendo che «the First Amendment protects speech, but that does not mean it allows politicians to evade all accountability if their words reveal that an illegal purpose motivated their actions».
Anche a voler ritenere che l’executive order di Trump fosse parzialmente motivato dall’esigenza di difendere la sicurezza nazionale, il profilo di incostituzionalità legato all’animus anti-islamico non verrebbe meno, nella misura in cui si accerti che esso è stato il motivo “primario” o “essenziale” (in questo senso v. Larson, cit; Lukumi, cit.; United States v. Windsor, 2013). A questo proposito è richiamata la lezione “dolorosa” di Korematsu v. United States, 1944 (con la quale la maggioranza dei giudici della Corte Suprema, 6 a 3, aveva aderito alla posizione del Governo circa la legittimità dell’internamento dei cittadini americani di origine giapponese durante la Seconda Guerra mondiale): l’animus discriminatorio rischia di travolgere e “intossicare” eventuali altre ragioni, pur legittime, alla base di un provvedimento legislativo o dell’esecutivo.
Alla luce di questo diverso approccio, i costituzionalisti autori del brief passano poi a chiarire il significato da attribuire al divieto contenuto nell’Establisment clause: l’incompatibilità, rispetto a questa norma, di provvedimenti governativi orientati ad un’ostilità nei confronti di un determinato gruppo religioso è sostenibile tanto sul piano storico (con riferimento, in particolare, alla circostanza che molti coloni erano fuggiti dalle persecuzioni religiose in Europa e che il Primo emendamento, così come l’intero Bill of Rights, sono stati adottati quando il popolo americano aveva già sperimentato 150 anni di pluralismo religioso) quanto su quello di principio e dei precedenti delle corti. Il divieto di cui al Primo emendamento, peraltro, consente margini relativamente ampi all’amministrazione rispetto al riconoscimento di un ruolo significativo alla religione – anche alla religione della maggioranza – nello spazio pubblico (cfr., in questo senso, M. Dorf, The Establishment Clause and the Muslim Ban, in Take Care, 18 Mar. 2017: «One need not accept the principle that the Establishment Clause bars endorsement of religion or a particular religion to see that a policy of disfavoring a religious minority violates the Establishment Clause»). Nel caso del 2014 Town of Greece, cit., ad es., la Corte Suprema ha ritenuto che la prassi del consiglio municipale di Greece di aprire le proprie riunioni mensili con un programma di preghiere prevalentemente cristiane non costituisse un comportamento illegittimo, nella misura in cui tale “preferenza” corrisponde alle tradizioni storiche locali e, soprattutto, non si concretizza in una forma di coercizione religiosa né nella umiliazione delle confessioni non cristiane. Ciò che risulta decisivo, in sostanza, è la presenza di un animus discriminatorio ed escludente nei confronti di una religione minoritaria.
In relazione al ban di Trump, la Free exercise clause e l’Equal Protection clause vanno considerate in relazione al divieto di discriminazioni che emerge dall’Establishment clause: la prima, consentendo di verificare l’animus discriminatorio anche al di là del carattere formalmente neutro del provvedimento (valorizzando quindi il suo ”effetto” così come altri elementi quali il background storico, la serie di eventi che ha condotto alla sua attuazione, le dichiarazioni dei rappresentanti dell’organo decisionale coinvolto); la seconda, fornendo sofisticati strumenti interpretativi elaborati nella copiosa giurisprudenza sull’Equal protection, con riguardo tanto all’equazione tra discriminazioni religiose e discriminazioni razziali quanto alla complessità delle operazioni che conducono ad accertare l’animus discriminatorio.
Lo sforzo della dottrina costituzionalistica costituitasi in amicus curiae, in questo frangente, sembra  quindi andare nella direzione di “puntellare” più efficacemente la pronuncia di incostituzionalità dell’executive order per violazione del Primo emendamento, depotenziando la linea argomentativa fondata su Lemon in quanto controversa e divisiva. Non a caso, nel brief si dà conto di come diversi giudici della Corte Suprema attualmente in carica (es. John Roberts, Samuel Alito, Anthony Kennedy e Clarence Thomas) abbiano espresso dubbi sul Lemon test nelle loro decisioni e si fornisce, invece,  materiale a supporto di una lettura dell’Establishment clause che si è guadagnata negli anni un consenso più ampio e trasversale in ambito dottrinale e giurisprudenziale. La recente nomina del conservatore Neil Gorsuch (in sostituzione di Antonin Scalia) non rende più agevole la previsione di quale orientamento potrebbe assumere la Corte Suprema nel caso di una sua pronuncia sulla vicenda: se lo stesso Gorsuch, da un lato, si è espresso in termini critici rispetto a Lemon (v. ad es. la sentenza del 2009 della Corte d’Appello del Decimo circuito, Green v. Haskell County Board of Commissioners), dall’altro, ha risolutamente rispedito al mittente i commenti di alcuni senatori sul suo ruolo di “argine” a difesa del ban del Presidente Trump.

 


Di cosa parliamo quando parliamo di best interest of the child: l'adozione coparentale nell'ambito di una coppia omosessuale al vaglio della Corte costituzionale (nota a Tribunale per i Minorenni di Bologna, Ordinanza del 10 novembre 2014)

Con Ordinanza del 10 novembre 2014 il Tribunale per i Minorenni di Bologna ha aggiunto un importante tassello al complesso puzzle del riconoscimento giuridico delle famiglie omogenitoriali in Italia, sollevando questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge 184/1983 (disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori) nella parte in cui «non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore adottato il riconoscimento della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge del genitore, a prescindere dal fatto che il matrimonio del caso abbia prodotto effetti in Italia (come per la fattispecie del matrimonio tra persone dello stesso sesso)». Si tratta, come risulta già chiaro, di un caso di step-child adoption, o adozione co-parentale, riguardante una famiglia composta da due donne (cittadine americane), conviventi da venti anni e sposate nel 2013 nello Stato di Washington, entrambe madri biologiche (tramite inseminazione artificiale da donatore anonimo) di due minori e ciascuna ammessa, negli Stati Uniti, all’adozione del figlio biologico dell’altra. A seguito del trasferimento del nucleo familiare in Italia, una delle due donne, cittadina anche italiana per discendenza, ha presentato un ricorso volto al riconoscimento della sentenza di adozione pronunciata nel 2004 dal Tribunale di Prima Istanza dello Stato dell’Oregon; il PM si è espresso in senso contrario alla domanda facendo valere l’impossibilità di applicare l’art. 44 lett. b) della legge 184/1983 (adozione da parte del coniuge del genitore) poiché il matrimonio posto a fondamento dell’adozione, nel caso oggetto di lite, non è riconosciuto dalla legge italiana.

Read more