Online Symposium:
The Rule of Law and Judicial Independence in Europe

The Rule of Law in Europe is under pressure. Good proof of it is the spectacular rise of legal issues and litigation in which the Rule of Law, as a value of the EU or as an underlying principle inherent to the Convention system, is invoked by private applicants, States and EU Institutions. The reasons that justify this Rule of Law explosion are well known: illiberal tendencies expanding in several European countries are putting liberal democracies against the ropes. The fact that we are discussing the Rule of Law with such intensity is the result of our political systems reacting through their defensive (legal) tools.

Is the reaction to protect the Rule of Law a sign of its vitality and good shape, or a symptom of its decline? As the European Court of Human Rights and the Court of Justice of the EU start updating a new and sophisticated line of case-law on the matter, this question looms large.

A specific area in which the Rule of Law has come at the forefront of the debate is judicial independence. Illiberal pulses are focusing on the independence of the judiciary, a much-cherished icon of any liberal democracy that intents to keep power within a system of checks and balances. As long as courts guarantee that balance, illiberal leaders have turned independent courts into their bête noire. The pressure currently exerted over several national judiciaries is catalyzing an unprecedented reaction in defense of judicial independence in Europe.

In this online symposium, several authors with relevant judicial positions, together with the voice of legal scholars, will reflect on the development of a European principle of the Rule of Law, with the focus on the case-law of the two top European courts. The discussion has as its starting point the article by Robert Spano, recently published in the European Law Journal, “The rule of law as the lodestar of the European Convention on Human Rights”. Focusing on this contribution, the variety of standpoints from different outposts of the European judiciary and academia provide a fascinating insight into the diverse and subtle contours that the Rule of Law is currently assuming. There are no straight-forward answers to the challenges that Europe is now facing, but it is clear that the way in which the present tensions is resolved will shape the face of Europe’s democracies for decades.


È arrivato finalmente il tempo della Italian Human Rights Institution?

Il recente Report adottato dall’ Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione Europea (FRA ) circa lo status quo relativo, nello spazio eurounitario, alle Istituzioni Nazionali per i Diritti Umani (National Human Rights Institution, NHRI) ci ricorda che purtroppo ad oggi l’Italia rimane uno dei soli cinque Paesi dell’Unione sprovvisti di un’Autorità per la promozione e la tutela dei diritti, nonostante una Risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sottoscritta dall’Italia nel 1993, ne imponga l’istituzione.

La Risoluzione, che enuncia i c.d. “Principi di Parigi”, delinea gli elementi chiave per la creazione ed il funzionamento di una NHRI. Il documento stabilisce, per esempio, che una tale Autorità debba disporre di una solida base giuridica che ne sancisca composizione e competenze; un mandato il più ampio possibile in materia di diritti umani; indipendenza da Governo e Parlamento; una composizione che rifletta la diversità della società che vuole rappresentare; risorse umane e finanziarie e infrastrutture adeguate per operare autonomamente e pienamente esercitare le proprie competenze.

Gli altri Stati membri dell’Unione europea inadempienti, sotto questo aspetto, sono Estonia, Malta, Repubblica Ceca e Romania. In realtà, però, sia l’Estonia che la Romania hanno già istituzioni nazionali che sarebbero in grado di ottenere l’accreditamento del “Sub-Committee for Accreditation” dell’Alleanza Globale di Istituzioni Nazionali per i Diritti Umani (Global Alliance of National Human Rights Institutions, GANHRI) nel 2020, posticipato purtroppo per via della pandemia COVID-19. Anche la Repubblica Ceca ha già un’istituzione che, pur senza accreditamento GANHRI, gode di ampi poteri in materia di diritti umani, lasciando quindi l’Italia e Malta competere per la non certo prestigiosa posizione di fanalino di coda UE al riguardo.

Al di là della questione, assai rilevante anche per la credibilità internazionale del nostro Paese, relativa all’inadempimento rispetto ad un obbligo internazionale, la lacuna normativa ha delle serie implicazioni con riguardo alla tutela dei diritti in gioco. In particolare, la stagione pandemica in atto ha evidenziato in maniera forte e tangibile l’importanza del lavoro di una NHRI. Le Commissioni indipendenti degli altri Paesi UE hanno infatti lavorato ininterrottamente per proteggere e promuovere i diritti umani di minoranze a rischio o di gruppi svantaggiati, da anziani a persone con disabilità, per valutare la conformità agli standard internazionali ed alla Costituzione delle misure d’emergenza adottate dai vari governi europei, e per vegliare sulla permanenza della erogazione dei servizi essenziali ad ogni cittadino. Per fare solo qualche esempio, in Germania, l’Istituto Nazionale per i Diritti Umani (Deutsche Institut für Menschenrechte) ha pubblicato un position paper intitolato “I diritti umani devono guidare la risposta politica”. Il documento offre anche una serie di utili raccomandazioni a governo e parlamento sulla protezione dei gruppi più a rischio durante una pandemia.

In Francia, la Commission nationale consultative des droits de l’homme (CNCDH) ha sfruttato i suoi poteri istituzionali per comunicare direttamente all’Ufficio del Primo Ministro la sua posizione sulle “eccezionali e sistemiche” violazioni dei diritti umani causate dall’inziale proposta di legge sullo stato d’emergenza anti-COVID-19. In Polonia, la valutazione circa la conformità allo standard internazionale di diritti umani delle misure anti-COVID intraprese dal governo ha persino portato l’Ombudsman Nazionale a criticare le modalità di imposizione, da parte del governo, dell’l’obbligo mascherina sanitaria, dovendo poi difendersi pubblicamente da accuse (infondate) di negazionismo del COVID-19.

L’attuale stagione pandemica amplifica, in altre parole, un’esigenza da tempo sentita: l’istituzione di una commissione nazionale indipendente  per la promozione e tutela dei diritti umani. In questo contesto, l’attuale costellazione italiana di commissioni ed enti con competenze specifiche sul tema può invece risultare inadeguata e controproducente.  In Italia ad oggi infatti operano circa venti tra Comitati, Commissioni, Osservatori e Garanti, alcuni in ambito governativo, altri presso la Camera dei Deputati, ed altri ancora con diversi livelli di indipendenza istituzionale, come per esempio il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (unico ente al momento in conformità con i Principi di Parigi in Italia) o l’UNAR (Lajolo in Federalismi, p. 58-59). I Principi di Parigi si schierano esplicitamente a favore invece dell’esistenza di un’Autorità unica con un mandato il più ampio possibile (Paris Principles, Competences and Responsibilities, Art. 2).

A questo riguardo, ciò che finalmente sembra poter essere compreso, con riferimento ai passi in avanti in questa direzione di cui si farà cenno tra un attimo, è che la Commissione non andrà a sovrapporsi agli ambiti di applicazione delle tutele dei diritti già previste e quindi alle competenze dei singoli comitati e commissioni ed autorità. Al contrario: ne rafforzerà le singole istanze di protezione creando una cornice unitaria in un contesto al momento purtroppo ancora frammentario, a livello nazionale, di tutela dei diritti umani. Non solo, l’istituzione di una Commissione ad hoc farà emergere, accanto alla dimensione reattiva, quella promozionale, al momento quasi assente, di protezione dei diritti umani. Ciò grazie alla possibilità per la Commissione di formulare pareri, raccomandazioni e proposte, anche con riferimento a provvedimenti di natura legislativa o regolamentare, al Governo e alle Camere su tutte le questioni concernenti il rispetto dei diritti umani, sollecitando ove necessario la firma o la ratifica delle convenzioni e degli accordi internazionali e monitorandone l’implementazione a livello nazionale.

Una frontiera relativamente nuova della lotta per la protezione e promozione dei diritti umani è per esempio il campo della protezione dei dati personali, recentemente area di aspre discussioni per via delle varie app per il contact tracing del COVID-19 come Immuni. Un’istituzione ad ampi poteri in ambito di diritti umani, come quella francese, si  è stata in grado di esprimersi competentemente sulle varie violazioni dei diritti umani, reali e potenziali, delle contact tracing apps anti-Covid, offrendo consigli tecnici utili e senza dover limitarsi a questioni di privacy o a valutare la conformità dell’app con il GDPR, come invece ha fatto il Garante per la Protezione dei Dati Personali italiano, per ovvie ragioni dovute al suo ambito di competenza.

Nonostante la frammentarietà del campo istituzionale italiano in materia di diritti umani di cui si è fatto cenna, il clima sembra essere propizio per una svolta e sembra ci sia un forte impulso parlamentare da parte della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati.

Attualmente infatti sono presentate due proposte di legge al riguardo, A.C. 855 dell’Onorevole Quartapelle Procopio ed altri, e A.C. 1323 dell’Onorevole Scagliusi ed altri. Tali proposte, al momento all’ esame della  Commissione Affari Costituzionali presieduta dall’ Onorevole Giuseppe Brescia, rappresentano un importante punto di partenza per una spinta parlamentare convinta, e per un successivo, si spera altrettanto convinto, impegno dell’esecutivo, verso la creazione di una NHRI per l’Italia.

Entrambe le proposte dimostrano, complessivamente, rispetto per i Principi di Parigi, adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1993 come parametri essenziali per l’accreditamento di una NHRI come tale. Detto questo, detti Principi devono essere considerati come il “minimo indispensabile”: per definizione, essi rappresentano un punto di partenza per il design di una NHRI, e non una checklist completa.

Ci sono dunque aspetti che potrebbero essere considerati per lavorare sulle proposte prima richiamate nell’ottica di un maggiore impatto ed autorevolezza della NHRI italiana. Un punto essenziale è per esempio la questione dell’indipendenza della Commissione che deve guidare ogni aspetto del design istituzionale. È quindi importante, per esempio, che la durata del mandato dei commissari sia di uguale o superiore lunghezza a quella del parlamento che li elegge, e che i commissari non siano sottoposti a procedure di controllo o esami a metà mandato.

Inoltre, per valorizzare al massimo l’indipendenza della Commissione è fondamentale assicurarsi che la NHRI possa gestire autonomamente il suo operato interno, le sue risorse umane e il reclutamento dei suoi dipendenti, il suo budget. La questione delle risorse finanziarie dell’Autorità non può essere sottovalutata. Per garantire l’indipendenza a lungo termine della NHRI, sarà necessario che la legge istitutiva definitiva garantisca all’Autorità risorse e infrastrutture che le permettano di adempiere alle proprie varie responsabilità in totale indipendenza. Come spiegano i Principi di Parigi, le risorse finanziarie di un’Autorità nazionale per i diritti umani devono “consentire di disporre di personale e locali propri, in modo da essere indipendente dal governo e non essere soggetto a controlli finanziari che potrebbero comprometterne l'indipendenza.” (Paris Principles, Composition and guarantees of independence and pluralism, Art. 2).

Un altro elemento certamente da considerare è quello della rappresentanza e del pluralismo della composizione della Commissione. Come spiega l’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’UE nel suo recente Report sulle NHRI europee, “il pluralismo riguarda la più ampia e inclusiva rappresentazione della società nella composizione delle NHRI, prendendo in considerazione, ad esempio, il genere, l'etnia o lo status di minoranza, nonché la diversità sociale, religiosa, linguistica e geografica” (FRA 2020, p. 49). Un aspetto essenziale per garantire il rispetto del pluralismo della società è ovviamente il processo di nomina dei commissari, che devono essi stessi riflettere la diversità e le varie identità presenti nella società italiana. Sarebbe inoltre importante garantire alla NHRI il potere di collaborare liberamente con la società civile, evitando però che diventi un “megafono” di quest’ultima. Per questo motivo, mentre la rappresentanza della società civile nella composizione dell’Autorità è senza dubbio importante, la NHRI deve avere la libertà di decidere in modo indipendente le modalità di cooperazione con i rappresentanti della società stessa.

Deve però essere molto chiaro che l’ampio coinvolgimento, sia ad-hoc che regolare, della società civile presenta un importante vantaggio sistemico. Tramite regolare collaborazione e consultazione, l’Autorità riceve informazioni essenziali sullo stato dei diritti umani a livello locale e nazionale che completano il lavoro di monitoraggio della NHRI stessa e che permettono di meglio concentrare le sue risorse e attenzioni. L’Autorità presenta poi le sue analisi al Parlamento tramite i suoi report tematici e annuali, tramite i quali il Parlamento può sperare di agire in maniera più efficace e mirata nelle sue attività legislative.

Un ulteriore suggerimento è quello di assicurarsi che l’Autorità abbia  anche la possibilità di effettuare indagini su violazioni di diritti umani, sia individuali che sistemiche. In questo contesto, sarebbe quindi importante dotare una NHRI italiana di poteri che incidano anche su procedimenti giurisdizionali in corso, come per esempio la possibilità di intervenire in giudizi come amicus curiae.

In conclusione, l’Italia si trova attualmente in una posizione non invidiabile: senza una NHRI accreditata,  permangono sia l’inadempimento nei confronti delle Nazioni Unite, sia un modello di protezione e promozione dei diritti umani assai frammentario. Una cornice unitaria è ormai indispensabile.

Allo stesso tempo, questo momento presenta importanti opportunità, dal punto di vista dell’impulso parlamentare cui si faceva prima riferimento,  che non ci possiamo permettere di sprecare.

L’Italia può anche contare su un forte supporto istituzionale per quanto concerne assistenza tecnica e know-how  sia a livello dell’Unione europea (Agenzia per i Diritti Fondamentali della UE e European Network of National Human Rights Institutions - ENNHRI) sia a livello internazionale (Consiglio d’Europa)

Quindi, per concludere: se non ora, quando?

 

Oreste Pollicino, membro del Comitato esecutivo, Agenzia europea per i diritti fondamentali

Jacopo Zenti, membro (2019-2020) del project team per il report “Strong and effective national human rights institutions – challenges, promising practices and opportunities”, Agenzia europea per i diritti fondamentali.


Riconoscimento facciale e protezione dati: attenzione al punto di non ritorno

Al dibattito sul riconoscimento facciale è sottesa, indubbiamente, una grande questione “di merito”: stabilire in che termini siano legittimi la raccolta e l’utilizzazione, per le più varie finalità, di dati personali annoverati, dalla disciplina europea, tra quelli meritevoli di una tutela rafforzata. E questo in ragione della loro particolare attinenza alla persona e al suo vissuto e della loro idoneità, in caso di uso scorretto, a esporre il soggetto a discriminazioni o a forme, tra le più di diverse, di stigmatizzazione. Tale è il grado di protezione accordato a questa tipologia di dati, che il Regolamento generale sulla protezione dati ne sancisce in prima istanza il divieto di trattamento, derogabile solo in presenza di determinati, tassativi presupposti, espressivi di quella “funzione sociale” della protezione dati che il Regolamento stesso valorizza, nella consapevolezza di come nessun diritto possa essere “tiranno”, come affermò, sia pur in contesto diverso, la Consulta sul caso Ilva (sent. n. 85 del 2013).

Ma in questo dibattito c’è in gioco qualcosa di più e di più importante: la definizione del katechon, il limite, cioè, che l’uomo deve saper (op)porre alla tecnica, il diritto al potere (privato, oltre che pubblico), la democrazia all’ideologia del controllo. Limite che tende fatalmente a spostarsi sempre più avanti, sotto la duplice spinta di una lex mercatoria orfana dei suoi antichi confini (sociali e giuridici, prima che territoriali) e di una concezione tirannica della sicurezza, ben diversa da quella irenica delineata dalla Carta di Nizza, quale complementare e non antitetica alla libertà. Ed a questa progressiva erosione del limite (op)posto alla sinergia di tecnica e potere concorre, in misura determinante, la tendenza sempre più marcata alla delega, all’algoritmo, di attività, de-cisioni, persino valutazioni, per le quali la razionalità umana appare, paradossalmente, insufficiente, inadeguata, cedevole a chissà quali collusioni, “antiquata”, per riprendere la provocazione di Guenther Anders (del 1956!).

Non stupirà, dunque, il progressivo incremento nel ricorso al riconoscimento facciale negli ambiti più diversi: se in Cina costituisce la regola del “vivere in pubblico” e se lo si è usato persino in alcune scuole, per analizzare le reazioni degli studenti alle lezioni, Singapore sta costruendo un sistema di riconoscimento facciale per i servizi governativi, mentre l’India utilizza scansioni dell’iride come parte del suo sistema di identità nazionale Aadhaar.
Ed in Europa, in cui il GDPR, prima menzionato non solo sancisce, come si diceva in apertura,  un divieto al trattamento di dati biometrici, consentendo solo alcune eccezioni da interpretare in modo assai restrittivo?
Ebbene, nel vecchio continente, pur rappresentando una tecnica dall’uso ancora limitato, la tecnologia in questione va comunque sempre più diffondendosi. Significativo, in tal senso, che una scuola svedese lo abbia utilizzato per agevolare il controllo degli ingressi e delle uscite degli studenti (l’Autorità di protezione dati ha espressamente sanzionato tale trattamento di dati), che se ne faccia uso nella stazione londinese King’s Cross e che, da noi, ne sia prossima la sperimentazione in alcuni aeroporti, mentre lo si auspichi da più parti per fini di gestione dell’ordine pubblico nel contesto, tutto particolare, degli stadi.
A livello più ampio, la Francia potrebbe essere il primo Paese dell’Unione europea ad implementare un sistema di riconoscimento facciale finalizzato alla creazione di una  identità digitale diffusa a tutta la cittadinanza.  Infatti con l’obiettivo dichiarato di rendere la nazione più sicura ed efficiente, il governo transalpino ha nei mesi scorsi rilasciato un programma di identificazione, in versione test, chiamato Alicem.  Dopo l'annuncio da parte del Presidente Macron del lancio di Alicem, la Commissione nazionale per l'informatica (Cnil) ha subito avvertito che un sistema del genere violerebbe la normativa europea in materia di consenso sul possesso e utilizzo dei dati personali e sensibili. Si configurerebbe, infatti, un progetto di identità digitale fondato su un dispositivo di riconoscimento facciale obbligatorio ai fini della fruizione del servizio stesso, rendendo dunque il consenso al trattamento dei dati invalido perché non libero, indebitamente condizionato dal fine di poter fruire del sistema d’identità digitale che non ammette alternative. E proprio il tema della effettiva libertà del consenso  - oltre alla non completa sicurezza e resilienza informatica -  è al centro del ricorso avanzato da La Quadrature du Net al Consiglio di Stato francese, per l’annullamento del decreto che prefigura tale sistema di identificazione, correlato all’applicazione Alicem.
La varietà degli usi ai quali il riconoscimento facciale può prestarsi dimostra come la valutazione della sua ammissibilità non possa prescindere dalla considerazione attenta dello specifico contesto, delle finalità e delle implicazioni che esso può determinare.
Se infatti, in alcuni ambiti (ad es. indagini di polizia o giudiziarie di una certa complessità) il ricorso, circoscritto e assistito da tutte le garanzie necessarie, a tale tecnologia può fornire un contributo difficilmente conseguibile altrimenti, in altri contesti - e soprattutto se concepito in chiave meramente agevolatoria di attività ben realizzabili in altro modo (ad es. per controllare l’uscita degli studenti)- esso può invece risolversi in un’ingiustificata (perché, appunto, sproporzionata) limitazione dei diritti individuali.
Di più. Il ricorso diffuso a queste tecniche in circostanze “ordinarie” e a meri fini agevolatori, rischia di indurre una sottovalutazione collettiva dell’invasività di simili misure: il pericolo non è tanto quello del “pendio scivoloso”, quanto di un’acritica e poco consapevole accettazione sociale di una progressiva perdita di libertà (profilo, questo, su cui può leggersi un’acuta riflessione dell’European Data Protection Supervisor,Wojciech Wiewiórowski, https://edps.europa.eu/press-publications/press-news/blog/facial-recognition-solution-search-problem_en, volta a sottolineare anche l’esigenza del vaglio della necessità della misura).
Tale rischio è particolarmente significativo ogniqualvolta il ricorso alla biometria, soprattutto, appunto, “facilitativa” sia legittimato sulla base del mero consenso, benché esplicito, del soggetto, in quanto una generale assuefazione a questo tipo di misure può indurre a sottovalutarne le implicazioni, dirette e non: dalla ubiquitaria geolocalizzazione consentita a chi detenga l’immagine del volto altrui, alla facile profilazione, sempre più incisiva e penetrante grazie alle applicazioni dell’intelligenza artificiale. Il tutto, in un contesto di generale asimmetria informativa tra soggetto passivo e attivo della raccolta dei dati, tale per cui il primo spesso non comprende effettivamente (per inerzia o difficoltà reale) le implicazioni del suo consenso, condannandosi inconsapevolmente a dissimulate “servitù volontarie”. Anzi, quello dell’asimmetria cognitiva rispetto alle tecnologie rappresenta il terreno su cui le tradizionali diseguaglianze rischiano di ripresentarsi in forma tanto più incisiva quanto più sottile, lasciando alla tecnica il dominio della “nuda vita” di chi non possa comprenderne la potenza.
Ma quello della sottovalutazione dell’impatto di simili tecnologie è un rischio che, sia pur in misura minore, si corre anche rispetto al loro uso previsto dalla legge, generalmente per fini di prevenzione e accertamento dei reati. Le garanzie imposte, in questi casi, dalla disciplina europea e nazionale sono indubbiamente significative e contemplano anche elevate sanzioni penali nell’ipotesi di profilazione discriminatoria basata su dati, quali quelli biometrici, particolarmente sensibili.
Sarà dunque determinante, in questo senso, il rispetto, da parte delle norme che di volta in volta legittimino il ricorso a tali misure, dei principi di necessità e proporzionalità, su cui le Corti di Lussemburgo e Strasburgo, ma anche la nostra Corte costituzionale, hanno sinora fondato un rapporto armonico tra libertà e sicurezza. E’ questo il più solido argine alla tendenza a rendere il panottismo il principale modello di controllo sociale e gestione della devianza o, persino, dell’ordine pubblico.
Per questo la soluzione, in discussione presso la Commissione europea, di una moratoria nel ricorso al riconoscimento facciale nei luoghi pubblici, per un periodo compreso tra tre e cinque anni pur con deroghe che è bene siano adeguatamente circoscritte- costituirebbe una decisione di rilevanza determinante, per una duplice ragione.
Da un lato, infatti, è particolarmente importante che tale scelta sia motivata in base all’esigenza di verificare il reale impatto di simili tecnologie e, solo all’esito, valutarne con maggiore consapevolezza la sostenibilità sociale, etica e, quindi, giuridica. Un’espressione, particolarmente rilevante, di quel principio di precauzione che non a caso, nel pensiero di un grande filosofo come Hans Jonas, è strettamente correlato al “coraggio della responsabilità”.
Per altro verso, una simile scelta contribuirebbe a consolidare quel particolare profilo identitario che l’Europa sta progressivamente affermando sul terreno del rapporto tra diritto e tecnica, tentando di rimodularlo in chiave antropocentrica, perché il “destino dell’Occidente” non contraddica, con la cronaca, la propria storia (su questi temi, vds. A. Soro, Democrazia e potere dei dati, Baldini & Castoldi, 2019).
E l’Angelus Novus, insegna Walter Benjamin, non distoglie lo sguardo da ciò da cui, fatalmente, si allontana.


A proposito della CEDU e del suo fondamento costituzionale (brevi considerazioni a margine del volume di A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Giuffrè, 2017)

È ormai sotto gli occhi di tutti la oggettiva centralità, e può ben dirsi imprescindibilità, nell’ambito del diritto costituzionale contemporaneo (come pure, invero, di altre discipline) delle complesse problematiche connesse agli impetuosi sviluppi avutisi negli ultimi due decenni nel (vastissimo, e denso di ricadute) campo della tutela dei diritti e principi fondamentali. Centralità che si apprezza almeno su due livelli: da un lato, quello “costituzionale interno”, essenzialmente in virtù della revisione dell’art. 117 c. 1 Cost. nel 2001 e dell’incessante evoluzione giurisprudenziale che, a partire dal 2007, ne è seguita; dall’altro, quello europeo (ma, anche in questo caso, con inevitabili ripercussioni sull’ordinamento nazionale). E ciò tanto sul “fronte” del cosiddetto sistema CEDU – il cui ruolo è vertiginosamente cresciuto per effetto anzitutto di modifiche normative, soprattutto a partire dal protocollo n. 11 nel 1998, ma anche per effetto di altre importantissime innovazioni riconducibili alla prassi della Corte di Strasburgo e del Comitato dei Ministri – quanto sul fronte comunitario (oggi eurounitario), principalmente in connessione alla proclamazione, nel 2000, e ancor più all’entrata in vigore, nel 2009, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Questa sempre più diffusa consapevolezza, insieme forse a un certo fascino che innegabilmente circonda le tematiche in questione, ha indotto di recente un gran numero di studiosi a soffermarsi su di esse. Come osservato dall’A. del volume su cui si vuol qui brevemente richiamare l’attenzione, «fiumi di inchiostro sono stati versati in tale campo di indagine, divenuto quindi assai arato; potrebbe dirsi che “tutto e il contrario di tutto” sia stato detto».
In effetti, sono innumerevoli gli Autori che, specie negli ultimissimi anni, si sono cimentati su questo terreno, in modo sistematico o anche occasionale (non di rado mediante delle note a sentenza in occasione di pronunce particolarmente importanti), con maggiore o minore competenza e con diversa profondità di analisi; talora anche – non si può fare a meno di osservare sommessamente (e affrontando con serenità e piena disponibilità all’autocritica il rischio che il rimprovero torni ai mittenti, o almeno a qualcuna delle loro pagine) – in modo un po’ frettoloso e superficiale, per non dire improvvisato.
Ebbene, la prima osservazione che può farsi a proposito del volume di A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione (Giuffrè, 2017) è che esso non appartiene di sicuro al novero degli interventi frettolosi, superficiali o improvvisati che si soffermano in modo estemporaneo e, per così dire, decontestualizzato sull’uno o sull’altro aspetto dell’ampia tematica, scelto di volta in volta per ragioni contingenti (magari appunto al mero scopo di “dire la propria” in occasione di qualche decisione di particolare richiamo).
Al contrario, l’Opera è frutto del lavoro di un Autore che da anni – come testimoniato anche da una serie di scritti preparatori del volume di cui qui si discorre – segue attentamente l’evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale relativa al ruolo ed al rango da riconoscersi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Autore è anche ben consapevole del “fronte” europeo della questione, così come di quello, spesso sfuggente, dei giudici comuni,  e questo gli permette di fare emergere con chiarezza di contorni e profondità di analisi le traiettorie, spesso non esattamente coincidenti o sovrapponibili, della giurisprudenza (o, meglio, delle giurisprudenze) di rilievo.
Il volume si caratterizza, lungo tutto l’ampio arco delle tematiche affrontate, come un serio, documentato e approfondito tentativo di raccogliere e di rielaborare in chiave organica e spesso originale una corposa mole di riflessioni sviluppate nel tempo dai più autorevoli o comunque attenti studiosi delle questioni oggetto di trattazione, “coprendo” in modo pressoché esauriente (per quanto si possa essere esaurienti in un’unica opera, vertente oltretutto su un tema generale così esteso e così dibattuto nelle sue moltissime sfaccettature) l’intera dottrina italiana.
Sotto questo profilo, l’adesione, esplicitata con onestà intellettuale, fin dalle prime pagine, a una (almeno nelle sue grandi linee) determinata visione di fondo – che potremmo chiamare, come è stato detto, “integrazionista” – e ad una (sempre almeno a grandi linee) determinata prospettiva metodologica – definibile, per intendersi, “sostanzialista” – giustifica il diverso spazio e il diverso “peso” che in alcune parti del libro vengono ad avere, in modo diretto o indiretto, le diverse voci dottrinali.
Il volume non sembra cioè ambire ad offrire una risposta definitiva, unanimemente condivisa e inattaccabile a tutte le questioni sul tappeto, e nemmeno a quelle affrontate (peraltro numerose e tra le più importanti, e tali da comporre un quadro ordinato e tendente ad una completezza almeno “strutturale” del lavoro).
Piuttosto, come si diceva, esso sembra soprattutto guidato dall’intento (al contempo ambizioso e umile, ma sicuramente più ragionevole rispetto a quello di una trattazione realmente esaustiva) di riprendere, incrociare, sistematizzare e non di rado sviluppare una serie di argomenti circolanti in dottrina con riguardo a tali questioni, allo scopo di offrire una visione critica ampia, strutturata e manifestamente “orientata” delle varie problematiche, in un quadro certamente non onnicomprensivo ma, nondimeno, molto comprensivo (di certo più della stragrande maggioranza dei moltissimi contributi pubblicati in quest’ambito, i quali sono oltretutto caratterizzati, normalmente, dall’avere un oggetto specifico molto più ristretto rispetto a quello, per così dire generale, del volume in discorso).
In questo senso, sembrano allora potersi riprendere e riproporre con riferimento alla stessa opera di Randazzo le considerazioni che questi svolge all’inizio del libro a proposito del complessivo processo evolutivo, tuttora in atto, posto al centro della sua indagine (e cioè quello relativo al «rapporto sia tra le Carte che tra le Corti, con specifico riguardo al rilievo […] assunto [dal]la Convenzione europea dei diritti umani nel nostro ordinamento»), precisamente laddove afferma che «le parole che sono state dette e le pagine che sono state scritte al riguardo, per quanto numerose, non possono […] considerarsi esaustive nel definire il fenomeno».
Ciò sembra valere anzitutto – per citare due questioni tra le più importanti e controverse dell’intera tematica – con riguardo all’annoso “problema” della “ricerca della tutela più intensa dei diritti” (ovvero della “massima tutela possibile ai diritti fondamentali” o, per riprende le parole usate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 317 del 2009, della “massima espansione delle garanzie”), centrale nell’impostazione dell’A. e toccato in diverse parti del libro (in modo più diretto e ampio nelle pagine 222 ss.); nonché con riguardo al parimenti annoso problema del ruolo dei giudici comuni nell’applicazione “diretta” (nei vari sensi e modi che sono stati individuati e prospettati) dei diritti fondamentali di matrice sovranazionale o internazionale, tale problema dovendo oggi (in realtà già da almeno un decennio) essere affrontato, oltre che con riferimento alla CEDU (come, per evidenti motivi, avviene nel volume di Randazzo, specialmente nelle pagine 210 ss.), anche con riferimento alla Carta dei diritti fondamentali, sulle cui modalità di “utilizzo” nelle diverse sedi è stata più volte richiamata l’attenzione dalla Corte costituzionale negli ultimi due anni: dapprima con la “storica”, fortemente innovativa sentenza n. 269 del 2017; e poi, nel 2019, con diverse altre sentenze – in particolare, allo stato attuale, la n. 20, la n. 63 e la n. 117 – che hanno precisato e/o ritoccato il portato della sentenza n. 269.
Ma anche altre importanti questioni affrontate dall’Autore sembrano ancora “aperte” o… meritevoli di essere riaperte.
Ciò è quanto ad esempio parrebbe opportuno con riguardo al problema, in effetti basilare (per ragioni teoriche e per le varie implicazioni pratiche che se ne possono trarre), della corretta individuazione del “fondamento costituzionale della CEDU”: sotto questo profilo, sembrano numerose e forti le “ragioni che militano a favore della copertura dell‘art. 11 Cost.”, e di tali ragioni (che pure si è avuto modo di riprendere e sviluppare in un recente volume sul ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea) Randazzo offre una sintesi efficace (nelle pagine 138 ss., ma la questione è incidentalmente affrontata anche in altre parti del libro; l’A. non manca poi di soffermarsi diffusamente sul possibile ruolo di un’altra norma costituzionale, quella di cui all’articolo 10, e, più in generale, sui rapporti tra quest’ultimo articolo, l’art. 11 e l’articolo 117 primo comma; nonché, ancora, sul potenziale ruolo dell’art. 2).
In questa prospettiva sembrano di particolare rilievo le riflessioni dell’Autore con riguardo, per così dire, alla ostinazione con cui la Corte costituzionale continua a tener fuori dai parametri rilevanti ai fini della “copertura costituzionale” della CEDU l’articolo 11 della Costituzione.
In effetti, le ragioni (essenzialmente “pratiche”) che hanno portato ad escludere categoricamente, nelle decisioni nn. 348 e 349 del 2007, la riconducibilità della CEDU all’art. 11 sembrano evidenti e anche piuttosto fragili, oggi ancor più di allora.
Se il fine – s’intende dire – era quello di sconfessare la prassi di quei giudici comuni che avevano sostanzialmente equiparato il regime operativo del “diritto CEDU” a quello tipico del diritto comunitario (utilizzando anche il primo come motivo di disapplicazione di norme legislative interne con esso contrastanti), pare comprensibile e per così dire “logica”, naturale (anche se non proprio inevitabile), col senno di allora, la “scelta” di differenziare seccamente i parametri costituzionali rilevanti per il primo e, rispettivamente, per il secondo.
Ma ci si potrebbe chiedere: oggi, dopo che, come sappiamo, quella prassi “sovversiva” è stata, ormai da anni, sostanzialmente arginata, e la marginalizzazione della Corte costituzionale nel circuito multilivello di protezione dei diritti fondamentali in Europa sventata, perché non dare alla CEDU la copertura costituzionale che merita (con le positive conseguenze che sono state da più parti – e anche nel volume di cui si stata parlando – messe in luce), differenziandola dalla generalità degli altri accordi internazionali proprio in forza dei suoi contenuti e soprattutto di quella particolarità del meccanismo istituzionale convenzionale (si allude ovviamente alla possibilità di ricorso individuale e, più in generale, al ruolo peculiare della Corte EDU) che la stessa Corte costituzionale, a partire dalle  decisioni nn. 348 e 349, ha più volte ammesso?
Il riconoscimento di una copertura della CEDU da parte dell’art. 11 Cost., in effetti (e il punto pare decisivo), non rimetterebbe in alcun modo in discussione – come sembra emergere chiaramente, seppure implicitamente, dalle acute riflessioni dell’Autore a riguardo – il giudizio accentrato della  Corte costituzionale, una volta che siano considerate, com’è stato fatto, proprie del solo ordinamento comunitario, ed insuscettibili di essere estese alla CEDU, le ragioni che hanno portato i giudici costituzionali ad ammettere un potere “diffuso” di disapplicazione (o non applicazione, secondo la terminologia preferita dalla Corte) del diritto nazionale, al precipuo scopo di non mettere a repentaglio l’effet utile del diritto comunitario/eurounitario. D’altronde, ciò era quello che richiedeva con forza la Corte di giustizia e che non ha, almeno per il momento (ma non sembrano esservi motivi per ritenere che le cose siano destinate a cambiare in futuro), richiesto con altrettanta chiarezza e decisione la Corte di Strasburgo (la quale anzi sembrerebbe, comprensibilmente, aver escluso, in modo più o meno aperto, una simile esigenza, quantomeno in linea di massima).
Sventato, dunque, il rischio in questione, perché – è in sostanza la legittima domanda che sembra farsi l’Autore – ostinarsi a sostenere, come fa la Corte costituzionale a partire dalle sentenze gemelle del 2007, citando testualmente un precedente del 1980 (sent. n. 188), che, in riferimento alla Convenzione, non sarebbe «individuabile, con riferimento alle  specifiche norme pattizie in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale»?
A parte la scontata considerazione che già a quel tempo (nel 1980) il meccanismo giurisdizionale proprio della Convenzione era più intrusivo di quanto non lo fosse mai stato il sistema delle Nazioni Unite, cui i Padri costituenti avevano inteso riferire (peraltro non in via esclusiva, come si tornerà a dire poco oltre) le limitazioni di sovranità previste dall’ art. 11 Cost., si può oggi ragionevolmente ritenere – è questo lo specifico e importante quesito che emerge in filigrana dalle stringenti riflessioni dell’Autore sul punto – che,  alla luce delle trasformazioni degli ultimi venti anni tanto nel sistema normativo convenzionale (in primis per effetto dei protocolli 11, 14 e 16) quanto nella concreta percezione (e autopercezione) del ruolo della Corte EDU, lo Stato italiano non abbia ancora ceduto alcuna porzione di sovranità o comunque accettato limitazioni della propria sovranità a favore degli organi di Strasburgo?
Ma la riflessione dell’Autore, a questo riguardo, è forse ancora più sottile, perché si sofferma su una questione rimasta piuttosto in ombra nella dottrina, andando sostanzialmente a domandarsi e a indagare se la volontà dei Padri costituenti fosse davvero (solo) quella, come spesso si tramanda, di introdurre nell’art. 11 una base o una copertura costituzionale per l’ordinamento delle Nazioni Unite o ci fosse invece, almeno in nuce, (anche) l’idea, per certi versi visionaria, ma non estranea all’orizzonte culturale e all’approccio metodologico lungimirante che ha permeato i lavori dell’Assemblea costituente, di un riferimento – sia pure implicito – ad una qualche (o meglio, a più di una, per non dire a qualsiasi) forma di organizzazione e integrazione a livello europeo (e in questo senso non sembra del tutto irrilevante la circostanza, rimessa in luce in anni recenti, che “un legame tra i dibattiti alla Costituente e il milieu politico-culturale del Manifesto di Ventotene sia riscontrabile” in un certo numero di interventi, sebbene, come è noto, nel complesso “il progetto politico ventoteniano abbia esercitato una debole influenza sui costituenti”, per una serie di ragioni in larga parte contingenti, senza che peraltro ciò abbia inficiato un più generico e generalizzato favor per gli ideali europeisti e/o universalisti: cfr. A. Di Martino, Ventotene. Un progetto politico per l’unità federale europea, in A. Buratti, M. Fioravanti (cur.), Costituenti ombra. Altri luoghi e altre figure della cultura politica italiana (1943-48), Roma, 2010, p. 68 ss., nonché P. Faraguna, Costituzione senza confini? Principi e fonti costituzionali tra sistema sovranazionale e diritto internazionale, in F. Cortese, C. Caruso , S. Rossi (cur.), Immaginare la Repubblica. Mito e attualità dell’Assemblea Costituente, Milano, Franco Angeli, 2018, p. 63 ss., il quale pure nota come «l’analisi dei dibattiti che sul punto si svolsero in Costituente traccia un quadro assai più articolato rispetto alla semplice irrilevanza del discorso europeo nella fase costituente»).
Ed effettivamente, utilizzando con consapevolezza il metodo ermeneutico dell’original intent (p. 3 ss.), Randazzo giunge alla significativa conclusione secondo cui non è «possibile dubitare che, attraverso la formulazione dell’art. 11, il Costituente volesse affermare un principio di carattere generale, valevole per consentire una qualsiasi limitazione di sovranità […] proveniente da una qualsiasi organizzazione internazionale, volta ad assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni» (p. 13). Conclusione che, del resto, appare pienamente coerente con quanto già da tempo acclarato dalla più autorevole dottrina: e cioè, per un verso, che se in un paio di occasioni, in Costituente, “furono respinti o ritirati emendamenti miranti ad inserire un riferimento esplicito ad organizzazioni europee, ciò fu solo perché tale riferimento venne da più parti considerato già implicito nella locuzione «organizzazioni internazionali»”; e, per l’altro (e questo dato è forse ancor più rilevante ai nostri fini), che “l’espressione «limitazioni di sovranità» non venne usata in senso tecnico […], bensì in un senso generico e atecnico, ossia nel senso di ampi e penetranti vincoli internazionali” (entrambe le citazioni sono tratte da A. Cassese, Commento all’Art. 11, in Commentario della Costituzione - Principi Fondamentali, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1975, spec. pp. 578-579).
Tutto ciò risulta ancor più significativo se posto in relazione a un altro elemento su cui si sofferma Randazzo nel quadro della ricostruzione dell’original intent dei Costituenti, e cioè il «certo […] intento manifestato dai Padri di riservare ai diritti una speciale protezione, facendone il perno attorno al quale fare ruotare l’intera costruzione ordinamentale» (del forte legame tra questa visione di fondo e i numerosi “precetti internazionalisti” della Costituzione – può ricordarsi incidentalmente – vi è una traccia evidente e molto significativa, in genere meno valorizzata di quanto probabilmente meriterebbe, anche nell’art. 35, comma 3, oltre che in vari commi dell’art. 10, nello stesso articolo 11 e nell’art. 26).
L’A. ci aiuta così a comprendere – ed è questo uno degli importanti apporti del suo lavoro – che la riconduzione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (così come, a suo tempo, quella del sistema comunitario: ma il discorso per la CEDU sembrerebbe addirittura valere “a maggior ragione”) nell’ambito di operatività dell’art. 11 Cost. non rappresenterebbe (e, quanto al sistema comunitario, non ha rappresentato) affatto, come spesso si tende a ritenere o si afferma, una forzatura dogmatica (che nel caso delle Comunità parrebbe quasi essere giustificabile solo per le pressanti esigenze pratiche che ben si conoscono), ma piuttosto un esito pienamente in linea con la lettera e con lo spirito originario di tale articolo (per “spirito” qui intendendosi, in sostanza, la temperie delle finalità e delle prospettive più largamente condivise che nella disposizione in discorso, e attraverso di essa, si sono volute riversare e propiziare da parte della generalità dei membri della Costituente).

 


Jusqu'ici tout va bien… ma non sino alla fine della storia. Luci, ombre ed atterraggio della sentenza n. 115/2018 della Corte costituzionale che chiude (?) la saga Taricco

In passato ed in varie sedi, si è fatto notare come sia stato merito della Corte costituzionale nel suo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea aver fatto emergere il linguaggio delle tradizioni costituzionali comuni come possibile valida alternativa ad un dialogo tra le Corti fondato sul codice linguistico molto meno inclusivo, pluralista e tollerante che si fonda sulla nozione di identità costituzionale.
Si era anche fatto notare come l’assist della Corte costituzionale fosse stato fatto proprio dalla Corte di giustizia, che in M.A.S e M.B. definiva quale semplice precisazione quello che in realtà sembra essere un radicale cambio di rotta rispetto a Taricco, almeno riguardo al principio di legalità previsto dall’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali che diventa – nella seconda pronuncia della Grande Sezione – la sublimazione europea di tradizioni costituzionali anche (come spesso, del resto, accade) non comuni. In questo senso, il fatto che l’ombrello dell’art. 49 sia così ampio da includere anche tradizioni costituzionali (di un ristretto numero di Stati membri) come quelle relative alla natura sostanziale della prescrizione propria dell’ordinamento italiano ne è la prova lampante.
Si concludeva l’ultimo commento testé citato sottolineando che «the Court of Justice of European Union [...] decisione in M.A.S. and M.B. will presumably bring this saga to an end prior than the Italian Constitutional Court (‘ICC’) takes back the floor and ‘cashes out’ and (…) that the ECJ decision will be welcomed and promptly enforced by the ICC despite its argumentative weakness (…)».
Ecco, in quest’ultimo passaggio si è stati forse eccessivamente ottimisti.
La Corte costituzionale, infatti, con la sentenza n. 115/2018 del 31 maggio scorso effettivamente prende atto della svolta di M.A.S. e M.B. rispetto a Taricco, ma ci tiene a fare precisazioni e aggiunte che, proprio in forza di quell’alleanza sul terreno (e linguaggio) condiviso delle tradizioni costituzionali comuni, francamente non ci si aspettava. La Corte costituzionale sembra parlare questa volta un linguaggio diverso, quello dell’identità costituzionale a cui si affianca una attitudine oppositiva e non cooperativa e dialogica rispetto alle ragioni di Lussemburgo. Non è un caso che sia del tutto assente qualsiasi riferimento alle tradizioni costituzionali (anche non comuni), mentre si richiama l’identità costituzionali in ben due passaggi della pronuncia (v. punti 5 e 11).
Del resto, sotto diversi profili la Corte costituzionale, anche in quest’ultima (?) tappa della saga, sembra parlare un proprio linguaggio, diverso da quello della Corte di giustizia. Rectius, la prima sembra almeno formalmente seguire il ragionamento della seconda. Ma nel trarne le conseguenze che ritiene “scontate”, si distacca dall’impostazione del giudice di Lussemburgo, giungendo sostanzialmente a negare l’efficacia diretta (di cui la “determinatezza” rappresenta il “nocciolo duro”) dell’art. 325 TFUE. Pur concordandosi sul fatto che tale disposizione non ha i caratteri di chiarezza, precisione e incondizionatezza che la Corte di giustizia le ha riconosciuto in Taricco (punto 51) e confermato in M.A.S. e M.B. (punto 38), la Consulta sembra osare troppo nell’effettuare una valutazione che non le spetta, non essendo essa deputata a sancire quali norme UE hanno (o meno) effetto diretto. Vero è che essa evidenzia – come già e più diffusamente aveva fatto nell’ordinanza n. 24/2017 (punti 6 e 8) – che resta ferma la competenza della «sola Corte di giustizia [di] interpretare con uniformità il diritto dell’Unione, e [di] specificare se esso abbia effetto diretto» (sentenza n. 115/2018, punto 12). Tuttavia, tale giudice nella sostanza contraddice i menzionati punti delle sentenze di Lussemburgo là dove afferma con forza che è «evidente il deficit di determinatezza che caratterizza, sia l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE [...], sia la “regola Taricco” in sé» (punto 11). E si tratta – secondo la Consulta – di deficit irrimediabile, che non può essere colmato neppure «grazie al progressivo affinamento della giurisprudenza europea e nazionale», che è inidoneo a sopperire all’originaria carenza di precisione del precetto penale.
Ma andiamo con ordine.
La prima parte della motivazione è esattamente quella che ci si aspettava.
La Corte costituzionale ricorda, al punto 7 della sua pronuncia, come la Corte di giustizia in M.A.S. e M.B. abbia “precisato” (punto 60) che in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la regola Taricco non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l’ha dichiarata, ovvero anteriormente all’8 settembre 2015. Si tratta – secondo la Consulta – di un divieto che discende immediatamente dal diritto dell’Unione e non richiede alcuna ulteriore verifica da parte delle autorità giudiziarie nazionali. Ne deriva che «[a]lla luce del chiarimento interpretativo offerto dalla sentenza M.A.S., tutte le questioni sollevate da entrambi i rimettenti risultano non fondate, perché la “regola Taricco” non è applicabile nei giudizi a quibus» (punto 9).
Jusqu'ici tout va bien, per ricordare la citazione dell’ultima scena di un film indimenticabile. Ma ciò che conta purtroppo, come la stessa citazione ricorda, è l’atterraggio. E quello della Corte costituzionale, per come sviluppa e conclude il suo ragionamento, non sembra immune da un impatto inter-ordinamentale di un certo spessore.
La Corte, infatti, al punto 10 specifica, rispetto a quanto poc’anzi ricordato, che l’infondatezza delle questioni «non significa che le questioni sollevate siano prive di rilevanza, perché riconoscere solo sulla base della sentenza M.A.S. l’avvenuta prescrizione significherebbe comunque fare applicazione della “regola Taricco”, sia pure individuandone i limiti temporali». Si tratta di scelta già effettuata, ad esempio, dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 9494/2018 e su cui, evidentemente, la Consulta non concorda, ritenendo piuttosto che «[i]ndipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare [...] la “regola Taricco”, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.».
Chiaro è l’intento della Corte costituzionale di pronunciarsi con una sentenza che abbia efficacia sostanzialmente erga omnes e ponga fine alle derive giurisprudenziali della saga, con indicazioni stringenti e univoche per tutte le autorità giudiziarie nazionali che saranno chiamate a prendere posizione rispetto alla applicabilità della regola Taricco nei procedimenti dinanzi ad esse pendenti.
Vero è che la Corte di giustizia non ha mai espressamente chiarito in M.A.S. e M.B. a quale giudice (Corte costituzionale o giudice comune) spettasse verificare la compatibilità della regola Taricco con il principio di legalità sotto il profilo della determinatezza e della irretroattività in malam partem (per diverse posizioni in proposito v. qui e, già ad una prima lettura della sentenza del 5 dicembre 2017, anche qui). Certo, leggendo in combinato le due pronunce dei giudici del Kirchbergh si potrebbe sostenere che il giudice chiamato a garantire il rispetto dei diritti fondamentali sia innanzitutto il giudice comune (v. punto 46 della sentenza M.A.S. e M.B. che richiama il punto 53 della Taricco). Non poteva essere altrimenti in Taricco e anche in M.A.S. e M.B., in fin dei conti, la Consulta era chiamata a pronunciarsi in via incidentale e ben avrebbe potuto lasciare la verifica ultima della suddetta compatibilità ai giudici comuni dell’ordinamento nazionale che assicurano “dalla base” il funzionamento del rinvio pregiudiziale quale “chiave di volta” del sistema giurisdizionale dell’Unione europea.
La Corte costituzionale, al contrario, ritiene che spetti in via esclusiva ad essa effettuare tale controllo, poiché è in gioco un principio supremo del nostro ordinamento costituzionale (sentenza n. 115/2018, punto 8). Pur senza espressamente richiamarlo, la Consulta pare in tal modo allinearsi all’obiter dictum (punto 5.2) di cui alla sentenza n. 269/2017. In questo obiter, come noto, essa ritiene di doversi riservare un controllo accentrato di costituzionalità quando una norma interna viola tanto la Costituzione, quanto la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, come accaduto da ultimo – espressamente ricorda la stessa Corte costituzionale – nel caso M.A.S. e M.B. Analogamente, nella sentenza in esame essa riserva a se stessa la verifica del rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo e ricorda che compito del giudice comune in casi siffatti è (soltanto) quello di sollevare il dubbio di legittimità costituzionale della norma interna che consente l’ingresso di una disposizione di diritto dell'Unione che si ritiene lesiva dei controlimiti (punto 8).
Tuttavia, se pur ci è chiara la premessa logica-argomentativa da cui parte la Consulta, non si può non notare che (anche) sotto il profilo in esame, come accennato, il ragionamento del Giudice costituzionale pare non perfettamente in linea con quello della Corte di giustizia.
Senza dubbio in M.A.S. e M.B anche la Corte di giustizia – ribaltando (al punto 52) il bilanciamento effettuato in Taricco tra interessi in gioco, ovvero tutela delle finanze dell’Unione e principio di legalità, a favore di quest’ultimo – ha sancito la non applicabilità della regola Taricco laddove essa violi il principio della determinatezza. Ma la Corte di giustizia si riferisce alla indeterminatezza del regime di prescrizione applicabile a seguito della disapplicazione del regime nazionale controverso di prescrizione (punto 59).
Diversamente, la Corte costituzionale fa riferimento ad una indeterminatezza “a monte”, quella della base legale, ritenendo irrimediabilmente indeterminati tanto l’art. 325, parr. 1 e 2, TFUE, quanto la regola Taricco. Vero è che già nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, si è sostenuta l’inammissibile applicazione della regola Taricco in assenza di una base legale sufficientemente determinata. Nella sentenza in esame tuttavia si evidenzia in modo più stringente di quanto non sia accaduto nell’ordinanza n. 24/2017 che la regola Taricco e ancor prima l’art. 325 TFUE non possono considerarsi una base legale che soddisfa tale caratteristica (punto 11).
Quanto alla regola Taricco si sottolinea, in particolare, che il giudice non ha gli strumenti per trarre dall’enunciato “numero considerevole di casi” una regola sufficientemente definita e che ad esso comunque non può essere attribuito il compito di perseguire obiettivi di politica criminale: ciò implicherebbe infatti la violazione del principio della soggezione del giudice alla legge di cui all’art. 101, 2° comma, Cost. Quanto all’art. 325 TFUE in sé, la Consulta afferma che «è persino intuitivo» (sigh!) che da tale previsione non potesse essere estrapolata la regola Taricco (punto 12). E aggiunge che se è pur vero che anche la più certa delle leggi ha bisogno di interpretazioni sistematiche, resta fermo che esse non possono surrogarsi alla praevia lex scripta. In paesi di tradizione continentale come l’Italia vige l’imperativo imprescindibile che le scelte di diritto penale sostanziale permettano all’individuo di conoscere in anticipo le conseguenze della sua condotta e ciò implica necessariamente che «tali scelte si incarnino in testi legislativi offerti alla conoscenza dei consociati» (punto 11). Perciò, «rispetto al diritto scritto di produzione legislativa, l’ausilio interpretativo del giudice penale non è che un posterius incaricato di scrutare nelle eventuali zone d’ombra, individuando il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza e che la persona può raffigurarsi leggendolo» (ibidem).
Il ripetuto (quasi ridondante) richiamo da parte della Consulta ad un testo scritto legislativo come unica base possibile per la definizione del precetto penale evoca (seppur solo implicitamente) il principio di legalità sotto il coté della riserva di legge (nazionale), che pure – come la più attenta dottrina aveva rilevato – non era stato espressamente impiegato nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale a sostegno dell’illegittimità costituzionale della regola Taricco. E sotto questo profilo, il ragionamento della Consulta suscita qualche perplessità a fronte del fatto che nel nostro ordinamento esistono ipotesi in cui un precetto non realmente determinato deve essere necessariamente integrato dall’interprete per poter trovare applicazione: si pensi, per tutti, al d. lgs. 16 marzo 2015, n. 28 che introduce l’istituto della “non punibilità per particolare tenuità dell’offesa”. Ha ragione d’essere questa disparità di impostazione? Certo in quest’ultimo caso si tratta di applicazione a favore del reo, mentre la regola Taricco implica una disapplicazione in malam partem … e qui si torna al “peccato originale” della Corte di giustizia e al funzionalismo che ha guidato la sua prima decisione del settembre 2015, dettato dall’esigenza di assicurare a qualunque costo la tutela degli interessi finanziari dell’Unione.
Anche il ragionamento che la Consulta svolge rispetto all’indeterminatezza dell’art. 325, par. 2, TFUE pone qualche perplessità. La Corte di giustizia sul punto in M.A.S. e M.B. rimane silente: il punto 59 della sentenza esamina infatti la sola indeterminatezza del regime prescrizionale applicabile a seguito di disapplicazione del regime nazionale di prescrizione per contrasto con l’art. 325, par. 1. Si potrebbe forse sostenere che anche sotto questo profilo non si abbia indeterminatezza, perché a seguito della disapplicazione il reato rilevante diventa imprescrittibile. E se è conoscibile la nuova regola (ovvero si applica nel rispetto del principio di irretroattività in malam partem) non si ha violazione del principio di legalità.
Ad ogni modo, anche ammettendo che una violazione della determinatezza del regime prescrizionale applicabile discenda dall’applicazione della regola Taricco ex art. 325, par. 1, TFUE, siffatta violazione potrebbe escludersi in caso di disapplicazione imposta dal rispetto dell’art. 325, par. 2, TFUE. Come rilevato in dottrina, per assicurare il principio di assimilazione sancito da tale previsione infatti, a fronte della disapplicazione della normativa nazionale controversa, potrebbe ritenersi applicabile senza problemi interpretativi il corrispondente regime di prescrizione che opera a salvaguardia delle finanze nazionali. Tuttavia, la Consulta esclude con forza questa soluzione ermeneutica: essa chiaramente afferma che «anche se il principio di assimilazione non desse luogo sostanzialmente a un procedimento analogico in malam partem e potesse permettere al giudice penale di compiere un’attività priva di inaccettabili margini di indeterminatezza, essa, comunque sia, non troverebbe una base legale sufficientemente determinata nell’art. 325 TFUE, dal quale una persona non avrebbe potuto, né oggi potrebbe, desumere autonomamente i contorni della “regola Taricco”» (punto 13).
Prima di svolgere qualche considerazione “di sistema”, pare ancora opportuno evidenziare come la Consulta si distacchi dalla Corte di giustizia anche con riguardo alla natura del regime della prescrizione. Quest’ultima sembra ammettere la natura sostanziale della prescrizione sino all’adozione della direttiva PIF e sulla base di tale premessa consentire la non applicazione della regola Taricco, data la libertà dell’Italia, sino a tale data, di regolamentare autonomamente la prescrizione (M.A.S. e M.B., punti 45 e 58). La Consulta ribadisce con forza la natura sostanziale dell’istituto (sentenza n 115/2018, punto 10), senza nulla dire (ma forse non è il suo compito?) sulle possibili ricadute nel nostro ordinamento della trasposizione di tale direttiva, che secondo la Corte di giustizia sembra conferire natura processuale alla prescrizione (M.A.S. e M.B., punti 44 e 45). E quasi a volersi rimangiare quanto affermato, seppur incidentalmente, al punto 9 dell’ordinanza n. 24/2017, dove sembra ammettersi che la prescrizione possa avere natura processuale, anche se ciò certo non farebbe venire «il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate».
Alla luce di quanto sopra, una domanda sorge quasi spontanea.
Perché la Consulta ha sentito il bisogno di chiarire con tanta enfasi la propria prospettiva del radicale contrasto della regola Taricco con il principio di determinatezza in materia penale, previsto dall’art. 25. 2° comma, Cost. se, per porre fine alla saga, sarebbe bastato riconoscere il “chiarimento” della regola (in base alla sentenza M.A.S. e M.B.) quanto alla sua applicazione nel tempo?
Perché non chiudere con un’ordinanza (anziché con una sentenza) che facesse emergere la non applicabilità della regola Taricco ai giudizi pendenti?
Per la semplice ragione che, così facendo, si sarebbe definitivamente sterilizzato sì il conflitto con Lussemburgo, ma si sarebbe lasciato aperto un fronte (interno) del conflitto, quello con i giudici comuni che già prima della sentenza M.A.S. e M.B. avevano limitato l’applicazione temporale della regola Taricco (qui), sulla base di un’impostazione che la Consulta non condivide. E conflitto, quindi, che tale Corte ha appunto ritenuto indispensabile chiudere con una pronuncia, come detto, dagli effetti sostanzialmente erga omnes.
Non è un caso che sia stato rilevato da un giudice costituzionale nella sua veste accademica che la tendenza al giudizio diffuso di legittimità a cui si va assistendo grazie anche al rapporto privilegiato tra giudici comuni e Corte di giustizia rischi di portare all’erosione – proprio con riguardo alla protezione dei diritti fondamentali – del ruolo e dei poteri del giudice delle leggi nel contesto di un mandato costituzionale (quello di un sistema accentrato di costituzionalità) che non può essere disatteso.
Evidentemente la Corte costituzionale non è indifferente a tale rischio.
E in questo senso sembra poter essere letto il menzionato obiter dictum della sentenza n. 269/2017, in cui la Consulta – dopo la pronuncia della Corte di giustizia in M.A.S. e M.B., che viene espressamente citata – rileva che «può darsi il caso che la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione, come è accaduto da ultimo in riferimento al principio di legalità dei reati e delle pene» e aggiunge che, «laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE».
Alla luce di questo fronte dialogico interno che evidentemente si affianca a quello esterno, i destinatari del messaggio (neanche così criptico) della Consulta sembrano i giudici nazionali, che sono chiamati a pensarci due (ma anche tre) volte prima di aggirare il giudice delle leggi, alimentando il loro canale privilegiato con la Corte di giustizia.
Più precisamente, detto messaggio, letto congiuntamente con quanto si legge al punto 14, nelle due righe conclusive della sentenza n. 115/2018, vale a dire che «la violazione del principio di determinatezza in materia penale sbarra la strada senza eccezioni all’ingresso della “regola Taricco” nel nostro ordinamento» (corsivo aggiunto), sembra indirizzato, in particolare, alla Corte di Cassazione. Non è un mistero che recentemente siano emerse prospettive piuttosto distanti tra quest’ultima e la Corte costituzionale quanto a modi e tempi di applicazione del ruolo che sicuramente condividono, seppur ovviamente con declinazioni differenti, di garanti dei diritti fondamentali del nostro ordinamento. Così, è vero con che con l’ordinanza n. 3831/2018, la Corte di Cassazione ha seguito alla lettera l’obiter dictum della sentenza n. 269/2017 che richiede, come si è visto, in una situazione di contrasto della normativa oggetto di applicazione tanto con il parametro costituzionale quanto con quello della Carta, di sollevare, innanzitutto, la questione di costituzionalità. Allo stesso tempo però, i Giudici di Piazza Cavour hanno chiesto chiarimenti alla Consulta in merito ad una serie di problematicità, non solo inter-ordinamentali, che sembrano derivare da tale “questione prioritaria di costituzionalità”. Altrettanto vero che, solo due mesi dopo, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 13678/2018 ha di fatto ignorato, invece, le indicazioni della Corte costituzionale e, in una situazione di doppio contrasto, ha immediatamente rinviato alla Corte di giustizia.
Ma, ancora più problematica – per il rischio di una progressiva marginalizzazione della Corte costituzionale nel suo ruolo di garante ultimo della tutela dei diritti fondamentali all’incrocio tra Carte e Corti – è la citata decisione n. 9494/2018 della Corte di Cassazione, che dopo M.A.S. e M.B. e prima della sentenza n. 115/2018 decide di applicare la regola Taricco così come depurata dalla Corte di giustizia dall’efficacia ex tunc e, quindi, di applicare la normativa nazionale controversa.
Alla luce di tali orientamenti, il solo modo per imporre alla Cassazione, in primis, e così a tutti i giudici comuni di “sbarrare la strada” alla regola Taricco a prescindere dalla data di commissione dei fatti è quello di dichiararne con forza la contrarietà con il principio di determinatezza sancito dall’art. 25, 2° comma, Cost. Sarebbe del resto un cattivo maestro chi applica una regola che, a detta della Consulta, è chiaramente in contrasto con la Costituzione a prescindere da qualsiasi valutazione sulla sua applicazione temporale.
Si tratta di una formale attestazione di controlimiti? No, perché secondo la Corte costituzionale la stessa conclusione è stata raggiunta dalla Corte di giustizia in M.A.S. e M.B. Ciò è quanto la Consulta specifica al punto 14 della sentenza n. 115/2018 dove, richiamando un concetto già espresso al punto 7, ritiene inapplicabile la regola Taricco non solo alla luce della Costituzione, ma anche sulla base dello stesso diritto dell’Unione europea (e della lettura che dell’art. 49 della Carta si è data nella sentenza del 5 dicembre 2017).
Certo, parlare di controlimiti accertati ma non azionati sembra forse eccessivo, ma rimangono molti dubbi su questa interpretazione autentica della Corte costituzionale di quanto si direbbe in M.A.S. e M.B. e sarà oltremodo interessante conoscere se e quale sarà la reazione del giudice di Lussemburgo.
Certamente, alla luce del percorso argomentativo della Consulta, questa rilettura di M.A.S. e M.B.  era probabilmente l’unico modo per evitare l’opposizione dei controlimiti. Eventualità, quest’ultima, che avrebbe concretizzato un atterraggio ad impatto eccessivamente rischioso anche per questa Corte così motivata a difendere strenuamente – e ragionevolmente, dal suo punto di vista – il suo ruolo di Garante della protezione dei diritti fondamentali dell’ordinamento italiano all’interno del sistema multilivello.
Jusqu'à mi-chemin tout va bien… and what is next?


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La Consulta si rinnova. E la giurisprudenza?

Pubblicato su www.lavoce.info


Finalmente il Parlamento ha eletto i tre nuovi giudici costituzionali: uno studioso di diritto del lavoro e due noti costituzionalisti. Quale contributo porteranno nella giurisprudenza della Corte? Senza dimenticare che le decisioni sono comunque collegiali, si possono fare alcune previsioni.

 

Corte costituzionale finalmente al completo

Dopo trentuno tentativi senza risultato, finalmente, con la votazione del 16 dicembre scorso, il parlamento ha eletto i tre giudici costituzionali che mancavano all’appello e ha messo fine a un vulnus istituzionale che durava da troppo tempo e di cui il primo responsabile era lo stesso potere legislativo.
La Corte costituzionale può ora riprendere a lavorare contando sull’apporto di quindici giudici, come richiede l’articolo 135 della Costituzione, e non (soltanto) di dodici, come è invece stata costretta a fare da luglio scorso (quando si è liberato il terzo posto disponibile in Corte) a causa dello stallo dovuto a una lunga e per nulla gratificante storia di veti incrociati tra i differenti schieramenti politici in parlamento.
Ma chi sono i tre nuovi arrivati al palazzo della Consulta? Si tratta di Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti. L’attenzione si concentra qui sui primi due, perché il fatto di essere due notissimi costituzionalisti – Prosperetti è invece un assai apprezzato professore di diritto del lavoro – può forse consentire di rispondere più agevolmente a un’ulteriore domanda: che impatto sulla giurisprudenza della Corte è possibile aspettarsi dai nuovi arrivati?

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Costruendo le tradizioni dei diritti in Europa: il senso di un gerundio, e di un seminario.

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Grazie davvero, innanzitutto, anche a nome degli altri coordinatori di diritticomparati, a Benedetta Barbisan, per la splendida accoglienza e la cruciale condivisione degli oneri organizzativi.

Molti mesi fa, discutendo con Andrea Buratti e Raffaele Torino circa spirito e titolo del seminario di oggi, mi sono imbattuto in un gran bel saggio di Martin Krygier, Law as Tradition[1], in cui, si legge, tra l’altro, che «we use the language of a (legal) tradition when we attempt to describe how legal past is relevant to the legal present. It is about the power of the past-in-the-present».

Non potevamo riconoscerci maggiormente in quel “we”: si trattava esattamente dello spunto che andavamo cercando, una dinamizzazione del concetto di tradizioni giuridiche che ci permettesse di valorizzarne l’intrinseca forza trasformativa attraverso l’immagine, che secondo Krygier, tra l’altro, costituisce una delle tre concretizzazioni di quel “power”, della «transmission of the past into the present».

Ovviamente non siamo stati i primi a riflettere su potenziale trasformativo delle legal traditions e sull’esigenza di una iniezione di dinamizzazione nelle stesse.

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