Il futuro dell’Ungheria fra Regolamento condizionalità e Recovery Plan: quali indicazioni dalla doppia decisione del Consiglio?

Quella del 15 dicembre 2022 è una data, almeno in potenza, carica di significato per quanto concerne il futuro dell’Ungheria. In quella giornata, infatti, il Consiglio (ECOFIN) ha dato il via libera, inter alia, a due decisioni di esecuzione di grande importanza concernenti l’ordinamento ungherese.
Con la prima, a norma del Regolamento 2020/2092 sulla condizionalità di bilancio, i ministri delle finanze dei Paesi membri hanno stabilito la sospensione del 55% degli impegni economici assunti dall’Unione nell’ambito di tre programmi operativi della politica di coesione relativi all’ambiente, al trasporto e allo sviluppo del territorio, a cui si aggiunge il divieto per la Commissione di assumere, in regime di gestione diretta o indiretta del bilancio, nuovi impegni giuridici con trust di interesse pubblico costituiti all’interno del Paese membro. Tale decisione, il cui impatto economico è stimato in circa 6,3 miliardi di euro, fa seguito alla comunicazione della Commissione del 30 novembre scorso nella quale si rilevava l’adeguatezza solamente parziale della risposta correttiva attuata dalle autorità ungheresi (si veda qui, qui, qui e qui). Serve, infatti, ricordare che il governo di Budapest, a fronte dell’iniziale notifica della Commissione del 27 aprile 2022 con cui si contestavano gravi deficit riguardanti la disciplina degli appalti pubblici, il quadro anticorruzione, nonché l’organizzazione e il funzionamento delle procure, si era impegnato a porre in essere un piano comprensivo di 17 progetti di riforma volti a correggere, allorché pienamente implementati, i richiamati vulnera.
Con la seconda, invece, il Consiglio ha dato il via libera al piano nazionale ungherese per la ripresa e la resilienza disposto ai sensi del Regolamento 2021/241 il quale, presentato alla Commissione nell’ormai lontano 11 maggio 2021, era rimasto de facto congelato stante le note problematiche che da tempo affliggono l’Ungheria sul piano del rispetto dei principi della rule of law. Conformemente alla proposta formulata dalla Commissione il 30 novembre 2022, tuttavia, la dotazione di circa 5,8 miliardi di euro sottoforma di sovvenzioni potrà essere effettivamente versata nelle casse ungheresi solo dopo che quest’ultima avrà soddisfatto il raggiungimento di 27 milestones finalizzate a rafforzare la protezione dello Stato di diritto, quanto la salvaguardia degli interessi finanziari dell’Unione, assicurando un adeguato sistema di controlli nell’utilizzo delle erogazioni eurounitarie. Un insieme di interventi più esteso e solo in parte collimante con quanto richiesto dalla procedura instaurata ai sensi del Regolamento sulla condizionalità – si pensi alla normativa anticorruzione e a quella sugli appalti – toccando aspetti nevralgici dell’architettura istituzionale magiaro come l’indipendenza dell’ordinamento giudiziario.
Sebbene non bisogna cadere nell’errore di pensare che i due procedimenti siano parte di un unico strumento, è altrettanto vero che i tempi (e le modalità) con cui si è giunti alla loro approvazione, così una parte degli obiettivi che entrambi si prefiggono nei confronti del Paese destinatario, suggeriscono alcune considerazioni “comuni”. Gli istituti disposti, rispettivamente, dal Regolamento 2020/2092 e dal Regolamento 2021/241 rappresentano la complementare estrinsecazione delle potenzialità insite nel concetto stesso di condizionalità. Da un lato, quella negativa e in sostanza sanzionatoria, legata alla sospensione dei fondi. Dall’altro, quella positiva, e per certi versi premiale, connessa all’attribuzione dei fondi del programma Next Generation EU. In entrambi i casi, come dimostra l’esempio della loro applicazione nei confronti dell’Ungheria, la finalità è comune e consiste nell’attivazione di una procedura dialogica – rafforzata dal condizionamento economico – volta ad incidere in misura anche significativa sulle politiche interne dello Stato membro in modo che esse si conformino agli standard imposti dal diritto europeo.
Analizzando più da vicino l’intera vicenda, come spesso accade quando si osserva l’orizzonte europeo, non si può fare a meno di rilevare segnali contrastanti che spingono a tenere separati gli aspetti positivi da quelli negativi, entrambi presenti nella fattispecie de quo. Partendo dalle note più dolenti, queste insistono sulle questioni più strettamente connesse al metodo, evidenziando una problematica per certi versi atavica legata all’assunzione di decisioni rientranti nell’orbita intergovernativa: la sempre più marcata insostenibilità della regola che sovente impone il voto all’unanimità nelle deliberazioni rimesse ai rappresentanti dei governi degli Stati membri, attribuendo a ciascuno di essi un vero e proprio potere di veto. Nell’occasione, infatti, i provvedimenti riguardanti l’Ungheria sono stati inseriti all’interno di un pacchetto più ampio contenente una modifica al Regolamento 2020/2093 relativo al quadro finanziario pluriennale 2021-2027 in modo da permettere per l’anno 2023 l’assistenza economica nei confronti dell’Ucraina, e l’adozione di una direttiva tesa a garantire un’imposizione fiscale minima per i gruppi di imprese multinazionali. Dinanzi al veto minacciato da Budapest, da ultimo, la percentuale dei fondi di coesione oggetto di sospensione è scesa dall’inziale percentuale del 65% (circa 7,5 miliardi di euro) prospettata dalla proposta della Commissione del 18 settembre 2022, all’attuale 55%. Ancorché ufficialmente motivata in ragione degli interventi correttivi medio tempore adottati dall’Ungheria, è difficile non intravedere (anche) la presenza di ragioni di realpolitik, neppure troppo celate, dietro questa sensibile decurtazione.
Venendo, invece, agli aspetti di maggior impatto positivo, questi riguardano più specificamente il merito delle decisioni adottate dal Consiglio. In primis, la volontà di procedere sino in fondo nei confronti dell’Ungheria, sfruttando le potenzialità del Regolamento 2020/2092 dopo mesi di travaglio – legati più che altro alla sua effettiva entrata in funzione – giungendo all’adozione di misure concrete (fra gli altri, qui e qui). In secondo luogo, la scelta di applicare, almeno formalmente, con rigore l’art. 19, par. 3, lett. J) del Regolamento 2021/241, subordinando l’attuazione del piano nazionale di ripresa ungherese al primario conseguimento di specifici obiettivi. Anche con riferimento a tali aspetti, nondimeno, si sono alzate voci critiche volte a segnalare un approccio europeo eccessivamente accomodante. Rispetto all’applicazione del Regolamento 2020/2092, data la pervasività dei fenomeni corruttivi di altissimo livello ormai strutturati all’interno del sistema politico ed economico ungherese, vieppiù nel quadro di un ordinamento del quale si dubita finanche la riconducibilità all’interno della tassonomia liberaldemocratica – come affermato dal Parlamento europeo nella risoluzione del 15 settembre scorso – non si comprenderebbero le ragioni del limitarsi a sospendere una mera percentuale di (solo) taluni fondi di coesione. Ciò, considerando come la condizionalità di bilancio rappresenti uno strumento orizzontale applicabile nei confronti di ciascuna delle voci del quadro finanziario europeo pluriennale destinate al singolo Paese. Al tempo stesso, però, pare opportuno segnalare come le attuali condizioni economiche dell’Ungheria, alle quali si aggiunga la dipendenza della stessa dai finanziamenti europei, può rendere l’attuale taglio di una parte delle risorse tutt’altro che irrilevante. Riguardo all’approvazione del PNRR, invece, anche in presenza di diverse milestones, si potrebbe scorgere una sorta di mano tesa nei confronti del governo ungherese. Ai sensi del combinato degli artt. 12, par. 2 e 13, par. 1 del Regolamento 2021/241, in caso di mancato stanziamento dei contributi finanziari entro la data del 31 dicembre 2022, il 70% degli stessi sarebbe andato perso in via definitiva. Così, invece, l’Ungheria ha davanti a sé un più ampio margine temporale per poter riuscire ad ottenere i pagamenti.
Al di là delle diverse chiavi di lettura che si possono proporre, c’è forse un elemento che per la prima volta emerge in chiave inedita nello scontro fra Unione europea ed Ungheria: l’inversione dei ruoli fra che chi insegue e che chi è inseguito. Commissione e Consiglio hanno fatto la loro mossa e ora la palla passa nel campo dell’Ungheria. Se fino ad ora era sempre stata l’Unione a doversi peritare di individuare soluzioni in grado di porre rimedio alla progressiva regressione illiberale in atto a Budapest, l’inerzia sembra essersi spostata in una diversa direzione. L’ottenimento delle risorse economiche in gioco dipende ora dal percorso che le istituzioni di quest’ultima decideranno di intraprendere, con la consapevolezza che le condizioni dettate dall’Unione richiedono il loro recepimento entro tempi certi. Se le somme messe a disposizione dal dispositivo per la ripresa e la resilienza devono essere spese entro e non oltre il 31 dicembre 2026, la sospensioni dettate dal Regolamento sulla condizionalità di bilancio divengono definitive qualora gli importi non sino iscritti al bilancio oltre il secondo anno. Vero è che molto dipenderà anche dalla severità con la quale verranno scrutinate le riforme che con buona probabilità verranno approvate nei prossimi mesi dall’Ungheria, consci di come le sue autorità si siano dimostrate nel passato più recente assolutamente abili nel porre in essere misure solo all’apparenza in grado di convergere in direzione dei valori fondamentali dell’Unione. La speranza, dunque, è che permanga la medesima impostazione (attualmente) intransigente adottata nei confronti delle riforme del sistema giudiziario realizzate in Polonia, a loro volta costituenti le premesse necessarie per accedere alle risorse del suo piano nazionale di ripresa e resilienza (per un commento, qui, qui e qui).
I prossimi mesi, pertanto, saranno fondamentali per testare non solo la determinazione dell’Ungheria, bensì la resilienza dell’Unione in quanto tale. La sua determinazione nel proteggere i valori dello Stato di diritto e, in ultimo, se stessa. Dopo anni in cui il difficile compito è stato fatto gravare pressoché unicamente sul giudiziario, ossia sulla Corte di Giustizia, con la duplice decisione del 15 dicembre scorso si assiste, finalmente, ad un ritorno del politico. Sperando che gli anni di ingiustificata assenza non siano trascorsi inutilmente ma abbiano favorito una riflessione su quali errori è bene non commettere più, in futuro.


Lo stato della democrazia in Ungheria e le istituzioni dell’Unione: qualche spunto a partire dalla risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre 2022

Sono ormai diversi anni che l’involuzione dello Stato di diritto in Ungheria ha assunto livelli di guardia così elevati da suggerire l’interrogativo circa la possibilità di poter annoverare ancora il Paese (membro dell’Unione) nell’alveo delle democrazie. In particolare, all’interno di quella specifica idea di democrazia fatta propria dall’Unione europea e che ne costituisce finanche la stessa identità la quale, in ossequio al disposto dell’art. 2 TUE, postula la sua inscindibilità dai precetti fondamentali del liberalismo. Da questo punto di vista, sebbene già da qualche tempo l’indice Nation in Transit 2022 di Freedom House abbia collocato l’Ungheria fra i “regimi ibridi”, una sorta di tertium genus a cavallo fra le democrazie e i regimi autoritari, la plastica risposta alla domanda di partenza è giunta in tutta la sua drammaticità direttamente dal Parlamento europeo. Ovverosia da quell’istituzione che a discapito di una solo relativa capacità d’intervento autonoma sul piano dei temi di cui si discute, si è dimostrata tutt’altro che reticente nel far valere le proprie istanze anche nei confronti degli altri organi europei, decisamente più equipaggiati nel contenimento e nel contrasto dei fenomeni di rule of law backsliding: Commissione e Consiglio su tutti. Si pensi, solo per avanzare un esempio tangibile, al ricorso in carenza depositato presso la Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 265 TFUE a fronte della ritenuta iniziale reticenza dei funzionari di Palazzo Berlaymont di procedere con l’attivazione del Regolamento 2020/2092 istitutivo di un regime di condizionalità a tutela del bilancio e degli interessi finanziari dell’Unione.
Ed è proprio in questa cornice che lo scorso 15 settembre, all’interno di una risoluzione volta a sollecitare il Consiglio affinché proceda, in forza dell’art. 7, par. 1, TUE, ad attestare (quantomeno) l’esistenza in Ungheria di un chiaro rischio di grave violazione dei valori fondamentali su cui poggia l’Unione, il Parlamento ha espresso la propria perplessità, rectius contrarietà, circa la possibilità di continuare a considerare quest’ultima parte della famiglia delle democrazie europee. Riprendendo il contenuto essenziale della delibera parlamentare, dopo aver attenzionato l’insieme delle circostanze suscettibili di dimostrare la minaccia sistemica ai valori di cui all’art. 2 TUE, i deputati europei hanno palesato il loro “rammarico per il fatto che la mancanza di un’azione decisa da parte dell’UE abbia contribuito al crollo della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali in Ungheria, trasformando il Paese in regime ibrido di autocrazia elettorale” (p.to 2). Da qui, fra le altre considerazioni, l’invito diretto alla Commissione ad avvalersi pienamente degli strumenti a propria disposizione quali le procedure d’infrazione ma, soprattutto, gli istituti di carattere economico come il Regolamento sulla condizionalità, ritraendosi oltretutto dall’approvare il Recovery Plan dell’Ungheria, per lo meno finché la stessa non abbia effettivamente dato prova di un cambio di rotta sul versante della tutela dello Stato di diritto.
Un’accusa, quella del Parlamento europeo, per certi versi duplice dacché diretta in primo luogo, ovviamente, alle istituzioni magiare ma che, al contempo, postula una sorta di chiamata in correità di quelle europee, ree di non aver operato per tempo e con la dovuta decisione “contribuendo” al consolidamento – come ulteriormente comprovato dai risultati elettorali della tornata del 3 aprile scorso (in proposito si veda qui e qui) – di un regime incompatibile de facto e de iure con i principi che informano i Trattati.
Ancorché insuscettibile di per sé di produrre conseguenze giuridiche immediatamente apprezzabili, l’affermazione del Parlamento ha però il merito di offrire una fotografia delle attuali condizioni in cui versa l’ordinamento ungherese, scindendo la dimensione procedimentale della democrazia dal suo contenuto sostanziale. Il suo dileguarsi non deriva dalla riduzione degli strumenti e dei momenti di espressione del voto, quanto dalla compressione oltremisura delle basi valoriali sulle quali essa dovrebbe poter liberamente svolgersi. Parallelamente e aggiornando le aree di interesse concluse all’interno del Rapporto Sargentini sulla base del quale la Plenaria di Strasburgo il 12 settembre 2018 aveva proceduto all’attivazione dell’art. 7 TUE contro l’Ungheria, la risoluzione del 15 settembre sofferma la propria attenzione su una lunga lista di ambiti della vita pubblica ungherese ormai inglobati all’interno dell’orbita governativa e progressivamente svuotati del proprio significato sino ad essere ridotti ad una mera rappresentazione nominalistica. All’interno di questo lungo elenco si annoverano il funzionamento dell’ordinamento costituzionale, il sistema elettorale, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse, nonché la salvaguardia delle principali libertà come quella di associazione, religione, accademica e di espressione – compressa dalla concentrazione del controllo media – sino alla privacy e alla protezione dei diritti delle minoranze.
In altri termini, anche laddove siano individuabili percettibili vulnera relativamente allo svolgimento del momento elettorale, in specie sul piano costitutivo di un effettivo level playing field fra gli opposti contendenti (sull’argomento si veda qui e qui), come ogni sistema illiberale che al contempo necessiti il mantenimento del sostantivo democratico, anche l’Ungheria non può fare a meno – ed anzi paradossalmente si nutre dello stesso più dei modelli liberali residuando quale ultimo canale di legittimazione – dell’espressione del voto popolare. Non è, dunque, solamente su questo piano che occorre lavorare per ristabilire la democrazia. Per riprendere le parole di Tímea Drinóczi, ciò di cui avrebbe effettivamente bisogno l’Ungheria è un processo resiliente che attraverso il mutamento del quadro politico consenta nel lungo periodo il ritorno ai valori del costituzionalismo. Nondimeno, il recente responso delle urne rimanda obtorto collo ogni possibilità di un ripristino in ottica liberale, almeno nel breve termine.
Fatte tali premesse e tornando alla risoluzione del 15 settembre, se da quest’ultima è derivabile una conseguenza pratica, essa si sostanzia in un chiaro monito i cui destinatari sembrano essere proprio le istituzioni di Bruxelles. Diviene evidente il bisogno di procedere con maggior decisione stante il venir meno di qualsiasi altro vincolo endogeno in grado di calmierare il processo disgregativo della democrazia ungherese. Inevitabile, pertanto, il richiamo al meccanismo di condizionalità considerata la sua primaria attivazione contro l’Ungheria (sia concesso un rinvio qui) ed in specie dopo che nella giornata del 18 settembre, pochi giorni dopo la presa di posizione del Parlamento europeo, la Commissione ha formulato la propria proposta di decisione esecutiva diretta al Consiglio. Una richiesta volta inter alia a stabilire la sospensione del 65% degli impegni finanziari relativi al periodo 2021-2027 e riferiti al programma operativo per l’ambiente e l’efficienza energetica, a quello per il traposto e a quello per lo sviluppo del territorio e degli insediamenti, a cui si aggiunge il divieto di assunzione di nuovi impegni con qualsiasi trust di interesse pubblico e partecipato nell’ambito dei programmi dell’Unione in regime di gestione diretta e indiretta. Ciò a condizione che, medio tempore, l’Ungheria non abbia dimostrato di tenere fede alle proposte di modifica sottoposte alla Commissione e volte ad arginare stabilmente i deficit accumulati nei settori degli appalti pubblici, del quadro anticorruzione e nel funzionamento della Procura generale. Si tratta, ovviamente, di uno spettro d’azione limitato in conformità alle finalità dello strumento ed inidoneo ad essere considerato alla stregua di una panacea in grado di riportare ipso facto le lancette indietro di oltre un decennio. Ciononostante, l’occasione si presta a divenire un importantissimo banco di prova sul quale testare la volontà delle istituzioni interessate (Commissione e Consiglio) di tenere fede ai propri doveri di protezione dei valori fondativi l’Unione, evitando di privare di significato un ulteriore istituto all’uopo realizzato, dopo aver sostanzialmente disinnescato l’opzione nucleare prevista dall’art. 7 TUE. In specie, allorché si consideri, come da più parti è stato evidenziato (si veda qui e qui), che le riforme, in parte proposte ed in parte già implementate dall’Ungheria, ad uno sguardo più attento si rivelano per lo più un mera operazione di “sham and smokescreen”. Diversamente argomentando, sarebbe auspicabile evitare di ripetere il medesimo errore di metodo – escludendo cioè le ragioni di ordine geopolitico dovute alla deflagrazione del conflitto in Ucraina che possono aver contribuito ad un mutato atteggiamento nei riguardi di Varsavia – commesso con l’approvazione del Recovery Plan polacco, laddove il subordinato raggiungimento di determinate milestones (nello specifico qui) sul piano degli interventi di modifica del sistema giudiziario, in fin dei conti, si è rivelato del tutto inidoneo a traguardare gli obiettivi di partenza, dappiù esponendo la decisione del Consiglio all’impugnazione per annullamento ex art. 263 TFUE da parte delle principali associazioni giudiziarie europee.
In conclusione, considerata l’attuale situazione di contrazione economica che sta colpendo l’Ungheria e la fondamentale rilevanza dei trasferimenti europei per far fronte alle sue politiche interne, pur nella consapevolezza che ciò rappresenti solo un primo passo affatto risolutivo, la sospensione dei fondi (a cui si aggiunge la mancata approvazione del PNR ungherese) può effettivamente rappresentare una misura d’impatto atta a inviare un chiaro segnale al governo di Budapest. Un messaggio che al suo interno riveli una doppia funzione: in primis, attribuire una reale efficacia alla risoluzione del Parlamento europeo del 15 settembre, evitando che il suo significato si affievolisca sull’orizzonte degli equilibri intergovernativi sino a disperdersi del tutto. In secondo luogo, generare pressione sulle forze politiche di maggioranza, dando fiato all’opposizione perché possa effettivamente contribuire a far sì che nel medio-lungo periodo l’idea di un cambio di indirizzo politico non si attesti più come una mera utopia. In fin dei conti, prima di qualunque intervento sovranazionale, la reintegrazione del costituzionalismo ungherese non può che passare per un concreto esercizio di democrazia, sfruttando quel che di essa ancora sopravvive dal punto di vista procedurale e che rappresenta l’anello debole della catena che sostiene i sistemi illiberali.


La strada impervia del giudizio incidentale. Nota all’ordinanza di rimessione nel “processo Cappato”

Alla fine la parola alla Corte, quella Costituzionale, chiamata a decidere sulla legittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui qualifica, sotto la medesima cornice edittale, le condotte di aiuto al suicidio indipendentemente dalla loro effettiva contribuzione nella determinazione, o nel rafforzamento, dell’altrui volontà. La vicenda trae origine dall’iniziativa di Marco Cappato, auto-denunciatosi dopo averne accolto la richiesta e accompagnato Fabio Antoniani, un giovane che a seguito di un grave incidente era rimasto tetraplegico, costretto ad alimentarsi e a respirare artificialmente ma non per questo immune a costanti ed insopportabili dolori, presso la clinica svizzera Dignitas, perché potesse porre fine alla sua vita. Già i pubblici ministeri milanesi, al termine delle indagini preliminari, dopo aver chiesto l’archiviazione per Cappato in virtù di un’interpretazione restrittiva della fattispecie di “agevolazione” al suicidio, a sua volta qualificata come “concorso tipizzato” in un fatto che non costituisce reato, in subordine, avevano ritenuto sussistenti le condizioni per sollevare la questione di legittimità al giudice delle leggi. Va infatti ricordato che l’atto finale – come richiesto dalla normativa elvetica – era stato compiuto dallo stesso Antoniani, che aveva attivato lo stantuffo della siringa contenente il farmaco preposto allo scopo premendo con i denti un apposito dispositivo.
Al contrario, il Giudice delle indagini preliminari, facendo proprio l’approccio ermeneutico estensivo della Corte di Cassazione (Sez. I, n. 3147/1988), che vuole riconducibile all’art. 580 c.p. ogni condotta che materialmente si ponga come funzionale ad aiutare (anche) chi si sia autodeterminato nella decisione di togliersi la vita, prescindendo da una preventiva, ancorché inequivocabile, manifestazione di volontà, aveva ordinato l’imputazione coatta. La Corte di Assise, a sua volta, considerando che una simile lettura non fosse più collocabile all’interno dei parametri costituzionali e convenzionali, che fanno del concetto di autodeterminazione la chiave di volta nella definizione delle questioni attinenti la vita del singolo, quantunque concernenti la fase finale della stessa, ha così rimesso la questione di legittimità costituzione alla Corte. Secondo i giudici, nella cornice valoriale della Costituzione, che in virtù del principio personalistico iscrive l’autonomia individuale al centro delle scelte di vita e di fine-vita, non troverebbe più cittadinanza una normativa di epoca statutaria – rectius, fascista – la cui ratio risponde agli antitetici valori di un paternalismo statuale figlio di una visione illiberale in cui il bene vita era funzionale ad interessi eteronomi della collettività. Lo stesso piano sovranazionale, caratterizzato da una progressiva giurisprudenza della Corte europea dei dritti dell’uomo che nel corso del tempo, a partire dalla sentenza Pretty v. Regno Unito, ha allargato le maglie dei limiti all’indisponibilità della vita umana in presenza di condizioni di insostenibile sofferenza del malato, sosterebbe un approccio tendenzialmente più permissivo.
Tuttavia, ciò che merita di essere qui affrontato, non riguarda tanto la necessità di un intervento legislativo che, alla presenza di determinate (disperate) condizioni di salute del malato, temperi la rigida imposizione della norma penale consentendo la libera autodeterminazione di chi sia nell’impossibilità di dare forma concreta alla propria volontà, quanto la riflessione circa l’opportunità che un di un simile compito sia investita la Corte costituzionale, chiamata a farsi portatrice di una emergente e sempre più palpabile “coscienza collettiva” che fatica a celarsi dietro un’impassibile indifferenza a fronte di determinate vicende.
Anche dinanzi all’anacronismo dell’art. 580 c.p. rimane complessa la formulazione della questione di costituzionalità da sottoporre alla Corte e la corretta individuazione dei parametri costituzionali da invocare nel giudizio di legittimità poiché nel caso di specie non si tratta di un mero rifiuto alle cure, di per sé tutelato dal secondo comma dell’art. 32 Cost. La questione attuale si pone su un piano diverso, in cui l’effettiva garanzia dell’autodeterminazione, pur concepita alla stregua di un diritto fondamentale, passa necessariamente per un eteroattuazione positiva da parte di un soggetto terzo. Ancorché una simile limitazione rischi di generare una “discriminazione alla rovescia” (R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 323 e ss.), lasciando privi di tutela proprio coloro i quali ne necessitano con maggior grado di insistenza, diversamente dal Parlamento, la Corte, nel definire il proprio giudizio, è necessariamente vincolata dalla corrispondenza agli invocati parametri costituzionali. Nondimeno permane l’obiettiva difficoltà di rintracciare all’interno della Carta costituzionale, sempre che ciò sia effettivamente possibile, la fonte di legittimazione inequivocabile di un tale raffronto che giustifichi la legittimità dell’aiuto al suicidio e la conseguente caducazione dell’art. 580 c.p.
Gli stessi richiami dei giudici milanesi alle sentenze della Corte EDU rischiano di non essere sufficienti allo scopo. La rassegna della giurisprudenza sovranazionale è caratterizzata da una serie di pronunce (Haas v. Svizzera del 2011, Koch v. Germania del 2012 e Gross v. Svizzera del 2013) che, per lo più, si limitano ad un accertamento potenziale del diritto a morire, lasciando impregiudicate le concrete istanze di tutela, per la mancanza di uniformità all’interno dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, a causa dell’insussistenza di una impostazione convenzionalmente obbligatoria sul trattamento del fine vita.
Anche immergendoci nell’ambito delle tecniche (e dei limiti) del giudizio della Corte costituzionale, la formulazione dell’ordinanza della Corte di Assise desta dubbi circa l’effettiva capacità di raggiungere lo scopo prefissato. Una cosa è far discendere dalle disposizioni costituzionali la legittimità di un intervento legislativo che escluda la punibilità di chi agevoli il suicidio in presenza di circostanze fattuali che impediscano, a chi ritiene le proprie condizioni di vita non più dignitose, di porre fine alla propria vita. Altro, invece, è derivare dalle fonti superprimarie un imperativo di ordine costituzionale che imponga la dichiarazione di illegittimità dell’art. 580 c.p., ove sanziona tale condotta, seppur mossa da evidenti ragioni umanitarie. La via astrattamente più corretta, seppur non priva di insidie, sarebbe consistita nella proposizione di una “chirurgica” richiesta additiva alla Corte che avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non prevede la non punibilità di chi agevola il suicidio alla presenza di una precisa situazione di fatto data dal sommarsi di elementi quali l’assoluta sofferenza del malato, la sua impossibilità di procedere ex se nonostante percepisca la sua esistenza come non più dignitosa, lo stato di una certificazione medica che attesti l’irreversibilità della sua patologia, etc. Anche in questo caso, purtuttavia, la questione di legittimità avrebbe rischiato di impattare contro la giurisprudenza della Corte sulle cd. “rime obbligate” che presuppone l’impossibilità di superare per via d’interpretazione la norma affetta da incostituzionalità in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, per l’elevato tasso di manipolatività della soluzione evocata, così per l’ampia discrezionalità concessa al legislatore in un dato ambito (C. Cost., ord. n. 254/2016).
Diversamente da questa opzione, prospettata dai pubblici ministeri come domanda subordinata alla richiesta di archiviazione, la Corte di Assise ha imboccato una via sensibilmente differente, più tranciante, richiedendo l’accertamento dell’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. a) nella parte in cui incrimina (alternativamente) le condotte di aiuto ed istigazione al suicidio, indipendentemente dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, per contrasto con gli artt. 3, 13, comma, 1 e 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione; così b) nella parte in cui sanziona con la stessa pena le azioni di chi istiga al suicidio e chi, senza intervenire sugli aspetti del condizionamento volitivo, ne agevola l’atto pratico, per contrasto con gli artt. 3, 13, 25, 27, comma 2 e 27, comma, 3 Cost. Riguardo al primo punto, nonostante i molti richiami presenti nelle motivazioni dell’ordinanza, è significativo il mancato sollevamento della questione in relazione all’art. 32, comma 2, Cost. È come se i giudici avessero optato per la formulazione di un petitum genericamente improntato all’esaltazione dell’autodeterminazione indipendentemente dalla sua connessione con la precipua condizione medica di chi abbia individualmente deciso di suicidarsi. Non vi è riferimento all’impossibilità pratica del gesto, né alle motivazioni di natura umanitaria che dovrebbero spingere un soggetto terzo ad agevolare la realizzazione dell’intento suicidiario, ma solo all’ingiustificata parificazione di condotte diverse sul piano della determinazione altrui. La richiesta tout court di ablazione della norma nella parte in cui sanziona l’agevolazione al suicidio, in assenza di limiti e ragioni concrete idonee a giustificarne l’accoglimento sul lato delle condizioni di salute divenute insostenibili per il malato può difficilmente dirsi figlia di un imperativo di ordine costituzionale. Ben può farsi rientrare tra le funzioni dello Stato quella di tutelare chi, posto per diverse motivazioni in una condizione di difficolta anche solo economica, ritenga la propria esistenza non più degna e chieda l’assistenza di un terzo per porvi fine. Difficilmente una siffatta visione potrebbe giustificare l’annullamento parziale dell’art. 580 c.p. che, anzi, in questo caso, agirebbe proprio a salvaguardia del soggetto debole.
Anche la richiesta di rimodulare le pene in funzione del differente apporto del terzo nel percorso deliberativo dell’aspirante suicida contrasta con la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, il cui sindacato, tanto sotto il profilo della ragionevolezza che della proporzionalità – anche rispetto alla funzione rieducativa cui mira la pena – è fortemente circoscritto dall’ampia discrezionalità che in questo ambito deve essere concessa al Parlamento. Il sindacato del giudice delle leggi “può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio” (C. Cost., sent. n. 23/2016). Non è fatto divieto al legislatore, invece, includere in una medesima fattispecie condotte differenti, lasciando poi al giudice modulare la pena entro la cornice edittale. La rideterminazione in via pretoria della pena sarebbe concessa solo ove fosse possibile rinvenire nell’ordinamento un parametro che, nuovamente, consentisse l’individuazione di una soluzione costituzionalmente obbligata, ovvero, l’indicazione di un tertium comparationis che facoltizzi l’attività emendativa – non sostitutiva – della Corte “in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento” (C. Cost., sent. n. 148/2016). L’ordinanza, tuttavia, anche sotto tale profilo è carente non offrendo la prova di una simile ricostruzione da parte del giudice remittente, sempre che sia possibile individuarla nell’attuale assetto normativo.
Non v’è dubbio che la strada del giudizio incidentale si presenti particolarmente tortuosa nella fattispecie, in cui risulta complessa la definizione di una soluzione vincolata sul piano costituzionale, sottratta alla discrezionalità dell’organo legislativo, che consenta la dichiarazione d’illegittimità dell’art. 580 c.p. Sebbene risulti sempre più impellente una sua modifica che, dalla rinnovata centralità del principio personalista e dal canone dell’autodeterminazione, tragga spunto per evitare che situazioni come quella di Fabiano Antoniani possano ripetersi in futuro, il trasferimento della questione alla Corte non sembra in grado di condurre a soluzioni soddisfacenti. Nondimeno, neppure la via giudiziaria, attraverso una lettura restrittiva dei comportamenti suscettibili d’integrare il reato di agevolazione al suicidio, pare concludente poiché rimetterebbe alla discrezionalità del singolo Tribunale la scelta in merito al trattamento sanzionatorio di chi ha prestato la propria opera per fini solidaristici e, così facendo, scoraggerebbe il compimento di tali pratiche pregiudicando, altresì, la stessa certezza del diritto. Non rimane, dunque, che l’opzione legislativa, non la più semplice in termini di consenso attorno ad una proposta che renda lecita, a determinate condizioni, l’assistenza al suicidio, ma sicuramente la più congrua e corrispondente ad una corretta ripartizione delle funzioni tra gli organi di cui si compone l’ordinamento.


Riflettere sulle radici per rivitalizzare i rami: il costituzionalismo di fronte a se stesso

Nell’attuale momento storico la democrazia costituzionale non sembra vivere la sua stagione più esaltante. Le istituzioni nazionali appaiono tormentate da una crisi di rappresentatività, i partiti politici faticano a interpretare i bisogni delle popolazioni e a proporre soluzioni concretamente praticabili ed efficaci, l’Unione Europea viene sempre più avvertita come un’entità burocratica e distante dai problemi reali della vita dei singoli cittadini del Continente, negli Stati Uniti trionfa alle Presidenziali un magnate che si propone come un outsider del sistema politico ed economico e, come tale, viene creduto e premiato. Insomma, Europa e Stati Uniti sono attraversate da un vento populista e antiestablishment che segnala la rottura, potenziale o forse già conclamata, del rapporto di fiducia tra ampi strati di popolazione e classi politiche tradizionali, percepite come autoreferenziali, e organismi istituzionali, considerati inadeguati se non controproducenti.

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