Una disposizione costituzionalmente necessaria ma un bilanciamento non costituzionalmente vincolato? Prime note alla sentenza n. 50 del 2022 della Corte costituzionale

Una inammissibilità prevedibile, prevista (ex plurimis, G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), La via referendaria al fine vita. Ammissibilità e normativa di risulta del quesito sull’art. 579 c.p. Atti del Seminario Ferrara, 26 novembre 2021), ma non scontata ha sbarrato la via alla proposta di abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale, la quale – se sorretta da un esito positivo nella consultazione referendaria – avrebbe ridotto le ipotesi di punibilità dell’omicidio del consenziente ai soli casi previsti dal terzo comma (persona minore di diciotto anni; persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno).
Tra tutte le vie astrattamente praticabili, nella sentenza n. 50 del 2022 la Corte costituzionale ha deciso di percorrere quella di qualificare la disposizione oggetto del referendum come “costituzionalmente necessaria”, declinando concretamente tale caleidoscopica categoria nel tipo di disposizioni che assicurano ai diritti coinvolti un livello minimo di tutela legislativa. Si tratta di una decisione densa dal punto di vista argomentativo e assiologico, che cerca di inserirsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza costituzionale, in materia tanto di ammissibilità referendaria (non a caso la Corte ripercorre le principali tappe evolutive delle categorie delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato e di quelle costituzionalmente necessarie), quanto di tutela del diritto alla vita (sono ricorrenti i riferimenti in tal senso alle argomentazioni proposte in materia di assistenza al suicidio nell’ordinanza n. 207 del 2018 e nella sentenza n. 242 del 2019).
La linea argomentativa si sviluppa lungo due direttrici, che finiscono con il convergere nel dispositivo di inammissibilità. Da un lato, infatti, la Corte si concentra sulla natura manipolativa del quesito, rispetto alla quale compie una valutazione “predittiva” dell’impatto della domanda abrogativa – da valutare «nella sua portata oggettiva e nei suoi effetti diretti» – sul bene giuridico tutelato dalla disposizione, che la Corte individua nella vita umana. Dall’altro lato, la Corte qualifica come costituzionalmente necessaria la disposizione oggetto del quesito, concludendo che l’eventuale eliminazione – seppur parziale – della medesima causerebbe il venir meno «(…) di una tutela minima per situazioni che tale tutela esigono secondo la Costituzione, con specifico riferimento al diritto alla vita» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022).
La natura – costituzionalmente necessaria – della disposizione si salda quindi con il rilievo costituzionale del bene oggetto di tutela – la vita umana – che l’art. 579 cod. pen. accredita «del connotato dell’indisponibilità da parte del suo titolare» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). La Corte non esclude, in via assoluta, che il principio dell’indisponibilità della vita umana possa essere bilanciato con la libertà di autodeterminazione della persona; tuttavia, nello specifico contesto e relativamente alla concreta ratio della disposizione in oggetto, ritiene che lo spazio per l’autodeterminazione personale sia stato limitato dal legislatore del 1930 alla sola «mitigazione della risposta sanzionatoria (…) in ragione del consenso prestato dalla vittima» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). Non si tratta, secondo la Corte, di un bilanciamento ineludibile, tanto che significativamente si premura di chiarire che la disposizione non può essere qualificata come legge a contenuto costituzionalmente vincolato. Allo stesso tempo, in linea con la propria giurisprudenza in materia di leggi costituzionalmente necessarie, tale bilanciamento non può subire una pura e semplice abrogazione per via referendaria, in quanto «non verrebbe in tal modo preservato il livello minimo di tutela richiesto dai referenti costituzionali ai quali esse si saldano» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). Unicamente il legislatore, o la stessa Corte costituzionale in sede di controllo di costituzionalità, potrebbero modificare o sostituire l’assetto fissato nella disposizione.
In tal senso, la Corte costituzionale, dopo aver proposto una lettura della ratio della disposizione alla luce del mutato quadro costituzionale («proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate»), ritiene che il ritaglio proposto dal quesito avrebbe l’effetto di ribaltare il verso del bilanciamento esistente. Esso sancirebbe, «all’inverso di quanto attualmente avviene, la piena disponibilità della vita da parte di chiunque sia in grado di prestare un valido consenso alla propria morte, senza alcun riferimento limitativo». L’effetto oggettivamente provocato sarebbe quello della «“liberalizzazione” della condotta senza alcun riferimento limitativo». Di conseguenza, l’impostazione assiologica e il “verso” del bilanciamento concretizzati nell’art. 579 c.p. subirebbero una eccessiva riconfigurazione (ex plurimis, su tale aspetto i contributi di Romboli e Morrone negli atti Amicus curiae citato in apertura). L’innovazione normativa eventualmente prodottasi finirebbe pertanto per uscire dal «solco delle scelte legislative già compiute dal legislatore» (P. Carnevale, Sul voto il popolo non vota. Brevi considerazioni sulla sentenza n. 10 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos, 1, 2020, 5).
Tale effetto non risulterebbe secondo la Corte sanabile per via interpretativa, come proposto dai promotori e anche in dottrina (U. Adamo, Intorno al giudizio sull’ammissibilità del referendum per l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente), in Osservatorio AIC, 1, 2022, 248-249, ha evocato la sentenza «interpretativa di ammissibilità»), ridefinendo la normativa di risulta «alla luce del quadro ordinamentale nel quale si inserisce» (in particolare a quanto previsto in tema di forme del consenso informato dalla legge n 219 del 2017) ed applicandovi, al fine di escludere l’applicabilità del reato, le condizioni e la procedura medicalizzata individuate dalla Corte costituzionale in riferimento all’art. 580 c.p. (sentenza n. 242 del 2019). L’ambito applicativo della disposizione in oggetto non comprende infatti le sole ipotesi di omicidio di persona consenziente che si trovi nelle condizioni individuate dalla sentenza n. 242 del 2019 (patologia irreversibile; sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; presenza di trattamenti di sostegno vitale; persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli). Pertanto, non sarebbe possibile ridurne la portata alla sola «causazione, con il suo consenso, della morte di una persona affetta da malattie gravi e irreversibili» (Corte cost., sent. 50 del 2022): la riperimetrazione per via interpretativa del contenuto normativo (e assiologico) prodotto “a valle” del referendum va quindi esclusa.
La Corte sembra compiere un giudizio sulla ragionevolezza degli effetti del quesito referendario, rischiando in tal modo di esondare nel controllo preventivo di costituzionalità dell’eventuale normativa di risulta, ma finendo con il ricondurlo entro l’alveo “tradizionale” dell’esigenza di garantire una tutela minima costituzionalmente necessaria al bene giuridico protetto. Il ritaglio proposto, secondo la Corte, finirebbe per privare di «ogni tutela» quelle situazioni di vulnerabilità e debolezza non sussumibili ai casi previsti dal terzo comma dell’art. 579 c.p., oltre che – più in generale – tutte le ipotesi che vadano oltre la categoria dei soggetti vulnerabili, rispetto alle quali sussiste comunque una «esigenza di tutela della vita umana contro la collaborazione da parte di terzi a scelte autodistruttive del titolare del diritto, che possono risultare, comunque sia, non adeguatamente ponderate». Con l’effetto «oggettivo» di produrre, in tale specifico ambito, «un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale» (Corte cost., sent. n. 50 del 2022). La natura parziale dell’eventuale abrogazione non garantirebbe, secondo la Corte, una adeguata «cintura protettiva», riuscendo a coprire solo i «casi in cui il consenso è viziato in modo conclamato per le modalità con le quali è ottenuto, oppure intrinsecamente invalido per la menomata capacità di chi lo presta» (Ib).
Natura costituzionalmente necessaria della disposizione ed effetti eccessivamente manipolativi del quesito si integrano, quindi, nell’esigenza di assicurare una tutela minima per tutte quelle situazioni non sussumibili ai casi tipizzati dal terzo comma. Tutela minima che, pare ritenere la Corte nel momento in cui ne esclude la natura di disposizione a contenuto costituzionalmente vincolato, potrebbe risultare anche da un bilanciamento diverso, il quale riconosca eventualmente – ma qui è il commentatore a “speculare” – un più ampio spazio di espressione alla libertà di autodeterminazione personale. Tenuto conto della natura ondivaga della giurisprudenza in materia di leggi costituzionalmente necessarie, la Corte ha deciso di chiudere alla via referendaria sulla base dell’esigenza costituzionalmente imposta che vengano comunque assicurate, non solo nei casi di persone fragili o vulnerabili, adeguate garanzie, che – da solo – lo strumento referendario non è in grado di prevedere, anche alla luce della natura inviolabile del diritto alla vita, che la Corte – in linea con i precedenti in materia (ord. 207 del 2018 e sent. n. 242 del 2019) qualifica come «matrice di ogni altro diritto (…)».
Tuttavia, andando oltre allo specifico ambito dell’ammissibilità del referendum, dalle argomentazioni della Corte una eventuale riconfigurazione dei termini del bilanciamento tra tutela (indisponibilità) del diritto alla vita e libertà di autodeterminazione non sembrerebbe costituzionalmente preclusa, ma dovrebbe necessariamente passare attraverso il canale parlamentare. In tal senso, non appare possibile estendere la portata del riconoscimento della natura indisponibile della vita e del «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo», richiamati nella sentenza che qui si commenta, oltre il giudizio sull’ammissibilità del quesito. In tale specifico ambito, infatti, tali affermazioni risultano funzionali alla verifica della sussistenza, all’esito dell’eventuale referendum, di una tutela minima in tutte le ipotesi teoricamente coperte dalla disposizione, oltre che a definire la ratio e l’ambito di quest’ultima come non necessariamente coincidenti con casi di consenso validamente prestato da parte di persone che versino in condizioni di malattia grave e irreversibile. Alla luce del più ampio contesto nel quale la stessa Corte costituzionale ha deciso di situare la dichiarazione di inammissibilità, è opportuno notare che analoga struttura argomentativa, relativa alla centralità costituzionale del diritto alla vita, non ha impedito alla Corte – in sede di controllo di costituzionalità – di riconoscere inediti spazi di espressione alla autodeterminazione individuale (sent. n. 242 del 2019). Dalla decisione in commento sembrano emergere in tal senso alcune aperture alla sostenibilità costituzionale di assetti normativi – bilanciamenti – diversi da quello fissato dall’art. 579 c.p., soprattutto se l’ambito di riferimento coincida con decisioni validamente assunte nell’ambito del fine vita, a condizione che risultino adeguatamente sorrette e veicolate all’interno di una procedura medicalizzata. Ci si riferisce, ad esempio, alla necessità che la libertà di autodeterminazione non possa mai prevalere «incondizionatamente» sulle ragioni di tutela del bene della vita umana, o al fatto che l’esito positivo del referendum avrebbe sancito la piena disponibilità della vita «senza alcun riferimento limitativo».
Sforzandosi di non evocare l’immagine di Godot, secondo la Corte spetta quindi unicamente al legislatore la responsabilità di intervenire in tale ambito, peraltro in linea con alcune decisioni relative a questioni etichettate come “eticamente sensibili” (ex plurimis, sent. n. 84 del 2016 e n. 221 del 2019). Se ciò non dovesse avvenire, è ipotizzabile che venga attivata la via del giudizio di legittimità costituzionale. Ancora una volta, in questo caso, sarebbe probabilmente «un corpo prigioniero di uno stato di malattia con particolari caratteristiche» – utilizzando la densa immagine evocata nella sentenza n. 50 del 2022 – a fungere da elemento costituzionalmente necessario al fine di ricalibrare il bilanciamento tra valore dell’indisponibilità della vita, da un lato, e diritto all’autodeterminazione personale, dall’altro lato.


Sovranità nazionali e rule of law europea: il bilanciamento sta nelle procedure? Riflessioni a margine della sentenza Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca

Il senso della sentenza sulle cause riunite C-715/17, C-718/17 e C-719/17, Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (EU:C:2019:761; analizzata qui su questo sito) sta tutto nel principio richiamato dalla Corte di giustizia per bilanciare primato del diritto dell’Unione e responsabilità degli Stati membri alla tutela dell’ordine pubblico e sicurezza nazionale: dal riconoscimento compiuto dai Trattati della seconda (art. 72 TFUE) non è possibile ricavare una riserva generale che escluda dall’ambito di applicazione del primo qualsiasi provvedimento adottato per motivi di ordine pubblico o sicurezza, dal momento che ammettere l’esistenza di una riserva del genere, prescindendo dai presupposti specifici stabiliti dal trattato, rischierebbe di compromettere la forza cogente e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione (§ 143).
Si tratta di un principio consolidato nella giurisprudenza europea, ma il fatto che abbia trovato applicazione anche nell’ambito della politica comune europea di asilo, e più precisamente di quelle iniziative normative assunte dalle istituzioni europee finalizzate a una più equa ripartizione delle responsabilità in attuazione del principio di solidarietà (art. 78 TFUE), come nel caso della relocation delle persone richiedenti protezione internazionale, risulta particolarmente significativo. Alla luce di tale principio, pertanto, anche nell’ambito – il controllo dell’ingresso sul territorio statale di cittadini di Stati terzi – nel quale le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e sicurezza nazionali godono della massima copertura costituzionale a livello statale e di formale riconoscimento a livello europeo, eventuali conflitti vanno risolti secondo gli schemi tipici del bilanciamento e non della alternatività tra obiettivi solidaristici (tra Stati) e rivendicazioni sovran(ist)e. Quindi, eventuali necessità di tutela degli interessi statali non possono essere perseguite attraverso la neutralizzazione degli obblighi derivanti dal diritto europeo, attivando la clausola ex art. 72 TFUE come “charte blanche” nelle mani degli Stati membri, ma devono trovare espressione all’interno – e non fuori dal medesimo – del perimetro normativo tracciato dal diritto dell’Unione, una volta chiaritone la natura legittima e vincolante (§ 70). La delimitazione di tale perimetro risulta indisponibile e invalicabile dalle singole sovranità statali, le quali possono legittimamente trovare espressione solo al suo interno, eventualmente godendo – come nel caso di specie – di un’ampia discrezionalità politica.
Coerentemente con tale impianto argomentativo, la Corte non accoglie la tesi degli Stati resistenti, secondo cui le prerogative statali in materia di ordine pubblico e sicurezza nazionale sarebbero destinate a prevalere in modo automatico e assoluto sugli obblighi europei in forza della mera plausibilità potenziale del rischio (§ 137). La Corte non nega il merito delle esigenze statali ma ne propone una lettura conforme ad altri interessi coperti dai Trattati (primato europeo; solidarietà) e ne specifica modalità (§ 143-144) e limiti di esercizio (§ 146-147). La Corte riconosce agli Stati un’ampia discrezionalità, l’esercizio della quale risulta però proceduralmente condizionato alla verifica concreta della sussistenza di elementi concordanti, oggettivi e precisi che consentano di sospettare che il singolo richiedente rappresenti un pericolo attuale o potenziale, da valutare caso per caso, e non per giustificare tout court una sospensione degli obblighi europei (§159-160). Gli Stati resistenti avrebbero pertanto potuto – e dovuto – utilizzare i meccanismi di deroga alla relocation previsti dalla normativa di riferimento (art. 5, par. 4, decisioni 2015/1061 e 2015/1523) e non al di fuori di questi. Allargando la prospettiva dell’analisi oltre il caso di specie, è possibile qualificare la possibilità per gli Stati di attivare le deroghe al meccanismo di solidarietà ed equa ripartizione degli obblighi relativi alla protezione internazionale previsto dalle decisioni come uno strumento di riconoscimento e metabolizzazione nel diritto dell’Unione delle prerogative sovrane degli Stati membri. L’esercizio di queste ultime può giustificare la sospensione degli obblighi di solidarietà, ma ciò può avvenire legittimamente solo nel caso in cui gli Stati dimostrino di avere svolto una valutazione caso per caso della effettiva sussistenza di un rischio almeno potenziale per il proprio ordine pubblico o sicurezza nazionale.
La Corte, quindi, ha scelto una via procedurale per ricondurre nell’alveo della legittimità europea il tentativo degli Stati resistenti di evadere dagli obblighi previsti dal diritto europeo attraverso un’attuazione sovranista della propria sovranità, che non può essere ritenuta sostenibile all’interno del quadro dei valori fondanti l’Unione. L’utilizzo muscolare della sovranità statale, che evoca lo strumento delle leggi “bandiera” o “manifesto” adottate a livello nazionale con l’esclusiva finalità di veicolare un messaggio politico pur nella consapevolezza della dubbia legittimità costituzionale dei loro contenuti, sembra fondarsi su una concezione pre-costituzionale della sovranità statale, che non accoglie l’idea che uno stato costituzionale di diritto sia chiamato ad esercitarla in dialogo costante con la comunità internazionale in quanto l’esercizio della sovranità incontra dei limiti tanto nella Costituzione quanto, attraverso i rinvii svolti da quest’ultima, negli obblighi sovranazionali. Tale dinamica emerge in modo ancora più evidente dalle Conclusioni dell’Avvocato Generale Sharpston nel punto in cui afferma che il mancato rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione dovuto al fatto che questi siano ritenuti «sgraditi o impopolari» costituisce «un pericoloso primo passo verso l’annichilimento della società ordinata e strutturata governata dallo Stato di diritto della cui comodità e sicurezza beneficiamo in qualità di cittadini» (§ 241).
Come sottolineato in riferimento alle Conclusioni appena citate, il percorso argomentativo tracciato dalla Corte conferma che il caso relocation esprime un rilievo ordinamentale, che va oltre i concreti casi di inadempimento e che interessa direttamente il rispetto della rule of law e del principio di solidarietà nella gestione dei fenomeni migratori e del sistema comune di asilo (§ 105, Conclusioni Avv. Gen.). Non pare azzardato parlare di decisione prospettica, attraverso la quale la Corte di Giustizia potrebbe aver voluto definire le regole “del gioco” (o “di ingaggio”, a seconda che si propenda per una lettura fisiologica o patologica del fenomeno) da utilizzare al fine di risolvere conflitti che potranno sorgere in riferimento alla legittimità o all’attuazione di future misure europee finalizzate a dare attuazione al principio di solidarietà tra Stati nell’ambito delle politiche migratorie. In particolare, tali regole si inseriscono nel confronto tra spinte europeiste e reazioni stataliste nel contesto delle politiche migratorie, nel tentativo di assicurare un bilanciamento sostenibile – tanto dal punto di vista giuridico quanto da quello politico – tra livello statale ed europeo. Ciò sembra indirettamente confermato dal fatto che, come proposto dall’Avv. Gen. Sharpston, la Corte ha dichiarato la rilevanza della questione anche se risultava esaurito il periodo di applicazione delle decisioni e quindi non più esigibile l’adempimento degli obblighi da esse derivanti, richiamando espressamente l’esigenza di garantire il rispetto dei valori sui quali è fondata l’Unione ex art. 2 TUE e in particolare della rule of law (in particolare § 65 ss.).
Quasi a voler depotenziare la potenziale carica di politicità contenuta nella decisione, la Corte di giustizia decide di non pronunciarsi sulla legittimità della sostanza dei motivi evocati dagli Stati per giustificare la mancata attuazione degli obblighi europei, ma si limita a verificare la compatibilità con il diritto europeo del processo decisionale utilizzato per farli valere. Significativamente, la Corte non evoca il motivo richiamato da Polonia e Ungheria relativo alla esigenza di salvaguardare la coesione sociale e culturale della propria società e quindi delle rispettive identità costituzionali ex art. 4 TUE, che sarebbero state messe automaticamente a repentaglio dall’ingresso sul proprio territorio nazionale di quote di persone richiedenti protezione internazionale. La Corte, al contrario, sceglie di limitarsi a esaminare la legittimità procedurale delle azioni statali, ottenendo in tal modo di rendere politicamente neutra la propria argomentazione ma ribadendo allo stesso tempo l’esistenza di un nucleo di valori fondativi europei che devono comunque essere rispettati dagli Stati membri, anche quando questi ultimi invochino legittimi interessi associati alla propria identità costituzionale. Ciò che è stato qualificato in modo critico come «judicial strategy that casts questions of high politics, in casu the fundamental opposition of the defendant Member States’ governments against mandatory refugee relocation, in the guise of administrative deliberation»  potrebbe al contrario, per i motivi appena evocati, rivelarsi un punto di forza rispetto al più complessivo obiettivo di garantire la tenuta del sistema comune europeo di asilo: la “via” procedurale finisce infatti per vincolare in modo rigido l’esercizio di sovranità statale alle modalità individuate dal diritto europeo, pur riconoscendo un ampio margine di discrezionalità agli Stati membri nella definizione del merito delle scelte compiute.
Racchiudendo in una frase il senso della sentenza, si potrebbe quindi metaforicamente affermare che chi – gli Stati membri – di amministrativizzazione dei diritti riconosciuti alle persone richiedenti protezione ferisce, di amministrativizzazione dei poteri connessi alla propria sovranità rischia di perire. Le future frizioni che inevitabilmente si produrranno lungo il percorso di riforma del sistema comune di asilo diranno se la via procedurale aperta dalla Corte di giustizia potrà rivelarsi efficace rispetto all’obiettivo di garantire un bilanciamento sostenibile tra spinte integrazioniste a livello europeo e resistenze sovrane (sovraniste?) a livello statale, le quali rappresentano entrambe – come la sentenza commentata dimostra – elementi necessari delle politiche europee in materia di immigrazione.


Recensione a Lucia Scaffardi, Giustizia genetica e tutela della persona. Uno studio comparato sull’uso (e abuso) delle Banche dati del DNA a fini giudiziari, Padova, CEDAM, 2017

In margine alla pubblicazione del volume di L. Scaffardi, Giustizia genetica e tutela della persona. Uno studio comparato sull’uso (e abuso) delle Banche dati del DNA a fini giudiziari, Padova, CEDAM, 2017


Recensione a “Constitutional Principles of Local Self-Government in Europe” di Giovanni Boggero

Taking local self-government seriously. Questo potrebbe essere una efficace sintesi dell’impianto concettuale del libro “Constitutional Principles of Local Self-Government in Europe” di Giovanni Boggero (2018), edito da Brill nella collana “Studies in Territorial and Cultural Diversity Governance” curata da Francesco Palermo e Joseph Marko.
Il volume, attraverso un’analisi molto articolata e coerente che si sviluppa lungo quattro capitoli, delinea la natura, gli elementi e le caratteristiche del “sistema” europeo di Local Self-Government, al cui centro l’Autore situa la European Charter of Local Self-Government: scelta, questa, da un lato inevitabile, in quanto tale strumento di diritto internazionale pattizio rappresenta la più compiuta razionalizzazione dei principi in materia nell’ambito europeo; ma anche, dall’altro lato, coraggiosa, in quanto la capacità della Carta di incidere a livello nazionale viene costantemente discussa (basti al riguardo riferirsi all’interpretazione che la Corte costituzionale italiana ha proposto della natura della Carta, da ultimo nella sentenza n. 50/2015). La sfida del libro, anticipando alcune delle considerazioni finali, può dirsi però riuscita, tanto dal punto di vista del metodo dell’indagine quanto delle conclusioni raggiunte.
Dal punto di vista del metodo, sono tre le caratteristiche che emergono in modo evidente dalla trattazione e che ne orientano l’incedere: un approccio di tipo storico, finalizzato a valorizzare la continuità concettuale e assiologica tra le tradizioni europee in materia e il contenuto della Carta (in particolare nel primo capitolo); la scelta di considerare la Carta come “living instrument”, inserito in e integrato da un sistema complesso di ulteriori strumenti normativi – anche di natura “soft” – che risultano decisivi al fine di individuare un valore sostanzialmente costituzionale di tale strumento (ancora in formazione e declinabile in modo differenziato in termini di impatto sugli ordinamenti nazionali); infine, l’utilizzo della comparazione giuridica, che consente all’Autore di individuare una dimensione concretamente normativa dei principi espressi dalla Carta attraverso l’analisi dell’impatto prodotto a livello nazionale, alla luce di una macro-distinzione tra democrazie consolidate e “nuove” democrazie.
La struttura del libro risulta coerente con l’obiettivo dichiarato dall’Autore fin dall’Introduzione (The European Charter of Local Self-Government as International Treaty with Constitutional Significance): dimostrare come la Carta – e il sistema normativo identificabile attorno alla sua concreta attuazione a livello tanto internazionale (strumenti di soft law quali i report) quanto nazionale (in particolare, l’influenza esercitata nelle transizioni costituzionali dei Paesi del centro-est Europa) – non esprima meramente una ormai obsoleta dimensione culturale (“a piece of paper or an outdated cultural dimension”, 1), ma sia al contrario in grado di esprimere un valore costituzionale potenziale (“potential constitutional value”, Ibidem).
Idealmente, l’opera può essere suddivisa in due parti, che corrispondono rispettivamente al primo e secondo capitolo, da un lato, e al terzo e quarto, dall’altro.
Nella prima parte (primo e secondo capitolo), vengono ripercorse le radici storiche dei concetti di “charter” e di “local self-government”, al fine di evidenziare la connessione teleologica – all’interno del quadro istituzionale del Consiglio d’Europa – tra la “narrazione” del principio di “municipal freedom”, intesa quale retorica dell’autonomia e dell’autogoverno contrapposta alla struttura centralistica degli ordinamenti (p. 2), e quello che l’Autore definisce “trinitarian mantra of the constitutional faith”: rule of law, democracy e human rights. Situando la Carta all’interno delle fonti del diritto internazionale e del rapporto – differenziato – con gli ordinamenti nazionali, nel secondo capitolo viene manifestato il rischio di un fraintendimento, che viene peraltro alimentato dalla struttura della Carta stessa (l’Autore in tal senso sottolinea la natura ‘à la carte’ degli obblighi derivanti dalla medesima e l’utilizzo di concetti vaghi e principi generali al suo interno, che se da un lato favoriscono una ampia adesione degli Stati, dall’altro espandono inevitabilmente il margine di apprezzamento di questi ultimi), relativo alla natura di tale strumento: una costante oscillazione tra l’attribuzione di una natura meramente politica, che ne diminuisce di conseguenza la portata normativa, da un lato; e il riconoscimento di un valore vincolante in senso pienamente giuridico, tanto da ipotizzarne – alla luce della sua possibile connessione con il diritto dell’Unione europea – la funzione di “minimum common standard” a livello europeo (71).
La tensione, peraltro tipica degli strumenti di diritto internazionale pattizio, tra natura politica e normativa della Carta rappresenta uno dei fili rossi della trattazione, che l’Autore – nella seconda parte del libro – sembra risolvere, seppur con  un atteggiamento di ragionevole e opportuna cautela, a favore della seconda: a tal fine, la valorizzazione, in particolare attraverso l’uso della comparazione, di una dimensione costituzionale in nuce ricavabile dalla Carta europea interpretata “in action” risulta decisiva.
In tal senso, non appare casuale che il terzo capitolo si apra con una costruzione progressiva del contenuto concettuale – e quindi normativo – di “autogoverno locale”, il quale viene significativamente declinato in termini costituzionali, utilizzando la sponda offerta dall’art. 2 della Carta (“The principle of local self-government shall be recognised in domestic legislation, and where practicable in the constitution”). L’autogoverno locale, in tale prospettiva, deve essere tutelato a livello statale in quanto istituzione (“as an institution”, 138), richiedendo in tal senso una tutela costituzionale speciale (139) in quanto elemento essenziale al fine di qualificare la natura democratica di un ordinamento. L’analisi di ciò che l’Autore definisce “institutional design” dell’autogoverno locale si sviluppa in modo coerente a tale premessa, analizzando i vari “luoghi” giuridico-istituzionali nei quali il “constitutional local self-government” trova espressione, legittimazione e riconoscimento, seppur in modo differenziato, a livello nazionale. All’interno di tale traiettoria assumono particolare rilievo, essendo nell’opera qualificati come “core area” in tale ambito, il principio di sussidiarietà (161), la garanzia di adeguate risorse finanziarie (210, senza le quali l’autogoverno sarebbe “illusory”, 203) e il diritto all’autonomia finanziaria (218). Tra l’affermazione a livello internazionale dell’esistenza di una “core area” di garanzie sulle quali si fonda il principio del local self-government e l’effettiva realizzazione delle medesime a livello statale si gioca in pieno la partita tra la qualificazione della Carta, e del sistema normativo composito ad essa collegato, quale documento politico o, come proposto dall’Autore, come atto normativo dotato di una portata sostanzialmente costituzionale.
L’approfondita analisi dei vari ambiti di intervento della Carta, arricchita in modo decisivo da sistematici riferimenti di natura comparata finalizzati a valutarne l’effettiva portata sugli ordinamenti statali in termini non solo simbolici ma anche normativi, conduce l’Autore – che peraltro non rinuncia, opportunamente, a evidenziare debolezze a livello attuativo che sono riconducibili alla natura stessa dello strumento (limitata portata self-executing dei suoi principi; ampio margine di apprezzamento nazionale; struttura a maglie aperte del testo) – a proporre una lettura ‘forte’ della medesima. I contenuti della Carta, infatti, non possono essere ridotti a “isolated legal principles”, ma assumono la natura di “constitutional guarantees which should be read as part of a “system”” (273). La traiettoria conduce quindi dalle disposizioni della Carta ad un sistema di garanzie, destinato a completarsi, consolidarsi e svilupparsi grazie al decisivo contributo degli organi del Consiglio d’Europa (nonché alla volontà politica degli Stati membri). La Carta, quindi, viene posta al centro di tale sistema, caratterizzato da un contenuto necessariamente fluido derivante dal meccanismo di ratifica ‘à la carte’ e dalla dottrina del margine di apprezzamento, che legittimano l’adozione di soluzioni differenziate, in grado di esprimere le diverse ‘raisons d’état’ a livello statale (273).
Un centro, pertanto, il cui contenuto risulta ontologicamente mobile -  alla luce delle caratteristiche appena enunciate – e dinamico, in quanto inteso quale living instrument che deve essere interpretato alla luce del mutare delle condizioni presenti in un determinato momento storico e ambito geografico (274). Un motore essenziale di tale sistema è individuato – in modo solo apparentemente paradossale – in un tipico strumento di soft law: l’attività di monitoraggio svolta in particolare dal Congress of Local and Regional Authorities (275 ss.), la quale qualifica gli effetti prodotti dalla Carta a livello nazionale in termini di armonizzazione, valorizzazione delle specificità territoriali e scambio di buone pratiche tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa (276).
L’opera si chiude con una efficace sistematizzazione delle caratteristiche di tale sistema – integrato (tra hard e soft law), differenziato (nella continua e a volte problematica interazione tra ius localis commune europaeum e sua concreta attuazione a livello statale) e dinamico (la Carta come living instrument) – che risulta in perenne e fisiologica tensione tra l’emersione a livello europeo di principi costituzionali comuni in materia di autonomia locale e il loro effettivo radicamento nei diversi ordinamenti statali, nonché delle funzioni che tale sistema può svolgere: il consolidamento del diritto internazionale pubblico (281), in quanto il sistema della Carta può essere considerato un avanzamento verso il riconoscimento della soggettività internazionale delle autorità locali territoriali (285); la costruzione di un diritto costituzionale europeo del governo locale (287), in quanto il sistema della Carta offre un nucleo minimo di principi  di natura costituzionale, che va oltre la mera codificazione delle tradizioni costituzionali comuni in materia di governo locale (288); infine, l’integrazione dei diversi modelli di governo locale, favorendo se non l’armonizzazione quantomeno la convergenza e la circolazione dei principi costituzionali in materia tra diversi ordinamenti nazionali (291).
Seppur ostica, la sfida di “prendere la Carta sul serio” viene affrontata in modo convincente dall’Autore, attraverso un percorso di analisi che, grazie al decisivo apporto della comparazione giuridica, valorizza le potenzialità costituzionali espresse dal “sistema della Carta” e ne evidenza realisticamente le problematiche attuative nella dinamica multilivello tipica del rapporto tra diritto internazionale e ordinamenti statali, oltre a rappresentare – come evidenziato nella Prefazione di Luciano Vandelli – “the most complete assessment to date of the interpretation and implementation of the European Charter of Local Self-Government” (XIV).