Uso e abuso dell’istituto referendario nei recenti processi costituzionali

Democratic constitutionalism has known a blooming period in the second half of 20th century, with many democratic transitions happening all around the world. Recently a democratic decay phase has widespread all around the world and its feature is not coups d’état, but rather use of constitutional means, such as referenda. Indeed, referenda have seemingly become a ubiquitous means of ratifying constitutional change. As a matter of facts, this trend is linked to increase public participation in recent constitution-making processes and this article will analyse the recourse to referendum in three recent constitutional change processes, namely Tunisia, Kazakhstan, and Chile. Because of the cultural, geographical and constitutional diversity of these cases, it is possible to draw some lessons about constitutional referenda.


C’è un giudice ad Arusha: il tentativo della Corte africana di ristabilire la democrazia costituzionale tunisina

Il 22 settembre la Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli (d’ora in avanti Corte africana) ha emesso una importante pronuncia in merito ai recenti sviluppi costituzionali tunisini.
Pronunciandosi in merito al ricorso individuale presentato il 21 ottobre 2021 dall’avvocato, Ibrahim Ben Mohamed Ben Ibrahim Belghuith, l’organo giurisdizionale internazionale ha condannato la deriva autoritaria del Paese. Dall’agosto del 2021 il Presidente della Repubblica Kaïs Saïed ha infatti promosso una serie di misure che hanno lentamente eroso la democrazia costituzionale tunisina. Basti in questa sede ricordare le tappe principali dell’involuzione in senso illiberale del Paese: il 25 luglio 2021 il Presidente della Repubblica ha destituito il Primo ministro e sospeso l'attività del Parlamento, invocando l'art. 80 della Costituzione che consente al Capo dello Stato di adottare misure eccezionali dinnanzi ad un pericolo imminente per le istituzioni nazionali, la sicurezza e l’indipendenza dello Stato; il 22 settembre 2021 il Presidente della Repubblica ha emanato il decreto presidenziale n. 117 che ha istituito una nuova costituzione dei poteri, per cui l’attività legislativa viene esercitata tramite decreti presidenziali e la Costituzione del 2014 viene sospesa, ad eccezione del preambolo e dei Capitoli I e II dedicati ai diritti e alle libertà e di tutte le disposizioni che non sono in contrasto con il predetto decreto; il 25 luglio 2022 il popolo tunisino è stato chiamato a votare tramite referendum un nuovo testo costituzionale, elaborato da un comitato ad hoc, di nomina presidenziale, che ha consolidato ulteriormente l’involuzione in senso illiberale.
In virtù della dichiarazione sottoscritta dalla Tunisia nel 2017 ex art. 34(6) del Protocollo istitutivo della Corte africana che consente l’accesso diretto all’organo giurisdizionale da parte di individui e ONG, l’avvocato Ibrahim Ben Mohamed Ben Ibrahim Belghuith ha sottoposto i decreti presidenziali emanati nel 2021 al vaglio della Corte africana ed è significativo che il Giudice di Arusha si sia pronunciato a riguardo, emanando così una importante sentenza politica il cui impatto si propaga ben al di là dei confini tunisini.
Alla base del ricorso, vi è una asserita violazione da parte dello Stato tunisino di numerosi diritti sanciti dalla Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, nonché da altri trattati internazionali, quali il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance. Ad avviso del ricorrente, infatti, l’emanazione dei decreti presidenziali n. 117, 69, 80, 109, 137 e 138 del 2021 ha comportato una violazione del principio di autodeterminazione dei popoli (art. 20 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli), del diritto di partecipare agli affari pubblici del Paese (art. 13 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli), del diritto a sviluppare i valori democratici e i diritti umani (artt. 2, 3, 4, 5, 10, 11, 14 e 15 della Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance), del diritto di beneficiare delle garanzie dei diritti dell’uomo (art. 1 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli) e del diritto di accesso alla giustizia (art. 7 della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli).
Rivolgendosi alla Corte, il ricorrente chiede l’emanazione di misure provvisorie che consentano il ritorno alla democrazia costituzionale.
Prima di pronunciarsi sul merito del ricorso, la Corte rigetta le argomentazioni dello Stato convenuto circa l’irricevibilità del ricorso. Lo Stato tunisino aveva infatti avanzato le seguenti tre motivazioni a riguardo: 1) il mancato esperimento delle vie di ricorso interno da parte del ricorrente; 2) il fatto che l’oggetto del ricorso riguardasse il principio di autodeterminazione dei popoli; 3) il fatto che la competenza della Corte si limiterebbe ad asserite violazioni riguardanti la pace e la sicurezza internazionale ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.
Circa le asserite violazioni della Carta africana per la democrazia, le elezioni e la governance, la Corte africana dichiara la sua incompetenza a pronunciarsi nel merito, sulla base del fatto che la Tunisia non ha ratificato tale trattato.
La Corte afferma però la sua competenza a pronunciarsi su ricorsi inerenti ad asserite violazioni di diritti previsti dalla Carta africana e qualunque altro trattato internazionale inerente ai diritti umani ratificato dallo Stato convenuto e rigetta l’argomentazione del mancato esperimento delle vie di ricorso interne constatando che la Corte costituzionale tunisina, prevista dall’art. 118 della Costituzione del 2014, non è stata istituita e conseguentemente non vi sono valide vie di ricorso interne.
Nelle parole dei giudici: «La Cour relève qu’il n’existait pas non plus, dans l’État défendeur, d’autre juridiction ou autorité susceptible de statuer sur les litiges constitutionnels relatifs aux compétences du Président. L’absence de la Cour constitutionnelle a donc créé un vide dans le système judiciaire de l’État défendeur en ce qui concerne le règlement des différends constitutionnels, en particulier ceux mettant en cause la constitutionnalité des décrets pris par le Président».
La Corte conclude dunque che la mancata istituzione della Corte costituzionale nell’ordinamento tunisino costituisce una lacuna nel sistema giurisdizionale interno e conseguentemente la Tunisia ha violato l’art. 7(1)(a) della Carta africana, che garantisce l’accesso alla giustizia, in combinato disposto con l’art. 26 della predetta Carta, che sancisce il principio di indipendenza della funzione giurisdizionale.
Per quanto riguarda la asserita violazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli, la Corte si sottrae al rischio di entrare in un pericoloso campo minato dichiarando laconicamente di non ritenere necessario pronunciarsi a riguardo. Essa si concentra invece sull’asserita violazione del diritto dei cittadini a partecipare agli affari pubblici, affermando che gli Stati possono legittimamente adottare misure restrittive di tale diritto in nome dell’interesse pubblico, fermo restando il rispetto dei diritti fondamentali e la proporzionalità delle misure adottate. Nel caso di specie i decreti presidenziali sottoposti al vaglio della Corte sono stati adottati conformemente a quanto previsto dall’art. 80 della Costituzione del 2014, il quale prevedeva però una serie di condizioni, che non sono state attuate. In particolare, la mancata istituzione della Corte costituzionale ha impedito il controllo giurisdizionale delle misure eccezionali e conseguentemente la Corte africana constata che lo Stato convenuto avrebbe dovuto mettere in atto misure meno restrittive per affrontare la situazione prima di adottare provvedimenti così drastici come la sospensione dei poteri del Parlamento e la limitazione dell'immunità dei suoi membri. Ad avviso dei giudici di Arusha, le misure adottate dalla Tunisia si sono rivelate non solo sproporzionate rispetto agli obiettivi dichiarati, ma anche rispetto al quadro normativo in vigore.
Il Giudice di Arusha ordina dunque alla Tunisia di abrogare i decreti presidenziali oggetto del ricorso e di ristabilire la democrazia costituzionale, anche per mezzo dell’istituzione della Corte costituzionale, in un termine massimo di due anni. In aggiunta a tali obblighi, la Tunisia è tenuta a presentare alla Corte un rapporto sulla messa in atto delle misure attuate ogni sei mesi fintanto che il Giudice non ritenga eseguita la sua decisione.
La pronuncia della Corte africana ricopre dunque un’importanza particolare, non solo dal punto di vista della discesa in campo dell’organo internazionale negli affari interni di un Paese membro, ma anche applicativo dal momento che fissa un determinato periodo di tempo per ristabilire la democraticità dell’ordinamento. Si segnala tuttavia, che l’unica misura prevista dal Protocollo istitutivo della Corte in materia di esecuzione delle sentenze è la previsione della sottomissione di un resoconto annuale della sua attività alla Assemblea dell’Unione africana; tale rapporto deve specificare, i casi di inadempienza degli Stati nel dare esecuzione alle sentenze (art. 31 del Protocollo istitutivo della Corte); il Consiglio esecutivo dell’Unione africana, dal canto suo, è chiamato a monitorare l’esecuzione delle sentenze per conto dell’Assemblea (art. 29 c. 2 del Protocollo istitutivo della Corte).
Il brevissimo lasso di tempo intercorso dalla pronuncia non permette di valutare l’impatto della sentenza, tuttavia è indubbio che essa possa essere considerata come un coraggioso tentativo della Corte africana di salvare la democrazia costituzionale tunisina.


Il sistema africano di protezione dei diritti umani si rafforza: la Tunisia permette l’accesso individuale e di ONG alla Corte Africana

Il 16 aprile 2017, la Tunisia ha firmato la dichiarazione che consente a individui ed associazioni di presentare direttamente ricorso alla Corte africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, richiesta dall’art. 34 c. 6 del Protocollo istitutivo dell’organo del 1998.

La firma della dichiarazione costituisce un passo importante nel processo di consolidamento del rule of law e del costituzionalismo nel Paese perché colma almeno in parte le lacune del sistema giudiziario nazionale. Benché infatti la Tunisia rappresenti una speranza per il Mediterraneo in termini di democratizzazione e affermazione dei principi di matrice liberal-democratica, l’istituzione di un efficace sistema di garanzie si sta rivelando un’impresa particolarmente difficile. In particolare la Corte costituzionale non è stata ancora istituita, sebbene l’art.  148 c.5 della Costituzione stabilisse che essa avrebbe dovuto entrare in funzione entro un anno dalle elezioni parlamentari, che si sono tenute nell’ottobre 2014.

Il ritardo nella creazione del nuovo organo costituzionale si spiega con le difficoltà sorte circa l’istituzione del Consiglio superiore della Magistratura (CSM) anch’esso introdotto per la prima volta dalla Costituzione del 27 gennaio 2017, la cui entrata in funzione è decisiva per la creazione della Corte costituzionale. Ai sensi dell’art. 118 del testo costituzionale, quest’ultima si comporrà infatti di 12 giudici: quattro nominati dal Parlamento, quattro nominati dal Presidente della Repubblica, e quattro nominati dal CSM.

La creazione del CSM - prevista entro sei mesi dalle prime elezioni parlamentari, ex art. 148 c.5 della Cost. - ha creato tuttavia notevoli problemi. Come è già stato ricordato (T. Abbiate, “L’istituzione della Corte Costituzionale tunisina tra passi avanti e battute d’arresto”, 14 gennaio 2016), la legge organica istitutiva dell’organo è stata infatti dichiarata in contrasto con la Costituzione per ben due volte dall’Istanza provvisoria per il controllo di costituzionalità delle leggi, incaricata di giudicare la costituzionalità dei progetti di legge approvati dal Parlamento nel periodo precedente all’entrata in funzione della Corte costituzionale (art. 148 c.7 della Cost. e art. 18 della legge istitutiva dell’Istanza).

Oltre a ciò, un ulteriore blocco della situazione è stato creato dalla questione delle nomine del CSM: da un lato, la posizione del Primo presidente della Corte di Cassazione e quella del Procuratore generale sono infatti rimaste vacanti e, ai sensi dell’art. 10 della legge istitutiva del CSM, essi ricoprono ex officio anche il ruolo di giudici dell’organo di autogoverno della Magistratura, dall’altro le nomine degli altri giudici del CSM erano state duramente criticate dalle associazioni dei magistrati e a marzo 2017 il Tribunale amministrativo aveva annullato tutte le decisioni prese dal CSM da dicembre 2016. La situazione sembra essersi sciolta con la recente approvazione di una modifica alla legge istituiva del CSM del 28 aprile 2016, che fissa una quota legale per la validità delle riunioni dell’organo.

Nel frattempo il Parlamento ha iniziato a discutere la nomina dei quattro membri della Corte costituzionale e la speranza è che l’organo sia creato al più presto, di modo da assicurare un efficace protezione dei diritti e promuovere l’epurazione delle leggi giudicate in contrasto con la Costituzione. Molti osservatori, tra cui lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite per la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali e Amnesty International, hanno infatti denunciato numerose violazione dei diritti fondamentali.

Senza sottostimare l’urgenza della creazione della Corte costituzionale, è possibile affermare che la firma della dichiarazione che consente l’accesso diretto alla Corte Africana offre ai tunisini un’opportunità ulteriore per vedere garantiti i loro diritti.

La decisione inoltre ha un alto valore simbolico per gli altri Paesi africani: in un momento in cui la possibilità per individui e ONG di accedere direttamente alla Corte è messa in discussione da alcuni Stati, come il Ruanda che a marzo 2017 ha ritirato la sua dichiarazione in favore dell’accesso diretto alla Corte, la firma della stessa da parte della Tunisia conferisce nuova legittimità alla Corte ed è d’esempio per altri Stati.

La Tunisia va dunque ad aggiungersi al ristretto numero di Paesi aderenti alla Corte Africana che consente locus standi ad individui e ONG, costituito da Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Malawi, Mali e Tanzania. Per gli altri 24 Paesi che hanno ratificato il Protocollo istitutivo della Corte l’unica via di accesso alla Corte resta la Commissione africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, così come stabilito dall’art. 2 e dall’art. 5 c.1 lett. a) del Protocollo istitutivo della Corte.

Circa il funzionamento del sistema africano di protezione dei diritti fondamentali occorre sottolineare che il problema principale risiede nel fatto che la maggior parte dei ricorsi presentati viene dichiarata inammissibile. I requisiti di accesso alla Corte non sono infatti spesso rispettati e appare lodevole l’iniziativa promossa dall’ONG International Federation for Human Rights di elaborare una guida pratica per avvocati e ricorrenti di modo da permettere loro di superare gli ostacoli procedurali per ottenere il giudizio della Corte.

Benché sia ovviamente presto per poter valutare l’effetto di tale iniziativa, si spera che essa contribuirà al rafforzamento del sistema regionale di protezione dei diritti fondamentali. Indubbiamente la firma della dichiarazione che consente l’accesso diretto alla Corte da parte della Tunisia aggiunge un tassello in questa direzione.

 


L’importanza delle Corti costituzionali nei processi di transizione – Recensione del volume: F. Biagi, Corti costituzionali e transizioni democratiche. Tre generazioni a confronto, Il Mulino, Bologna, 2016.

Il tema della transizione è stato estesamente trattato dalla dottrina. In particolare, i processi avviatisi in seguito alla disgregazione dell’URSS hanno dato slancio ad una serie di studi che costituiscono delle pietre miliari in tale ambito. Più recentemente, le riforme avviate in seguito alle c.d. “primavere arabe” hanno ravvivato l’interesse per la tematica.

Il volume di Biagi si inserisce in questo solco di studi, pur dedicandosi a un tema non particolarmente esplorato in quest’ambito. Generalmente le analisi della transizione si concentrano infatti sulla fase de-costituente, riguardante cioè la decadenza o la rottura di un ordine precostituito, e sulla fase costituente, in cui avviene la costruzione di un nuovo ordinamento[1]. Il merito del volume di Biagi è invece quello di sottolineare invece l’importanza della fase successiva all’elaborazione di un nuovo testo costituzionale. L’interesse dell’autore è infatti quello di indagare la rilevanza dei neo-istituiti sistemi di giustizia costituzionale nei Paesi alle prese con un processo di cambiamento della forma di stato, da autocratica a democratica.

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L'istituzione della Corte Costituzionale tunisina tra passi avanti e battute d'arresto

Benché la Tunisia rappresenti il caso di maggior successo tra quelli scaturiti dalle c.d. “primavere arabe”, il cammino di transizione appare ancora in corso, per molti versi tortuoso.

Da un lato, bisogna pur ammettere che, dopo l’adozione a larga maggioranza della nuova Costituzione nel 2014, il processo di attuazione delle disposizioni costituzionali si è messo pienamente in moto, soddisfacendo alcune delle deadlines previste dalle disposizioni finali. In particolare: nell’aprile 2014 l’Assemblea costituente ha approvato la legge organica istitutiva dell’organo provvisorio incaricato del controllo di costituzionalità; nell’ottobre 2014 si sono tenute le elezioni per l’Assemblea dei rappresentanti del popolo, seguite nel novembre e nel dicembre 2014 dalle elezioni per il Presidente della Repubblica (PdR); tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 il nuovo Parlamento si è dunque insediato e si è formato un Governo di unità nazionale, pur non essendo questo un esito necessario in ragione del risultato elettorale.

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Primavera d’autunno? Una lettura personale del pre e post elezioni in Tunisia

Approdo per la terza volta a Tunisi in piena campagna elettorale. Il clima che si respira è ambivalente. Da un lato, il tassista che mi accoglie all’aeroporto risponde alle mie domande di giovane italiana che guarda alla transizione, con un misto di scherno e rassegnazione: «In questi tre anni nulla è cambiato». Un ritornello che mi sentirò ripetere diverse volte durante il mio soggiorno tunisino. Al contempo, si coglie un sentimento di grande attesa per le imminenti elezioni e si comprende che la transizione in corso da ormai tre anni rappresenta un momento unico della storia del Paese. Incontro, infatti, professori universitari che hanno temporaneamente abbandonato il proprio mestiere per servire la politica, militando nei partiti o assumendo un ruolo di spicco nelle istanze provvisorie, come l’istanza per il settore delle comunicazioni audiovisive o quella per le elezioni, oppure per impegnarsi a titolo personale in attività di osservazione della transizione in corso. La ragione è ben espressa da Chawki Gaddes, Segretario generale dell’Associazione tunisina di diritto costituzionale, il quale accogliendomi nel suo studio alla Faculté de Sciences Politiques et Juridiques de l’Université de Carthage mi dice: «Non è tempo per la produzione accademica, è tempo di impegnarsi concretamente per il Paese ».

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La nuova Costituzione tunisina, la Costituzione del popolo

Con l’approvazione della nuova Costituzione il 26 gennaio 2014, la Tunisia ha raggiunto un primo importante risultato nell’ambito di quel movimento di protesta conosciuto come “primavera araba”, che grazie alle rivolte del 2010-2011 ha posto fine al regime autocratico di Zine El Abdine Ben Ali. Il cammino è stato lungo e non privo di ostacoli: il clima politico è stato spesso teso fino a culminare in atti di violenza, quale gli omicidi dell’avvocato e politico tunisino Chokri Belaid, assassinato nel febbraio 2013, e di Mohamed Brahmi, leader del partito di opposizione della sinistra tunisina Corrente popolare, membro dell'Assemblea costituente e fervente critico del partito al potere Ennahda, assassinato a Tunisi nel luglio dello stesso anno. Questi eventi hanno inevitabilmente inciso anche sul processo costituente avviato in seguito alla rivolta, che ha subito una sospensione ad agosto 2013. Ciononostante, le forze politiche elette all’interno dell’Assemblée Nationale Constituante (ANC) si sono dimostrate in grado di superare l’impasse, riuscendo ad approvare in tempi relativamente brevi e con ampio consenso (200 voti favorevoli, 4 astenuti e 12 voti contrari) la nuova Costituzione tunisina. Nel giugno del 2013 una bozza del testo costituzionale era stata sottoposta all’esame della Commissione di Venezia il cui parere è stato tenuto in profonda considerazione dai costituenti.

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Recensione del volume X. Contiades (a cura di), Constitutions in the Global Financial Crisis. A Comparative Analysis, Ashgate, Farnham, 2013

Il volume collettaneo curato da Xenophon Contiades costituisce la prima pubblicazione in lingua inglese sugli effetti della crisi sui sistemi costituzionali nazionali. Se infatti non mancano pubblicazioni pioneristiche dedicate al fenomeno in lingua italiana – basti pensare al recente volume di Giorgio Grasso “Il costituzionalismo della crisi” (Editoriale Scientifica, Napoli, 2012) “Constitutions in the Global Financial Crisis. A Comparative Analysis” ha il merito di raggiungere un pubblico più vasto, favorendo ulteriormente lo studio degli effetti della crisi sul piano nazionale.

I contributi presenti in questo lavoro mirano ad alcune osservazioni critiche relative all’impatto che la crisi ha avuto, in particolare, sulla forma di governo, sull’attività normativa, sulla costituzione formale e materiale, nonché sulla giurisprudenza degli organi di giustizia costituzionale.

Un interrogativo di fondo accomuna la disamina dei vari casi: possono le Costituzioni e il costituzionalismo influenzare il corso della crisi, allo stesso modo in cui esse ne sono influenzate?

Il volume prende le mosse dalla distinzione tra quattro diverse reazioni costituzionali alla crisi, le quali dipendono sia da fattori esterni (quale l’impatto concreto della crisi sul Paese), che interni (come, ad esempio, la specifica organizzazione dei poteri o la cultura costituzionale). Tali reazioni sono: l’“aggiustamento”, la “sottomissione”, il “collasso” e la “resistenza”. Questa distinzione, operata prendendo in considerazione la reazione iniziale dei Paesi all’insorgere della crisi, permette di creare una tassonomia dei casi analizzati, che si riflette nell’intelaiatura su cui si articola il volume. Così, ad una prima parte introduttiva, a firma di X. Contiades e A. Fotiadou, seguono i vari contributi che approfondiscono le  singole reazioni costituzionali.

La parte II del volume è dedicata a casi classificati come esemplificativi dell’“aggiustamento” e contiene i saggi di: D.G. Morgan (The Constitution and the Financial Crisis in Ireland), T. Groppi, I. Spigno e N. Vizioli (The Constitutional Consequences of the Financial Crisis in Italy), R Baloidis e J. Pleps (Financial Crisis and the Constitution in Latvia), A. Ruiz Robledo (The Spanish Constitution in the Turmoil of the Global Financial Crisis), J.F. McEldowney (The Constitution and the Financial Crisis in the UK ); la parte III è dedicata ai casi di “sottomissione” e contiene i saggi di X. Contiades e I. Tassopoulos (The Impact of the Financial Crisis on the Greek Constitution) e J. E. M. Machado (The Sovereign Debt Crisis and the Constitution’s Negative Outlook: A Portuguese Preliminary Assessment); la parte IV è dedicata ai casi di “collasso” a firma di Z. Szente (Breaking and Making Constitutional Rules: The Constitutional Effects of the Financial Crisis in Hungary) e B. Thorarensen (The Impact of the Financial Crisis on Icelandic Constitutional Law: Legislative Reforms, Judicial Review and Revision of the Constitution); infine, la parte V del volume contiene il saggio di M. Tushnet dedicato agli Stati Uniti, esemplificativo della “resistenza” della Costituzione alla crisi economica (The United States Constitution and the Great Recession).

I vari contributi si soffermano sulle specificità nazionali, ma la lettura del volume permette di notare somiglianze e differenze tra i vari Paesi. Se nei Paesi soggetti all’“aggiustamento” si può notare un’erosione della funzione legislativa a vantaggio del potere esecutivo, (Spagna, ad esempio); il caso statunitense, rappresentativo della reazione di “resistenza”, mostra invece che la crisi non si è affatto tradotta in uno svilimento del ruolo del Parlamento, ma ha comportato addirittura un aumento dell’attività di controllo parlamentare.

Per quanto riguarda invece i tratti comuni, essi riguardano in particolare il sistema politico e l’emergere di una “giurisprudenza della crisi”.

La crisi ha infatti comportato quasi ovunque una diminuzione di fiducia nei confronti della classe politica, che si è accompagnata in alcuni casi al collasso dei partiti tradizionali e all’emergere di formazioni politiche nuove. D’altro canto, in molti Paesi le misure adottate per far fronte alla difficile situazione economica sono state poste all’attenzione dei giudici: le corti sono state chiamate a risolvere un “hard-to-solve puzzle”(secondo le parole di Contiades e Fotiadu) da intendersi come la necessità di comporre il contrasto tra esigenze di salvaguardia finanziaria da un lato e il rispetto dei principi fondamentali dall’altro. In questo contesto di crisi, la giurisprudenza (sia costituzionale, che di merito) ha assunto con una certa riluttanza il ruolo di arbitro finale, preferendo non fare leva sui diritti sociali per dichiarare l’incostituzionalità degli atti normativi anti-crisi. Allo stesso tempo però si nota l’esistenza di una sorta di dialogo implicito fra le corti, sorto non solo per l’analogia delle questioni di costituzionalità trattate, ma anche per la simile considerazione delle implicazioni politiche delle decisioni giudiziarie da parte dei giudici. Benché sia prematuro fare considerazioni riguardo all’eredità di questa nascente giurisprudenza, ciò che emerge è che la crisi costringe il costituzionalismo ad un riassestamento.

La crisi rappresenta infatti una sfida forte per il costituzionalismo e arriva a colpire la stessa funzione simbolica della Costituzione: gli autori si interrogano sulla permanenza o meno della fiducia nella Costituzione e notano che, paradossalmente, l’introduzione di vincoli di bilancio è promossa proprio in un periodo in cui le Costituzioni stanno perdendo la loro normatività e la loro funzione simbolica. Il volume è quindi ricco di suggestioni, anche se non va esente da alcune criticità. Quella maggiore riguarda il fatto che talvolta le conclusioni cui gli autori giungono appaiono già superate o quasi, dal momento che non tengono in considerazione l’evoluzione della giurisprudenza o della risposta legislativa. Esemplificativo a questo riguardo è il caso del Portogallo: alla luce delle sentenze 396/2011 e 353/2012 del Tribunale costituzionale, il Portogallo è annoverato tra i casi di “sottomissione” della Costituzione alla crisi; ad oggi però, anche alla luce della sentenza 187/2013, che ha dichiarato l’incostituzionalità di varie disposizioni della legge di bilancio 2012, l’atteggiamento di self-restraint imputato al Tribunale appare molto più ridimensionato.

Nonostante questo, il volume mantiene il suo interesse: oltre a fare il punto della situazione fino al 2012 e a dipingere un quadro d’insieme delle conseguenze costituzionali della crisi, infatti, il testo solleva interrogativi che sono tuttora senza risposta, come ad esempio cosa spinga una costituzione a reagire in un modo o in un altro e come si sviluppi poi tale reazione nei vari ordinamenti costituzionali influenzati dalla crisi.


L'Acórdão 187/2013: la punta di un iceberg per la giurisprudenza costituzionale europea sulla crisi?

Il 5 aprile 2013, con l’Acórdão 187/2013, il Tribunale Costituzionale portoghese (TC) si è pronunciato nel merito di quattro ricorsi relativi alla legge di bilancio 2013 (Lei n° 66-B/2012, d'ora in poi LOE), sollevati rispettivamente dal Presidente della Repubblica, Anibal Cavaco Silva (ricorso n. 2/2013), da alcuni deputati dell’opposizione (ricorsi nn. 5 e 8/2013) e dal Provedor de Justiça (ricorso n.11/2013).

La pronuncia era particolarmente attesa e rappresenta il terzo giudizio emesso dal TC relativo alle dure misure di riduzione della spesa pubblica adottate dal Governo conservatore di Coelho e il secondo in meno di un anno; il 5 luglio 2012, nell’Acórdão 353/2012, il Tribunale si era infatti pronunciato sulla legittimità della sospensione delle tredicesime e delle quattordicesime per i dipendenti pubblici e i pensionati, giudicandole in contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art.13 della Costituzione, in quanto creava una disparità ingiustificata tra lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato.

A distanza di appena nove mesi dalla precedente decisione, il TC si è pronunciato su alcune misure di austerity adottate nella legge di bilancio e ha  rilevato l’incostituzionalità di quattro misure: la sospensione parziale o totale del pagamento delle ferie ai lavoratori dell’amministrazione pubblica (art. 29 LOE), l’estensione del taglio delle ferie ai lavoratori impegnati in attività di insegnamento o di ricerca (art. 31), la sospensione del pagamento del 90% delle ferie e dei sussidi per i pensionati (art.77) e il pagamento dei contributi previdenziali del 6% per coloro che ricevono l’indennità di disoccupazione e del 5% per coloro che ricevono l’indennità di malattia (art.117 c.1).

Nel pronunciarsi circa la costituzionalità delle disposizioni impugnate della LOE 2013, il TC dimostra di tenere in considerazione la difficile situazione economica attraversata dal Paese: la sentenza si caratterizza, infatti, per una spiccata attenzione all'aspetto economico - dovuta anche alla natura del ricorso -  evidente nel riferimento ad indicatori che rivelano un peggioramento della situazione (contrazione media del PIL del 2,3% all’anno, contrazione del consumo privato del 3,5%, tasso di disoccupazione del 18,2%).

Lo stesso legislatore portoghese, nonostante avesse riconosciuto le mancanze della legge di bilancio, aveva sostenuto la legittimità delle misure adottate facendo leva sulla necessità di accrescere la credibilità e la fiducia dei creditori, onorare gli accordi internazionali e rispettare il diritto delle generazioni future a non vedersi imposto l’onere di ripagare i debiti contratti dai loro predecessori.

Diversi sono i parametri di costituzionalità invocati dai ricorrenti, tra i quali  la regola dell’annualità del bilancio (art. 105.2 Cost), il diritto di contrattazione collettiva (art. 56.2 Cost.), il diritto alla retribuzione (art. 59 c.1 Cost.), il principio di legittimo affidamento (art. 2 Cost.) e il diritto alla sicurezza sociale (art. 63 Cost.).

Ciononostante, il reasoning sviluppato dal TC fa leva principalmente sul principio di uguaglianza sancito dall’art. 13 della Costituzione e sul principio di proporzionalità riconosciuto dall’art. 2  Cost. Il tribunale riconosce infatti la legittimità di trattamenti differenziati, ma ribadisce che la differenziazione deve essere proporzionata e non eccessiva. Nel caso di specie, invece, i giudici riscontrano che le disposizioni contestate comportano un sacrificio sproporzionato ed eccessivo per i dipendenti pubblici, peraltro già duramente penalizzati dalle precedenti misure economiche. La Corte ritiene infatti che “l’imposizione di sacrifici più pesanti ai dipendenti pubblici non può essere
giustificata da fattori macroeconomici legati alla recessione economica
e all’aumento della disoccupazione, i quali devono essere affrontati attraverso
misure di politica economica e finanziaria di carattere generale, e non per
mezzo di una maggiore penalizzazione dei lavoratori che, in termini di
occupabilità, non subiscono lo stesso effetto della crisi economica.”.

 

La difficile situazione economica attraversata dal Paese ha portato il Governo, nel 2011, a negoziare un pacchetto di aiuti finanziari di 78 miliardi di euro con la cd. troika (BCE, Commissione Europea e FMI). In cambio del sostegno economico volto ad arginare il rischio di bancarotta finanziaria, il Portogallo si è impegnato a rispettare il limite del 5% per il 2012, del 4,5% per il 2013 e del 2,5% per il 2014 del rapporto tra debito pubblico e PIL, approvando un programma di politica economica e finanziaria, il Programa de Ajustamento Económico e Financeiro (PAEF), con una durata di tre anni. Le misure adottate nelle leggi di bilancio 2011, 2012 e 2013 vanno quindi nella direzione di onorare gli impegni presi in sede sovranazionale. Tuttavia, esse comportano un costo economico e sociale considerevole ai cittadini e ciò spiega il crescente numero di ricorsi all’organo di costituzionalità.

Mentre nell’Acórdão 396/2011 relativo alla legge di bilancio 2011, il Tribunale non aveva rilevato l’incostituzionalità delle misure previste dalla legge di bilancio 2011, con l’Acórdão 353/2012, il TC si era pronunciato sull’incostituzionalità della sospensione del pagamento della tredicesima e della quattordicesima mensilità per i dipendenti pubblici. L’ultima pronuncia conferma l’orientamento adottato nel 2012, sostenendo che anche le misure previste dalla LOE 2013 violano i principi di uguaglianza e di proporzionalità.

Queste pronunce sono esemplificative del ruolo che le Corti costituzionali sono chiamate a svolgere in periodo di crisi: esse devono operare un difficile bilanciamento di principi che vede da un lato gli interessi economici – ed in particolare l’essenziale salvaguardia finanziaria – e dall’altro il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, come il diritto di uguaglianza e, più in generale, i diritti sociali.

Il TC si è distinto nel panorama europeo per aver risposto con rapidità a questo complesso compito, e dalle sue pronunce si può constatare (finora) una tenuta dell’ordinamento costituzionale, nonostante le difficoltà causate dalla crisi.

Come si può facilmente immaginare, la sentenza è stata accolta con grande entusiasmo da parte dei cittadini, i quali hanno visto nel TC un’istituzione attenta non solo alle difficoltà economiche del Paese, ma anche alla situazione sociale ed economica concreta vissuta dai cittadini. Tuttavia, il giudizio di incostituzionalità ha provocato uno scisma politico ed economico: gli articoli censurati rappresentavano infatti parte delle garanzie offerte dal Governo portoghese per il versamento delle tranche di aiuti concordati nel 2011. Se il Governo non sostituirà ora in modo adeguato le misure di austerità censurate dal TC, la trojka potrebbe negare al Portogallo la prossima tranche, consistente in due miliardi di euro di aiuti finanziari. Per il momento, il rischio sembra scongiurato, poiché il 18 aprile il Consiglio dei Ministri portoghese ha adottato nuove misure di austerity volte ad “aggiustare” la legge finanziaria per il 2013: le misure includono tagli alla spesa per 800 milioni di € a tutti i servizi pubblici e per ulteriori 500 milioni in settori ancora da concretizzare. A livello europeo, invece, la Commissione europea ha prorogato di sette anni le scadenze del prestito concesso al Portogallo (e all’Irlanda).

Benché non sia possibile prevedere ciò che succederà nei prossimi mesi, è indiscutibile che la rilevanza dell’Acórdão 187/2013 non si esaurisce all’interno dei confini portoghesi, ma è destinata ad avere una grande eco in tutta Europa. Analoghi contenziosi sono infatti all’attenzione delle corti costituzionali  di altri Stati europei e il Tribunale costituzionale portoghese, con questa pronuncia, ha creato un punto di riferimento obbligato per tutti gli organi di giustizia costituzionale chiamati a pronunciarsi circa la costituzionalità di misure adottate per far fronte alla crisi.