L’Alta Corte di Madrid nega la legittimità alle “misure anti Covid”: è necessario l’intervento del parlamento

L’8 ottobre scorso, attraverso la sent. 128/2020, l’Ottava sezione della Camera contenzioso amministrativo, del Tribunal Superior de Justicia de Madrid (TSJM), si è pronunciata circa la ratifica dell’ordinanza del 1° ottobre n. 1283/2020 del Ministero della Sanità. La vicenda giudiziaria prende le mosse a seguito del ricorso presentato dall’Avvocato della Comunità di Madrid n.1224/2020, avente ad oggetto l’attuazione dell’ordinanza ministeriale recante disposizioni circa le misure preventive applicabili in taluni comuni della Comunità di Madrid (in dieci comuni Alcalá de Henares, Alcobendas, Alcorcón, Fuenlabrada, Getafe, Leganés, Madrid, Móstoles, Parla e Torrejón de Ardoz) e in esecuzione della precedente ordinanza del 30 settembre 2020, in materia di pubblica sanità. La pronuncia nega, dunque, attraverso una serie di argomentazioni, l’accettazione delle misure introdotte attraverso le ordinanze de Ministero della Sanità, ritenendo che queste siano lesive dei diritti fondamentali. Invero, le argomentazioni addotte dal TSJM paiono inconfutabili, poiché si precisa, dapprima, che ci troviamo di fronte ad un quadro normativo sostanzialmente diverso da quello analizzato in precedenza. Il riferimento, evidentemente, è, alle aree igienico-sanitarie individuate dalle oridnanze del Ministero della Sanità del 24 settembre e del 1° ottobre, alle quali venivano applicate peculiari misure. Nel caso che interessa alla trattazione, la situazione cambia poiché, come riconosciuto dallo stesso Avvocato della Comunità di Madrid, ciò che viene in rilievo, in questa occasione è l’accettazione del mandato, concesso al Ministero della Sanità, in virtù del quale questo può emanare delle ordinanze atte a far fronte alle peculiari situazioni di rischio derivanti dalla diffusione incontrollata di infezioni causate da SARS- COV- 2, senza controllo alcuno da parte dell’organo legislativo.
Nella visione dei magistrati, dunque, l’ordinanza ministeriale del 30 settembre 2020, emanata ai sensi dell’art. 65 della Legge 16/2003, riguardante la coesione e la qualità del Sistema Sanitario nazionale, pare essere lesiva delle libertà e dei diritti fondamentali, atteso che, seppure le misure previste nell’ordinanza fossero realmente necessarie ed idonee a garantire la diffusione della pandemia, sarebbe, in ogni caso errata la veste del provvedimento, poiché diverrebbe necessaria una Ley orgánica ovvero una legge ordinaria per comprimere diritti e libertà fondamentali ed è necessario, altresì, che tali norme contengano, in maniera puntuale, termini ed ipotesi, circa la loro attuazione, poiché in grado di incidere su diritti costituzionalmente garantiti. Ciò che maggiormente viene enfatizzato nella pronuncia è che, pur essendo previste basi giuridiche solide per l’emanazione di una legge del suddetto tenore, riferendosi in particolare agli artt. 15 e 43 della Costituzione spagnola (CE), per il diritto alla integrità fisica e diritto alla salute non si predilige l’approvazione di una legge, ma ci si limita alla approvazione di atti dell’Esecutivo. Questi ultimi, nella visione del TSJM, non hanno il potere di limitare diritti e libertà, non avendo una autorizzazione legale, negata, peraltro, dall’art. 65 della summenzionata legge 16/2003.
In altre parole, la veste dell’ordinanza ministeriale, inquadrabile come atto dell’esecutivo, non può incidere su diritti e libertà, poiché di ciò è fatto espressamente divieto da parte di una legge di rango superiore (L.n. 16/2003). Di conseguenza, le misure di contenimento adottate dall’Esecutivo guidato da Pedro Sánchez costituiscono “una ingerenza dei pubblici poteri nei diritti fondamentali dei cittadini” in assenza di una normativa adottata dai loro rappresentanti all’interno del Parlamento e, per tale ragione, risultano inapplicabili. Ciò che il Tribunale sostiene con forza è che i diritti costituzionalmente garantiti non possono essere ‘normati’ da un atto che non abbia rango legislativo, poiché si configurerebbe come una interferenza dell’Esecutivo non autorizzata dal Legislativo stesso.
Malgrado la situazione emergenziale e il continuo innalzarsi della curva dei contagi, il Tribunale richiama l’Esecutivo, ricordando a questo che l’architettura costituzionale spagnola prevede ben altri strumenti giuridici capaci di far fronte all’emergenza, ma maggiormente rispettosi delle garanzie costituzionali. Il lockdown parziale, quindi, avrebbe dovuto basarsi su misure maggiormente garantiste, ma, in particolare, avrebbe dovuto coinvolgere il Parlamento, poiché bypassarlo attraverso atti immediatamente esecutivi, peraltro diversi dai decreti-legge, previsti dall’ordinamento spagnolo, significa sacrificare diritti e libertà, in nome del contenimento della pandemia, della salute pubblica, ma in assenza di garanzie per il cittadino.
È bene sottolineare che, invero, lo scenario delineato dal TSJM potrebbe aprirsi anche ben oltre i confini spagnoli, e, dunque, nelle parole di altre corti nazionali, poiché gli interventi contenitivi della pandemia sovente sono di provenienza dell’Esecutivo, proprio perché necessari in tempi brevi, tuttavia pare impraticabile confutare le tesi finora analizzate, poiché il richiamo a tenere saldo il principio della separazione dei poteri e la tutela del nucleo essenziale dei diritti fondamentali, devono restare saldi anche quando si fa fronte ad una situazione emergenziale.
Il Governo Sánchez   ha dichiarato che analizzerà la sentenza e deciderà il da farsi, tuttavia è appena il caso di ricordare che pare impossibile arginare le determinazioni assunte attraverso tale pronuncia, essendo il Tribunale responsabile, in ultima analisi, della interpretazione della giurisprudenza, oltre che a detenere il potere di giudizio di appello per la revoca o l’azione penale nei confronti dei pubblici poteri. In effetti, proprio sulla base di tale pronuncia, il 25 ottobre l’Esecutivo ha dichiarato lo stato di emergenza ex art. 116 CE, raccogliendo i suggerimenti del TSJM, poiché in virtù dell’attuazione di tale previsione, il potere Legislativo rientra all’interno del procedimento decisionale, giacché la deliberazione del Consiglio dei Ministri deve essere autorizzata dal Parlamento, che vigilerà sul modus operandi dell’Esecutivo, riferendo al Congresso dei Deputati riunito immediatamente a tale scopo, senza la cui autorizzazione detto periodo non potrà essere prorogato. Il decreto determinerà l’ambito territoriale cui si riferiscono gli effetti della dichiarazione.
Come è noto, la Costituzione spagnola distingue tre diversi stati emergenziali: lo stato di allarme, lo stato di eccezione e lo stato di assedio, con differente proporzionalità e graduazione dell’intensità delle misure adottabili, con conseguente possibilità di restrizione dei diritti fondamentali degli individui. Il comma 2 dell’art. 116 della Costituzione spagnola prevede la dichiarazione del estado de alarma, il quale può essere emanato dal Governo mediante decreto deliberato dal Consejo de Ministros, per un termine massimo di quindici giorni.
Invero, ad integrazione del secondo comma dell’art. 116 CE, vi è la legge organica n. 4/1981, che detta le condizioni per la dichiarazione dello stato di allarme, che potremmo paragonare alle condizioni di necessità ed urgenza poste alla base della emanazione dei Decreti-legge nel nostro ordinamento. La ley orgánica n. 4/81, annovera le crisi a carattere sanitario, come le epidemie e le situazioni di contagio grave, specificando, peraltro che il Governo (o l’autorità da esso delegata) può adottare misure solamente limitative e non sospensive dei diritti fondamentali.
Nel decreto deve essere espressamente determinato l’ambito territoriale su cui si produrranno gli effetti della dichiarazione e di ciò deve essere immediatamente informato il Parlamento, riunito proprio a tal fine e senza la cui autorizzazione non è dato procedere a una proroga di tale periodo emergenziale. È evidente, dunque, che attraverso tale strumento viene garantito un controllo politico da parte del Parlamento non soltanto sul persistere delle misure che hanno dato origine al decreto governativo, ma, altresì, sull’operato del Governo stesso.
L’Esecutivo, dunque, pur essendo l’unico organo dotato del potere di dichiarare lo stato di allarme e nel fissarne la termini e meccanismi di attuazione, non può, tuttavia, prescindere dall’autorizzazione e dal controllo delle Camere, soprattutto qualora volesse estendere la durata legalmente prevista. In altre parole, allorquando il Governo esprima la volontà di prorogare il termine di quindici giorni di cui all’articolo 116, comma 2, CE, deve necessariamente richiedere l’autorizzazione del Parlamento, prima della scadenza del termine. Si aprirà, dunque un dibattito, al termine del quale il Legislativo comunicherà la propria decisione all’Esecutivo.
Lo scenario che si delinea, dunque, vedrà il Governo determinare semplicemente i criteri minimi, che le varie Comunità Autonome potranno inasprire, non assumendo, dunque, il controllo generale della risposta sanitaria. In particolare, è prevista l’entrata in vigore di un coprifuoco, c.d. “restrizione del movimento notturno” tra le ore 23 e le 6, che le Comunidades autónomas potranno eventualmente rimodulare, ma non potevano adottare di propria iniziativa, giacché fuori dalle loro competenze, ad eccezione delle Isole Canarie, la cui situazione epidemiologica è tutt’altro che grave, per cui il coprifuoco non viene considerato necessario. In conclusione, l’atto di decretazione dello stato emergenza portato in Parlamento per l’approvazione, conterrebbe la clausola secondo cui il Governo si riserverebbe il diritto di revocarlo qualora le condizioni epidemiologiche lo permettessero.


L’altro volto della Sentenza Kercher: le (poche) garanzie riconosciute agli imputati. Un punto di vista costituzionale comparato

Per quanto si possa essere abituati ad analizzare le sentenze, in particolare quelle penali, esclusivamente dall’ottica della procedura penale interna all’ordinamento nazionale, esse hanno un duplice volto, atteso che lo stesso codice penale riposa su una struttura verticistica delle fonti del diritto, al cui vertice si pone la Costituzione. Tuttavia, tale affermazione è parzialmente veritiera, poiché la stessa Carta Fondamentale apre l’ordinamento interno a fonti sovranazionali e internazionali, determinando un sistema di cerchi concentrici o, come dice la migliore dottrina, un costituzionalismo multilivello. Partendo, dunque, dal dato costituzionale, e senza pretesa di esaustività, si cercherà di vedere la sentenza Kercher, e le vicende relative agli imputati, da un punto di vista costituzionale, in un’ottica, appunto, multilivello. Non è necessario "invadere" in alcun modo il territorio del diritto penale e la sua procedura, giacché, come si diceva, ogni sentenza può essere vista da un’altra ottica, quella del costituzionalista, che si chiede quanto sia attinente a Costituzione e, peraltro, agli strumenti giudici internazionali cui la Carta apre, una sentenza che pare carente della tutela dei diritti dell'imputato. Il rovescio della medaglia, probabilmente, ovvero un lato oscuro, sovente tralasciato in sede di giudizio, un lato, tuttavia, che va tenuto in debita considerazione. La sentenza Kercher si presta a siffatta analisi, atteso che coinvolge cittadini di diverse nazionalità e, in particolare nella fase (o nelle fasi) che la precedono, pare lesiva della libertà personale, della uguaglianza davanti alla legge e del diritto ad un giusto processo.

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I controlimiti ai tempi della crisi finanziaria: note a margine della sentenza portoghese relativa alle misure di austerità imposte dall’UE

Attraverso l’Acórdão 187/2013 il Tribunale Costituzionale portoghese si è pronunciato in merito a quattro ricorsi relativi alla legge di bilancio 2013 (Lei do Orçamento do Estado n° 66-B/2012), sollevati dal Presidente della Repubblica, Anibal Cavaco Silva (ricorso n. 2/2013), da alcuni deputatidell’opposizione (ricorsi nn. 5 e 8/2013) e dal Provedor de Justiça (ricorso n.11/2013). La pronuncia appariva particolarmente attesa, poiché rappresentava il terzo confronto del Tribunale con le misure di riduzione della spesa pubblica adottate dal Governo conservatore di Coelho, e il secondo in meno di un anno. In effetti, già nel 2012 (Acórdão 353/2012) il Tribunale si era pronunciato sulla legittimità della sospensione della tredicesima e della quattordicesima per i dipendenti pubblici e i pensionati, giudicando tali misure in aperto contrasto con il principio di uguaglianza sancito dall’art.13 Cost., atteso che tali provvedimenti tendevano a determinare una disparità di trattamento ingiustificata tra lavoratori del settore pubblico e quelli del settore privato. Dunque, ad appena nove mesi di distanza dalla precedente decisione, il Tribunale torna a confrontarsi con talune misure di austerity, adottate nella legge di bilancio 2013, rilevando l’incostituzionalità di quattro misure su nove: la sospensione parziale o totale del pagamento delle ferie ai lavoratori dell’amministrazione pubblica, l’estensione del taglio delle ferie ai lavoratori impegnati in attività di insegnamento o di ricerca, la sospensione del pagamento del 90% delle ferie e dei sussidi per i pensionati e il pagamento dei contributi previdenziali del 6% per coloro che ricevono l’indennità di disoccupazione e del 5% per coloro che ricevono l’indennità di malattia. In prima battuta, il Tribunale ricorda che la legge finanziaria 2013 si inquadra “nell’ambito della concretizzazione di un orientamento strategico connesso al perseguimento di uno sforzo di consolidamento finanziario previsto nel Programma di aggiustamento economico e finanziario (PAEF) concordato tra il governo portoghese e la Troika (Commissione, FMI, BCE)”. Tuttavia, ciò che all’analisi particolarmente interessa è il reasoning che conduce a tali decisioni, poiché il Tribunale, malgrado le pressioni sociali e mediatiche, si dimostra particolarmente attento alla crisi economica in atto; ovvero, cerca di bilanciare l’interesse collettivo, l’uguaglianza e le necessarie misure di austerità che i tempi impongono. Un’ardua impresa, dunque, ma il Tribunale portoghese pare destreggiarsi con ordine e coscienza, mettendo in luce che la società ha, senza dubbio, bisogno che il principio di uguaglianza resti punto fermo e principio supremo della Costituzione, ma ciò deve bilanciarsi con gli impegni internazionali assunti in sede europea. In altre parole, il Tribunale portoghese si trova a pesare sulla bilancia il diktat della Troika e i principi supremi del proprio ordinamento costituzionale: i controlimiti ai tempi della crisi.

Una impresa titanica, quindi, ma gestita con estrema lucidità, facendo leva sul principio di eguaglianza e quello di proporzionalità; ciò consente al Tribunale di giungere a risposte ben lungi dall’essere scontate o a posizioni di chiusura nei confronti dell’Unione. In effetti, la Corte  riconosce  la legittimità di trattamenti differenziati, ma ribadisce che la differenziazione deve essere “proporzionata e non eccessiva”. Nel caso di specie, tuttavia, i giudici riscontrano che le disposizioni impugnate colpiscono in maniera sproporzionata ed eccessiva i dipendenti pubblici, chiedendo a questi un sacrificio enorme, riprendendo, in tal senso, le parole del Presidente della Repubblica, pronunciate in occasione del discorso di fine anno.

La Corte sostiene, quindi, che “l’imposizione di sacrifici più pesanti ai dipendenti pubblici non può essere giustificata da fattori macroeconomici legati alla recessione economica e all’aumento della disoccupazione, i quali devono essere affrontati attraverso misure di politica economica e finanziaria di carattere generale, e non per mezzo di una maggiore penalizzazione dei lavoratori che, in termini di occupabilità, non subiscono lo stesso effetto della crisi economica”. Tuttavia, una domanda può essere legittimante sollevata, poiché il Tribunale sostiene senza mezzi termini che talune disposizioni della Legge finanziaria siano incostituzionali perché lesive dei principi supremi della Costituzione, dei diritti sociali e, infine, perché esse hanno violato la “giusta misura” nell’imporre trattamenti differenziati. Chi decide, dunque, qual è la giusta misura ed in base a quali canoni? Proprio durante questa fase del dibattimento le posizioni dei giudici iniziano a divergere, poiché taluni ravvisavano un intervento quasi-legislativo del Tribunale, ritenendo che si fosse spinto troppo oltre le proprie competenze. Tuttavia, la maggioranza dei membri fa notare che il ruolo delle Corti nell’epoca del Fiscal Compact deve mutare, poiché ad esse continua a spettare il ruolo di garanti della Costituzione e dell’ordine costituzionale, ma con un aggravante, un qualcosa che rende più difficoltoso il loro ruolo: bilanciare valori interni e fattori esterni, principi costituzionali e crisi economica, controlimiti e accordi di austerity. Probabilmente è proprio tale affermazione a rendere la pronuncia portoghese non soltanto degna positivamente di nota, ma essa diviene, altresì, lucida e lungimirante, poiché il Portogallo mette in luce i suoi controlimiti, si spinge addirittura fino a sostenere che gli accordi internazionali si rispetteranno fintanto che, ma trova un compromesso orientato verso l’integrazione: le misure di austerità sono necessarie, ma non possono ledere i diritti inviolabili ed i principi supremi dell’ordinamento, per tale ragione suggerisce “aggiustamenti” al legislatore interno, tali da rendere la norma legittima tanto a livello costituzionale, quanto comunitario.

Le ripercussioni politiche della sentenza, tuttavia, sono state imponenti, atteso che per la terza volta il Tribunale bocciava una Legge Finanziaria elaborata da un governo di centrodestra, concedendo alla sinistra ogni possibile argomentazione per screditare l’operato politico del Governo in carica. La sentenza portoghese è, dunque, emblematica del ruolo che le Corti costituzionali sono chiamate a svolgere in tempi di crisi economica; come si accennava esse devono operare un difficile bilanciamento di principi che vede, da un lato gli interessi economici, e dall’altro il rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento, come il diritto di uguaglianza e, più in generale, i diritti sociali. L’elemento di maggiore peculiarità risiede nel fatto che nella maggior parte dei casi, le norme sottoposte a giudizio di costituzionalità sono attuative di accordi sovranazionali e, dunque, il carattere “esterno” di queste previsioni normative potrebbe rappresentare un freno al sindacato di costituzionalità. Nel caso portoghese, tale carattere è stato volontariamente ignorato e, per ciò stesso, il Tribunale si è distinto nel panorama europeo per aver risposto con rapidità alle richieste di un giudizio di costituzionalità relativo alla misure adottate per far fronte alla crisi. In altre parole, il Tribunale portoghese ha riaffermato la sua piena legittimità a vigilare sul rispetto della Costituzione, anche in caso di norme esterne nate per far fronte ad una crisi finanziaria senza precedenti. La Corte, dunque, non abbandona il suo ruolo, non si lascia intimidire dalla Troika, anzi sottolinea che il Trattato di Lisbona e, dunque, l’Unione Europea ha ribadito a chiare lettere il rispetto per le peculiarità nazionali e neanche la crisi economica può far cadere nel dimenticatoio una promessa di tale portata. Dunque, austerity si, ma con i dovuti accorgimenti, meglio, con le cautele imposte dai principi supremi costituzionali e dai diritti inviolabili.

La sentenza, per quanto non lo si affermi esplicitamente, pare utilizzare i principi e i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione come limite alla supremazia del diritto europeo. Nulla di nuovo, verrebbe da dire allo studioso quanto al lettore; del resto i “controlimiti” li avevamo già “scoperti” a partire dagli anni Sessanta, ma vi è qualcosa in più in questa sentenza, poiché traspare una tensione crescente, un tempo solo ipotizzata in Portogallo, ma non è ancora tutto. Tale tensione è resa ancora più forte dalla inderogabilità nella protezione  che il Tribunale costituzionale assegna ai diritti sociali e che ciò vada a scontrarsi apertamente con le misure che il Governo portoghese aveva concordato con gli organismi sovranazionali, aventi come priorità il rientro del debito sovrano ed il rispetto dei parametri di politica economico-finanziaria imposti dalla Troika e che, peraltro, erano dirette ad ottenere in cambio i prestiti internazionali per l’anno in corso. Audacia e lungimiranza, dunque, ma, soprattutto, lucidità nell’affermare la volontà di essere membro d’Europa, accettando anche gli oneri che derivano da tale appartenenza, ma ciò, secondo il Portogallo, mai può tradursi nella pericolosa sottomissione delle regole fondamentali costituzionali agli accordi sovranazionali, perché da ciò deriverebbe la negazione della sovranità e la perdita stessa del potere di concludere accordi. Tuttavia, preme sottolineare, altresì, che la sentenza è un forte monito, ma non all’Unione o, quantomeno, non soltanto ad essa, poiché tale pronuncia ha un duplice volto e, di conseguenza, una duplice valenza, interna ed esterna. Da un lato, quello interno, il Tribunale “rimprovera” al legislatore di aver legiferato ledendo la Costituzione nel rendere esecutivi gli accordi conclusi a livelli internazionale; sul versante esterno, il Portogallo ribadisce la volontà incondizionata d’essere membro d’Europa, ma anche tale ordinamento si spinge a dire che lo sarà fintanto che.

Non sono, tuttavia, in numero esiguo coloro i quali hanno accolto con stupore l’audacia della Corte portoghese, ma, probabilmente, ciò è ascrivibile alla infondata tendenza a vedere i controlimiti circoscritti in talune aree d’Europa, quelle “sovraniste” o quelle che all’Unione hanno dato vita. Eppure nel Paese che visse sotto Salazar la Costituzione parla a chiare lettere di una sovranità che nulla ha da “ammirare” all’est Europa. Era solo questione di tempo, dunque, si trattava solo di aspettare che l’UE scoprisse il fianco affinché il Portogallo sfoderasse l’arma dei controlimiti? Sembrerebbe, piuttosto, che questi erano già ben delineati, messi semplicemente a tacere dall’europeismo, ma il Tribunale non poteva restare in silenzio di fronte alla lesione delle “zone intangibili” della Costituzione, in questo caso, i diritti fondamentali. Peraltro, tale opera di affermazione dei controlimiti ha, come si accennava, una peculiarità di rilievo: il Tribunale lancia il suo avvertimento, sulla scia delle storiche sentenze italiane emesse a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, a due legislatori, interno ed esterno, sostenendo che nulla può giustificare lesioni di talune parti della Costituzione. Tuttavia, il Tribunale costituzionale portoghese si destreggia meglio di altri nel tortuoso cammino dell’affermazione dei controlimiti: si alle misure d’emergenza, ma l’uguaglianza ed i diritti sociali non possono essere sacrificati sull’altare dei piani di rientro, di austerity o su quello del Fiscal compact, quasi a dire che la crisi economica ce la lasceremo alle spalle, la Costituzione deve restare pietra miliare.

Seppure appare impossibile fare previsioni sul futuro, è impensabile che la portata della pronuncia resti circoscritta all’interno dei confini portoghesi, poiché altre corti europee stanno confrontandosi con le stesse problematiche e la pronuncia portoghese segna innegabilmente un punto fermo per le corti europee.


Il diritto a rifiutare le cure mediche nell’ordinamento italiano con particolare riferimento ai casi Welby ed Englaro: un tacito riconoscimento?

Il dibattito nato attorno al diritto del paziente a non sottoporsi alle cure mediche e, in taluni casi, come conseguenza, il diritto a morire (meglio, lasciarsi morire), riposa su un quadro normativo preesistente alla questione e, per ciò stesso, destinato a subire interpretazioni tali da rendere ammissibile il diritto in questione. La legislazione in materia, in effetti, non perseguiva il fine di riconoscere tale diritto al singolo; si pensi all’art. 32 Cost., probabilmente nessuno poteva supporre che da quella lettera poteva desumersi anche una sorta di diritto negativo, tale da consentire all’individuo di lasciar sopraggiungere la morte per malattia, pretendendo dai medici il rispetto della propria volontà a non essere sottoposto a cura alcuna. Tuttavia, se pure è il dettato costituzionale ciò che maggiormente ci interesserà, non si possono tralasciare le norme interne che a tale disposizione fanno, in qualche maniera, da “cornice” e, lette nel loro insieme, danno la misura del perché sia così difficile nell’ordinamento italiano indurre un legislatore a mettere fine a quella querelle che vede contrapporsi giudicati e posizioni dottrinali.

Partendo dal codice penale, in effetti, ciò che appare immediatamente inequivoco è la sua marcata filosofia di fondo, improntata al valore della indisponibilità della vita umana, un valore o, meglio, il valore che prevale di fronte al diritto all’autodeterminazione individuale.  Sono molti, in effetti, gli articoli del codice penale che possono entrare in gioco nella valutazione delle decisioni mediche relative al fine vita. L’articolo 40, in primo luogo, poiché esso stabilisce che “non impedire un evento, che si ha l’obbligo di impedire, equivale a cagionarlo”. In base a questo articolo, e considerato il fatto che il dovere professionale del medico è quello di salvare la vita ai pazienti, si desume, dunque, che, lasciare morire un paziente, su richiesta del paziente stesso, equivarrebbe al reato di omicidio del consenziente, anch’esso disciplinato dal codice. L’articolo 54 stabilisce, inoltre, che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona”. Articolo, quest’ultimo, probabilmente più dibattuto del precedente art. 40, poiché esso viene spesso invocato per giustificare il mancato rispetto della volontà di pazienti in pericolo di vita, che vengono sottoposti a terapie d’emergenza contro la loro volontà: si pensi ai Testimoni di Geova sottoposti a trasfusioni di sangue, giustificate, appunto e, malgrado il loro credo glielo impedisca, da situazioni di urgenza. Vi sono poi gli articoli 575-576-577-579-580 c.p., che si riferiscono al reato di omicidio nelle sue varie

tipologie e circostanze aggravanti. Tuttavia, a noi interessano gli articoli 579 del codice penale, relativo alla punizione dell’omicidio del consenziente, nella cui fattispecie rientra l’eutanasia e l’articolo 593, che condanna l’omissione di soccorso, reato nel quale può incorrere il medico che assiste, senza intervenire, alla morte di un paziente a cui, per esempio, è stato staccato il respiratore automatico, oppure il sondino nasogastrico per l’alimentazione artificiale. Il codice civile si colloca nella medesima prospettiva, atteso che il suo art. 5 stabilisce che “gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume”. Secondo tale disposizione, dunque, non solo non ci si può lasciar morire, ma non ci si può nemmeno menomare, tanto che, per rendere operativa la legge sulla donazione di organi da vivente si è dovuta fare un’eccezione all’articolo 5 del c.c., atteso che privarsi di un organo equivale a menomarsi, secondo tale lettera.

Basando, dunque, l’intero ragionamento su tali disposizioni sembrerebbe conseguente la condanna e la negazione del diritto a rifiutare le cure mediche, ma, dicevamo, questa è “solo” la cornice, poiché la fonte suprema dell’ordinamento non segue tale scia, non soltanto perché è temporalmente successiva ai Codici, ma, in particolare, perché si tratta di una Carta garantista, improntata sulla tutela dell’individuo e dei suoi diritti. Proprio per tale ragione, il principio dell’assoluta indisponibilità della vita e del proprio corpo diviene più flessibile, tanto da divenire tutela del diritto alla salute, ma, altresì, diritto negativo, poiché la Repubblica si preoccupa di garantire le cure mediche, ma l’elemento, in qualche misura, rivoluzionario si rintraccia nel secondo comma dell’art. 32 Cost., secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, precisando che “la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto per la dignità umana”. La svolta è di grande rilievo, perché si passa da un impianto normativo improntato essenzialmente sul principio di indisponibilità della vita, ad un nuovo impianto, capace di accogliere le istanze del principio dell’autodeterminazione individuale. I Padri costituenti sono stati influenzati, senza dubbio, dall’approvazione, proprio in quegli anni, del Codice di Norimberga, che riconosce il diritto a rifiutare le cure, tuttavia pare assai riduttivo ascrivere la volontà ad una mera ispirazione “esterna”; piuttosto pare che l’Assemblea Costituente si sia volontariamente orientata all’accoglimento delle garanzie per i diritti, anche quello a rifiutare le cure mediche. È fuori da ogni dubbio che in quel momento si potessero conoscere i passi in avanti che la scienza avrebbe compiuto o che l’art. 32 Cost. avrebbe un giorno aperto il dibattito sul fine vita, tuttavia l’impianto basato sulla volontà e l’autodeterminazione del singolo che la Costituzione accoglie apre, ad oggi, problematiche di estremo rilievo, concedendo, a chiare lettere, la possibilità di rifiutare le cure mediche all’individuo.

È proprio all’interno (o a causa) di tale “dubbio normativo” che la dottrina si spacca nell’interpretazione del dettato costituzionale; secondo taluni, il limite della dignità umana si tradurrebbe nella indisponibilità della vita e, dunque, nella conseguente impossibilità per il paziente di rifiutare le cure mediche o lasciarsi morire. Secondo altra parte della dottrina, la dignità umana viene sacrificata nel momento in cui l’individuo non è più cosciente,  incapace di intendere e volere, di nutrirsi da solo, di condurre una vita, appunto, dignitosa. Peraltro, la Costituzione parla di un diritto alla salute, ma se tale diritto, per malattia, non può più essere garantito perché la salute stessa si traduce in mera sopravvivenza grazie al supporto di strumenti medici, la volontà del paziente espressa o desunta dal suo stile di vita condotto precedentemente deve essere rispettata dal medico attraverso la sospensione delle cure.

Appare, in seconda battuta, impossibile negare quanto stabilito dalla Convenzione di Oviedo, ratificata dall’Italia nel 2001, e secondo la quale il rifiuto delle cure mediche è un diritto inviolabile del singolo. Tuttavia, l’entrata in vigore di tale strumento normativo è, ancora ad oggi, impedito dal mancato deposito della ratifica da parte dell’Italia.

È evidente che all’interno di un siffatto quadro normativo, in cui le norme si pongono marcatamente in contrasto tra loro ed il legislatore non interviene, è la giurisprudenza ad assumere un ruolo fondamentale, in particolare quella relativa a due casi concreti, Welby ed Englaro. Preme, altresì, precisare che le Corti, per quanto autorevoli, non possono (e non devono) sostituirsi al legislatore, divenendo dei “legislatori permanenti” o, nel caso della Corte costituzionale, un potere costituente permanente. Tuttavia, l’interpretazione che le Corti danno del quadro normativo esaminato apre uno spiraglio al diritto al fine vita e al rifiuto delle cure mediche. L’elemento singolare è che ciò avviene a contrario, ovvero la giurisprudenza non sanziona il diritto al rifiuto delle cure mediche ed il fine vita, parlando di diritto all’autodeterminazione, causando, in tal modo, una sorta di tacito riconoscimento del diritto stesso.

In particolare, ciò è evidente nei giudicati relativi al caso Welby, un caso estremamente particolare, come quello Englaro, poiché in tale caso la volontà del paziente, peraltro espressa grazie a dispositivi tecnologici, è inequivocabile. Piergiorgio Welby, affetto da distrofia scapolo-omerale, patologia classificata dalla letteratura medica come degenerativa dei muscoli scheletrici, ereditaria e lentamente progressiva, chiede, ancora capace di intendere e volere, di non essere sottoposto ad alcuna terapia medica, in particolare, chiede alla moglie di non chiamare i soccorsi in caso di crisi respiratoria. Tuttavia, la donna, dinanzi all’evento non trova il coraggio di rispettare la volontà del marito, al quale viene praticata una tracheotomia d’emergenza con conseguente necessità di supporto artificiale per la respirazione. La malattia di Welby, degenerativa appunto, lo costringe ben presto a non poter più camminare, comunicare attraverso la parola, nutrirsi, tanto da indurre l’uomo a chiedere la sospensione delle cure mediche, invocando il suo diritto a farlo, ovvero ad autodeterminarsi ed a disporre della propria vita. Tuttavia,  il medico curante rifiuta di staccare la ventilazione artificiale ed il paziente si vede costretto, dopo una lettera al Presidente della Repubblica, a rivolgersi alla magistratura, attraverso un “ricorso d’urgenza volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale” risalente al 28 novembre 2006. Nel ricorso i legali di Welby evitano di usare il termine “eutanasia”, che, al contrario, il paziente aveva usato nella lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, in modo da fare apparire la richiesta come un semplice rifiuto delle cure, fondato sull’articolo 32 della Costituzione italiana. Il giudice, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2006, dichiara il ricorso di Welby inammissibile, ma compie un piccolo passo in avanti verso il riconoscimento del diritto del paziente a rifiutare le cure, atteso che nell’ordinanza viene riconosciuta l’esistenza di un diritto soggettivo, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, di richiedere l’interruzione della terapia medica, ma lo ritiene, al contempo, privo di tutela giuridica. La legislazione positiva, osserva il giudice, è, infatti orientata in senso contrario, richiamando l’articolo 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e gli articoli 575, 576, 577, 579, 580 del codice penale, che puniscono l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Manca, secondo il giudice, nel sistema giuridico italiano una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico. Il magistrato, dunque, riassume lucidamente il contesto normativo relativo al fine vita, ma sottolinea che è vero, l’art. 32 Cost. pone un diritto positivo per il singolo, il diritto a rifiutare le cure mediche, ma non trovando legislazione in materia, il giudice è costretto a fare un passo indietro, ammettendo la marcata antinomia normativa su tale materia. Probabilmente, il magistrato avrebbe potuto risolvere il contrasto normativo, atteso che si trovava di fronte ad un dettato costituzionale, tuttavia l’assenza di una disciplina in tale ambito gli faceva ritenere che ciò non era possibile per via giudiziaria, ovvero ammetteva che il giudice ed il legislatore sono due entità separate e che il primo non può sostituirsi al secondo.

Malgrado la negazione, Welby continua a sostenere l’esistenza di un diritto all’autodeterminazione, tanto che, data l’impossibilità di staccare il respiratore con l’assenso del giudice, il paziente decide di procedere comunque, avendo trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze. Il medico, dott. Mario Riccio, si reca presso l’abitazione di Welby il giorno 18 dicembre 2006, per accertare l’evoluzione della patologia e per raccogliere le volontà del paziente, che conferma, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale . Due giorni dopo il medico procede prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico. La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiunge nell’arco di mezz’ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una grave insufficienza respiratoria, causata dalla malattia, la distrofia scapolo-omerale progressiva. È proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al riconoscimento del diritto in questione. Probabilmente, dato il risalto mediatico, ci si aspettava la dura condanna di un medico che ha aiutato un paziente a morire, ha omesso il soccorso quando è sopraggiunta la crisi respiratoria, dando, tuttavia, priorità alla volontà del paziente. In effetti, attesa la legislazione esaminata e il parere contrario della magistratura, tutto faceva ritenere che il dott. Riccio sarebbe stato condannato. Tuttavia, il primo esame che si apre sul comportamento del medico è quello dell’Ordine dei medici di Cremona, a cui Riccio appartiene; gli elementi presi in considerazione sono due, da un lato la volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” e “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”; dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e  che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”. Per questi motivi la Commissione disciplinare dell’ordine dei medici di Cremona dispone l’archiviazione del caso, tramite un provvedimento datato 1 febbraio 2007.

Un secondo esame viene condotto, in sede penale, dalla Procura della Repubblica di Roma, con un esito molto simile a quello dell’ordine dei medici, con richiesta di archiviazione del caso. La conclusione si basa sull’esito della consulenza medicolegale, che esclude qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente, indicando quale unica causa di morte l’insufficienza respiratoria relativa alla malattia. Tuttavia, la richiesta di archiviazione, avanzata dal sostituto procuratore viene respinta dal giudice per le indagini preliminari di Roma che richiede il rinvio a giudizio per il medico Riccio, reo, secondo il GIP, di aver commesso omicidio del consenziente, reato previsto dall’articolo 579 del codice penale, che contempla la reclusione fino a 15 anni.

Il procedimento, tuttavia, si conclude nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del medico; in effetti, il giudice per l’udienza preliminare di Roma, attenendosi al dettato costituzionale, mette in luce che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, riferendosi, peraltro all’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile”, desumendo da ciò il diritto all’autodeterminazione del paziente e sovvertendo le motivazioni del GIP, facendo notare che la gerarchia delle fonti del diritto vede, comunque, la prevalenza del Testo costituzionale, ovvero di un dettato improntato al rispetto delle volontà del paziente e al diritto a disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche. La sentenza di assoluzione rileva, inoltre, che il diritto al rifiuto delle cure è confermato anche dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo, che, “sebbene non ancora in vigore nel nostro ordinamento, vale comunque quale criterio interpretativo per il giudice, in quanto enuncia principi conformi alla nostra Costituzione”. Il giudice, Zaira Secchi, al contrario di quello che rifiutò l’istanza di Welby, mette in luce, inoltre, che, si, non esiste legislazione in materia, ma vi è un dettato costituzionale, peraltro interpretato dalla Corte attraverso una giurisprudenza costante. È, dunque, in questa fase che viene in rilievo, quale causa giustificativa dell’assoluzione, la giurisprudenza della Consulta, in particolare le pronunce nn. 45/65, 161/85, 471/90, 238/96, nelle quali si afferma che il diritto al rifiuto delle cure è un “diritto inviolabile della persona, immediatamente precettivo ed efficace nel nostro ordinamento, rientrante tra i valori supremi tutelati a favore dell’individuo”. Il giudice riconosce, come da richiesta di rinvio a giudizio, che il comportamento del dott. Riccio rientra nella norma che punisce l’omicidio del consenziente (art. 579 del codice penale), ma osserva, altresì che la condotta del medico si è realizzata nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti. Per tali motivazioni, il dott. Riccio risulta non perseguibile, secondo la sentenza, perché ha adempiuto ad un dovere e, in quanto tale, rientra nella causa di non punibilità, così come stabilisce l’articolo 51 del codice penale.

Il caso Welby mette in luce degli elementi fondamentali, poiché, da un lato, nell’iter giudiziario del caso, si nota come un magistrato abbia chiaramente messo in luce l’innegabile vuoto normativo dell’ordinamento italiano; dall’altro, la sentenza che assolve il medico evidenzia l’esistenza del diritto a rifiutare le cure mediche, poiché esso non ha bisogno di una norma, è direttamente operativo in quanto diritto costituzionalmente garantito. Si tratta della visione del giudice Secchi, il quale smentisce, o meglio, smonta, la tesi precedentemente sostenuta relativa al vuoto normativo, dicendo che non vi sono norme attuative dell’art. 32 Cost., ma vi è non solo il dettato costituzionale, ma costante giurisprudenza della Corte costituzionale. Due visioni diametralmente opposte, dunque, ma entrambe veritiere, poiché il vuoto normativo, non ancora colmato, rende più difficile la risoluzione dei casi relativi al fine vita, a meno che non si faccia diretto riferimento alla Costituzione, ma ciò, preme sottolinearlo, nel caso Welby è stato, in qualche misura più semplice, poiché vi era la volontà non equivocabile del paziente.

Il caso Englaro, in effetti, apre nuovi e diversi scenari, poiché la volontà poteva solo essere desunta dalla vita condotta dalla paziente prima dell’incidente che l’aveva ridotta in stato di coma irreversibile e permanente, definito, sovente, in letteratura medica come “stato vegetativo”. La paziente, nutrita con sondino nasogastrico, respirava in maniera del tutto autonoma, tuttavia non era capace di intendere e volere, tanto che nel 1999 inizia la battaglia legale di Beppino Englaro, padre di Eluana, per poter sospendere l’alimentazione della paziente. Il caso, però, è molto più complesso di quello Welby, giacché l’applicazione dell’art. 32 Cost. diviene pressoché impraticabile, atteso che la paziente, caduta in coma all’età di vent’anni, non aveva la possibilità di esprimere la propria volontà. Peraltro, Eluana non era attaccata ad un dispositivo medico per la ventilazione artificiale, dunque ci si domandava se la mera nutrizione del paziente che, pur essendo in coma irreversibile, respira, sia da considerarsi come “cura medica” e per ciò stesso ricadente nella fattispecie indicata dall’art. 32 Cost. Siffatte argomentazioni, nel 1999, inducono il Tribunale di Lecco a respingere la richiesta di Beppino Englaro di lasciar morire la figlia, poiché il supporto alla nutrizione non viene visto come una cura medica. Il caso è molto più particolare del precedente, atteso che il padre di Eluana induce a ragionare sul concetto di dignità umana, sostenendo che quella vita a cui la figlia era stata costretta per una mera fatalità era lesiva della dignità umana, visto che la ragazza non aveva possibilità alcuna di condurre un’esistenza normale. Il dibattito attorno al caso si apre ben presto, poiché il concetto richiamato da Beppino Englaro scuote le coscienze, rientra, senz’altro in un ambito privato, ma impone una domanda, cos’è la dignità umana, quando viene violata e, soprattutto, può essere motivo per sospendere l’alimentazione artificiale? Si diceva precedentemente che parte della dottrina invoca tale concetto come elemento ostante al diritto all’autodeterminazione, ma altra parte, ritiene che la mera sopravvivenza non è dignità.

Beppino Englaro è convinto che Eluana non avrebbe voluto vivere in questo stato e nel 2003 presenta nuovamente la richiesta di sospensione dell’alimentazione artificiale per la figlia, prontamente respinta dalla Corte d’Appello, poiché non considerata “cura medica”. L’uomo, tuttavia, non demorde, continuando a sostenere che il coma irreversibile è lesivo della dignità della figlia, mentre la morte potrebbe restituirgliela. Nel 2007 si pronuncia, dunque, la Corte di Cassazione, tramite la sentenza numero 21748/2007, con la quale rinvia di nuovo la decisione alla Corte d’Appello di Milano, sostenendo che il giudice può autorizzare l’interruzione delle cure o dell’alimentazione artificiale in presenza di due circostanze concorrenti: in primo luogo, occorre che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”. In secondo luogo, la Corte sostiene che è necessario, altresì “che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle

sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona”. È proprio la seconda causa quella fondamentale ai fini di un’analisi giuridica, poiché la volontà diviene, in ogni caso, elemento imprescindibile e collega il caso Welby a quello Englaro, ma compie un notevole passo in avanti, atteso che la Cassazione si riferisce ad un paziente incapace di intendere e volere, le cui volontà devono essere desunte dallo stile di vita condotto in precedenza dal paziente, dalle sue eventuali dichiarazioni, ponendo fine in tal modo alla querelle dottrinaria relativa al concetto di dignità umana. In effetti, la Cassazione, sposta il focus della questione, non è rilevante se sia dignitoso o meno vivere in quelle condizioni, giacché ciò rientra irrimediabilmente in convinzioni personali, quello che rileva è, ancora una volta, la volontà del paziente, desumibile, secondo la Corte, dalla personalità dello stesso, chiamando in causa, perciò, coloro che conoscevano il paziente, come è avvenuto nel caso Englaro, in cui non soltanto i familiari della ragazza hanno testimoniato l’inequivocabile volontà di Eluana di lasciarsi morire in siffatte condizioni, ma lo hanno fatto anche coloro che la conoscevano, portando alla luce commenti e convinzioni della paziente allorquando a cadere in coma irreversibile fu una persona di sua conoscenza. Il 9 luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano riesamina la vicenda alla luce di tali dichiarazioni e autorizza il padre, Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzata che mantiene in vita la figlia Eluana.

La  vicenda, tuttavia, non si conclude quel giorno, poiché il 16 luglio 2008 Camera e Senato sollevano un conflitto di attribuzione contro la Cassazione, ritenendo che la sentenza dell’ottobre 2007 costituisce “un atto sostanzialmente legislativo, innovativo dell’ordinamento normativo vigente”, cosa che spetta solo al legislatore, che può tenere conto della volontà popolare, essendo organo elettivo. Un simile conflitto di attribuzione non ha precedenti nella storia della Repubblica, tanto che per dirimerlo è stata chiamata la Corte costituzionale, la quale nell’ottobre 2008 si pronuncia a favore della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano, ritenendo che la sentenza in questione non sia affatto innovativa di un ordinamento basato su una Costituzione che garantisce il diritto di rifiutare le cure mediche e il rispetto della volontà del singolo. Il caso, però, continua a toccare le coscienze non solo della gente, ma anche di un Governo, fin troppo ideologicamente orientato, che il febbraio 2009 approva con urgenza un decreto legge per evitare la sospensione di alimentazione e idratazione dei pazienti in stato vegetativo, ma il Presidente della Repubblica rifiuta di firmare il decreto definendolo palesemente incostituzionale. Alle ore 20 dello stesso giorno e malgrado il monito del Presidente della Repubblica, il Consiglio dei Ministri si riunisce in una sessione straordinaria per dar vita ad un disegno di legge con gli stessi contenuti del decreto precedente; il lunedì 9 febbraio 2009, nonostante il Senato osservi la chiusura in quel giorno, si riunisce ugualmente per discutere del disegno di legge n. 1369. Quello stesso giorno, nella serata, arriva la notizia della morte di Eluana, alla quale erano state progressivamente sospese alimentazione e idratazione a partire dal 6 febbraio. Il Governo ritira il disegno di legge e si ripropone di ridiscutere in maniera più dettagliata di disposizioni in materia di fine vita e testamento biologico, proposito, ad oggi, disatteso.

Come si accennava, ciò che appare chiaro nell’ordinamento italiano è il timore del legislatore di intervenire e colmare il vuoto normativo relativamente a questo tema, il che induce, in maniera diretta, il potere giudiziario a fare le sue veci, ma attraverso un impianto normativo già del tutto in grado di riconoscere il diritto al fine vita. Ciò significa che una norma non si porrebbe in contrasto con la legislazione interna se fosse in grado di conciliare i Codici e la Costituzione, per non spingersi oltre, ovvero verso l’auspicio della revisione dei Codici stessi. Si tratta di una situazione quantomeno singolare, atteso che il legislatore interviene per lamentare conflitti di attribuzione, ma non si adopera perché a tali conflitti si possa porre fine in maniera definitiva, eppure potrebbe farlo.

In effetti, il punto di partenza è costituito dall’art. 32 Cost., grazie al quale il legislatore potrebbe intervenire attraverso una norma relativa al fine vita ed al testamento biologico, atteso che tanto per la lettera, quanto per l’interpretazione di questa, il concetto fondamentale riposa sull’impianto volontaristico della persona. In effetti, la salute, come afferma il primo comma del suddetto articolo, è senza dubbio un dovere civico, ma il secondo comma sostiene, altresì, che imporre le cure mediche equivale ad una sorta di violenza perché in contrasto con la volontà dell’individuo. Il secondo comma dell’articolo 32 e l’articolo 13 della Costituzione tutelano, dunque, un diritto fondamentale dell’individuo, che è uno dei capisaldi delle costituzioni liberali e che risale all’Habeas corpus, riconosciuto già nel 1215 dalla Magna Charta Libertatum, secondo la quale l’individuo ha disponibilità totale del proprio corpo. Nessuno, fatto salvo un giudice, che ritiene violata una legge, può privare un cittadino del potere sul suo corpo attraverso la detenzione o, in taluni ordinamenti, la pena di morte.

Ciò che appare auspicabile è l’intervento di una legge in grado di coniugare la salute come interesse collettivo e la volontà del paziente di rifiutare le cure mediche. Non appare affatto un’impresa titanica, atteso che il legislatore avrebbe dalla sua parte il Testo costituzionale, in base al quale una legge sul testamento biologico potrebbe trovare fondamento. Tuttavia, casi come quello Englaro non rientrerebbero in una simile fattispecie, per cui il legislatore, tenendo conto della giurisprudenza in materia, dovrebbe codificare quanto la Cassazione ha sottolineato e la Corte costituzionale “ratificato”: l’ordinamento italiano riconosce il diritto a rifiutare le cure mediche e a lasciarsi morire, lo fa in maniera tacita, o, meglio, nella speranza che a tale diritto dia voce il legislatore, senza lasciare più l’arduo compito alle Corti.


L’ULTRA-VIRES-KONTROLLE VISTO DALL’EST: L’ATTUAZIONE “DEGENERATIVA” DELLA DOTTRINA TEDESCA

Con la sentenza Pl.ÚS 5/12 la Corte Costituzionale Ceca ha dichiarato ultra vires la sentenza della Corte di Giustizia sentenza C-399/09 Landtová, sostenendo che tale pronuncia si spingesse ben oltre le competenze cedute dalla Repubblica Ceca all’Unione Europea. In particolare, il Giudice delle leggi lamentava una violazione delle competenze relative alla materia previdenziale, le quali, secondo la Corte, non erano mai state cedute all’Unione. Tuttavia, il controllo ultra vires degli atti comunitari non nasce con questa pronuncia e (probabilmente) non trova neanche la sua corretta attuazione, atteso che la genesi di tale dottrina trae le proprie origini dalla giurisprudenza tedesca, senza dubbio molto più “aperta” al diritto dell’Unione Europea e, sicuramente, più attenta alle conseguenze di un siffatto controllo.
La pratica dell’Ultra-vires-Kontrolle è stata elaborata, per la prima volta, dal Tribunale costituzionale tedesco, nella sentenza del 6 luglio 2010, con la quale è stato operato un il controllo sugli atti dell’Unione sospettati di essere stati adottati ultra vires. La richiesta all’origine della pronuncia chiamava il supremo giudice tedesco a verificare se la sentenza della Corte di giustizia nel caso Mangold (causa C-144/04, 22 novembre 2005) fosse stata resa ultra vires. I fatti che precedono tale pronuncia vedono una società concludere contratti di lavoro a tempo determinato con soggetti di età superiore ai 52 anni di età, possibilità espressamente prevista dalla legge tedesca relativa al lavoro a tempo determinato. Tale disposizione, tuttavia, giunta dinanzi al giudizio della Corte di Giustizia, veniva dichiarata in aperto contrasto con il diritto UE, in particolare, con il principio di non discriminazione in base all’età. Il giudizio della Corte di Giustizia, tuttavia, appariva essere stato emesso in violazione delle competenze cedute dallo Stato all’UE, ovvero ritenendo che l’attività della Corte avesse ecceduto le proprie competenze. Partendo da tale presupposto, il Tribunale costituzionale tedesco adotta la sentenza in esame, attraverso la quale non solo si preoccupa di mettere in pratica il controllo sugli atti ultra vires, ma chiarisce, altresì, le modalità del controllo stesso. In primo luogo, il Tribunale ribadisce che la possibilità di effettuare il controllo ultra vires si fonda sul principio delle competenze di attribuzione. In altri termini, l’Unione è una Comunità di diritto, le cui competenze sono quelle attribuite dai Trattati, quindi dagli Stati membri; l’estensione di tali competenze può derivare solo dalla revisione dei Trattati da parte degli Stati membri. Il Tribunale, sapientemente, ammette che se ogni Stato membro si arrogasse il diritto di decidere sulla validità degli atti dell’Unione, il principio del primato del diritto UE  e la sua uniforme applicazione verrebbero meno; ma, al contempo, ribadisce che ciò non determina affatto la rinuncia degli Stati membri a presidiare il rispetto, da parte dell’Unione, delle proprie competenze, atteso che ciò si concretizzerebbe nell’affidare ai soli organi dell’Unione il controllo sul rispetto della competenze cedute, correndo il rischio di trovarsi di fronte ad una modifica tacita dei Trattati. Viste tali precisazioni, il Tribunale tedesco, ribadisce la propria fedeltà al principio del primato del diritto dell’Unione, precisando che l’Ultra-vires-kontrolle deve essere effettuato in modo deferente e secondo un criterio di favor per il diritto dell’Unione europea. In effetti, il Tribunale precisa che, nell’effettuare il controllo, il giudice supremo deve considerare vincolanti le decisioni della Corte di Giustizia. In altre parole, non si potrà procedere al controllo ultra-vires su un atto dell’Unione se alla Corte di Giustizia non è stata concessa  la possibilità di pronunciarsi sull’atto in questione. Il Tribunale tedesco ha, poi, precisato che il controllo ultra-vires può essere esercitato solo laddove sia evidente il rischio che l’atto ecceda le competenze attribuite agli organi dell’Unione. Secondo il Tribunale, dunque, l’atto dell’Unione è ultra vires quando ha come effetto quello di determinare una significativa modifica relativamente alla ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri.
Tale competenza, affermata per la prima volta nella pronuncia Maastricht Urteil, è stata successivamente ribadita nella Lissabon Urteil del 2009. Tuttavia, il Tribunale costituzionale tedesco è tornato sulla questione nel 2010, con la sentenza Honeywell; una pronuncia particolarmente attesa, poiché avrebbe potuto aprire conflitti insanabili tra la Germania e l’UE, viste le premesse della sentenza Lisbona, ma il Tribunale costituzionale tedesco ha preferito riprendere e precisare la dottrina già espressa nella precedente sentenza Mangold. La pronuncia Honeywell, in effetti, mette in luce la volontà del Tribunale di Karlsruhe di non alimentare i conflitti con l’Unione Europea; ciò emerge, in particolare, dalla riaffermazione di come la prevalenza del diritto dell’Unione sia fondata sulla necessità che esso operi in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, e come questo elemento di supremazia sia compatibile con l’art. 23 LFB. Tale supremazia, peraltro, non è assoluta e, come chiarito nella sentenza Lissabon-Urteil, il Tribunale costituzionale ha il  diritto-dovere di vigilare sugli atti dell’Unione che appaiano adottati in eccesso dei poteri conferiti dai trattati.
L’opera di controllo, tuttavia, deve svolgersi in accordo con la Corte di Giustizia, nell’intento di preservare la coerenza e l’uniformità del diritto dell’Unione. Ciò, di conseguenza comporta che il Tribunale tedesco non possa dichiarare  ultra vires un atto dell’Unione prima di aver sollevato una questione pregiudiziale ex art. 267 TUE, così da dare alla Corte di Giustizia un’ultima possibilità di interpretare in maniera corretta l’atto in esame. Peraltro, le dichiarazioni ultra vires devono limitarsi alle sole situazioni in cui la lesione del riparto delle competenze pattuito sia sufficientemente grave, concedendo all’UE un margine di tolleranza, ovvero escludendo la possibilità di intervenire in situazioni de minimis.
Ciò detto, è difficile non notare le differenze nette tra la dottrina Mangold, che pure ammette la dichiarazione ultra vires degli atti UE, e la pratica messa in atto nella Repubblica ceca. In effetti, ciò che differenzia i due punti di vista risiede nella mancanza, per la Corte di Brno, della fase della conciliazione, ovvero quella che precede la dichiarazione ultra vires dell’atto dell’Unione e che dovrebbe vedere il dialogo entro la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale che si accinge a sottoporre l’atto comunitario a controllo.
La fase della conciliazione, nel caso della Repubblica ceca, viene sopperita da una lettera della Corte costituzionale alla Corte di Lussemburgo, che non ha mai ricevuto risposta, atteso che la questione riguardava un caso sottoposto al Giudice comunitario e che il Giudice delle leggi ceco era, nel caso di specie, innegabilmente un soggetto non rientrante nella controversia, con il quale non era, dunque, ammissibile alcun dialogo.
Invero, appaiono necessarie talune specificazioni, poiché i controlimiti e la dichiarazione ultra vires non coincidono affatto, ma, nel caso di specie, tale distinzione tende a sfumare. In effetti, come si accennava, la Corte ceca aveva già avuto modo di specificare che per controlimite si intende, fra l’altro, il limite delle competenze cedute all’Unione; di conseguenza, l’eccesso di tali competenze avrebbe provocato un controllo dell’atto (o della sentenza) da parte della Corte costituzionale, la quale si era già riservata il potere di decidere in merito. Appare evidente che, nel caso specifico, la dichiarazione relativa all’eccesso di competenze è, senza dubbio, una specificazione (se non l’attuazione stessa) della dottrina Solange, atteso che la Corte ceca ha inteso la pronuncia della Corte di Giustizia come una ingiustificata ingerenza in competenze interne allo Stato che per nessuna ragione potrebbero essere cedute. Peraltro, il richiamo alla giurisprudenza tedesca non è null’altro che un appiglio, considerato che, come si diceva, il Tribunale costituzionale di Karlsruhe richiama la possibilità di dichiarare ultra vires una sentenza o un atto dell’Unione a talune condizioni, talmente stringenti da rendere pressoché impossibile tale possibilità. La Corte ceca, dunque, si rifà (sommariamente) alla giurisprudenza tedesca al solo scopo di trovare una giustificazione della sua posizione, richiamando la più autorevole voce degli Stati membri dell’Unione.
Vi è, quindi, da domandarsi quali saranno le reazioni dell’Unione Europea a siffatte argomentazioni, le quali, come si accennava, non sono improprie di per se stesse, dal momento che la Repubblica Ceca non è l’unica a sostenere la necessità che l’Unione non ecceda le proprie competenze, ma sono, senza dubbio, errate, quanto meno nella misura in cui vengono rese in violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale per le giurisdizioni di ultima istanza, ex art. 267 TUE, e perché non tengono conto delle competenze dell’Unione in materia di divieto di discriminazione in ragione della cittadinanza, invertendo bruscamente il cammino intrapreso dalla Corte di Brno.
In effetti, potrebbe (e dovrebbe) ipotizzarsi l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti della Repubblica Ceca, atteso che questa ha volontariamente ammesso che non darà attuazione alcuna alla sentenza della Corte di Giustizia, violando, palesemente, l’obbligo di conformarsi al diritto dell’Unione. Tuttavia, c’è da domandarsi se l’Unione Europea non deciderà di sacrificare sull’altare dell’art. 4 del Trattato di Lisbona siffatte argomentazioni, facendo un passo indietro, che, innegabilmente, palesa connotati nuovi, i quali inducono a domandarci quanta Europa c’è nella eventuale decisione di non aprire, nel caso de qua, una procedura di infrazione.


La teoria dei controlimiti a Brno: riflessioni a margine della sentenza della Corte costituzionale ceca che dichiara “ultra vires” una decisione della Corte di Giustizia

Dal punto di vista del diritto comunitario, la sentenza C-399/09 Landtová, pronunciata dalla Corte di Giustizia, non è stata che un caso ordinario, dal momento che essa viene resa come interpretazione del regolamento 1408/71 a seguito di un rinvio pregiudiziale, sollevato nell’ambito della controversia che ha visto contrapporsi la signora Landtová, cittadina della Repubblica ceca e residente in detto Stato membro, e la Česká správa sociálního zabezpečení (istituto di previdenza sociale ceco) relativamente all’importo della pensione di vecchiaia parziale concessale da quest’ultima. Solo un’analisi più attenta, in effetti, è in grado di cogliere la dimensione di interesse relativa a tale pronuncia, poiché il retroscena evidenzia un netto conflitto tra la Corte costituzionale ed il supremo giudice amministrativo della Repubblica Ceca.

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