Recensione a Giorgio Grasso, Il costituzionalismo della crisi, Editoriale Scientifica, Napoli, 2012

Il volume di Giorgio Grasso è, prima di tutto, un utile strumento per addentrarsi nelle complesse vicende che stanno plasmando il costituzionalismo, collegandolo a dinamiche sempre nuove di matrice principalmente economica. Il quadro viene ricostruito dall’Autore con spigliato rigore scientifico e l’analisi – nella sua completezza – ha il raro pregio di essere agile e scevra da ricostruzioni prolisse. Caratteristiche che ne rendono piacevole  e scorrevole la lettura.

Duplice è la prospettiva di esame. Da un lato, l’erosione di una  quota  di sovranità degli Stati da parte di centri di potere non facilmente individuabili con le ovvie implicazioni connesse al deficit democratico, dall’altro,  i  diritti fondamentali, intesi come limite estremo oltre il quale una democrazia costituzionale che vuole continuare a definirsi tale non può di certo spingersi.

Il pensiero di Grasso muove invero da considerazioni di diritto interno.  Vale a dire dalla ricostruzione dei rapporti ideologici sottesi alla nostra Costituzione recentemente messi magistralmente in luce da M. Luciani nella relazione Unità nazionale  e strutura economica al convegno AIC 2011. Da qui il dubbio che da impulso alla ricerca: «Possono la crisi finanziaria e/o la crisi economica piegare questo tipo di prospettiva verso una società che persegua diverse finalità e obiettivi? Possono i diritti sociali che stanno a corona di quella società venire ampiamente rimaneggiati perché, in ipotesi, condizionati da vincoli finanziari troppo stringenti, capaci di comprimerli sotto la soglia del livello di adeguatezza?»

Le risposte passano attraverso un’attenta analisi delle vicende dell’ ultimo triennio, strappi e accelerazioni dettati non solo dagli Stati e dalle istituzioni comunitarie, ma anche da altri influenti attori del villaggio globale.

Sotto la lente dell’Autore scorrono, in primo luogo, le agenzie di rating. Soggetti ancora troppo sfuggevoli nonostante gli sforzi del legislatore comunitario affinché il sistema degli outlook sui debiti pubblici non si presti a facili strumentalizzazioni dettate dai noti problemi di trasparenza, tempestività e governance. Agenzie incapaci di garantire la salvaguardia di un binomio quanto mai essenziale come quello che lega responsabilità e potere. Per unire questi due elementi,  l’autore suggerisce  la suggestiva ipotesi di una o più agenzie di rating, dotate di una spiccata connotazione pubblicistica del tutto simile a quella delle Agenzie amministrative europee. Tributarie di una responsabilità lato sensu politica  utile a ridurre la distanza tra i due elementi del binomio.

La lettura mostra poi i lati più critici dei fondi sovrani.  Strumento sintomatico di un ritorno dello “Stato padrone”, capace di investire i suoi sterminati surplus finanziari o di liquidità in asset strategici di altri Paesi,  contravvenendo la massima kantiana secondo la quale «nessuno Stato che sussista in modo indipendente deve poter essere acquistato da un altro Stato».  In tale contesto, la doppia natura economico-speculativa e politica dei fondi sovrani contribuisce ad «accerchiare ed erodere il potere sovrano statale». Quando infatti la dimensione squisitamente politica dei fondi sovrani prende il sopravvento su quella economico-speculativa, i principi generali della loro regolamentazione – usualmente rimessi alla cd. soft-law – perdono molto della loro già labile effettività, rendendo evidente la necessità di un sistema di norme giuridiche ad oggi in larga parte assente.

Questa vocazione all’influenza politica di uno Stato nei confronti di un altro ha il suo emblema nei rapporti di forza che sembrano sempre più accentuarsi nel Vecchio continente tanto da poter permettere una netta distinzione tra Stati “egemoni” e Stati “satelliti”.   In quest’ottica vengono dunque passati in rassegna: l’«attacco senza ostacoli alla sovranità statale» della Grecia; il tentativo di difesa della sovranità statale messo in atto dal quel laboratorio, pericolosamente silenzioso, che è stato l’Islanda nel corso degli ultimi anni; e la lettera spedita al Presidente del Consiglio dei ministri italiano il 5 agosto 2011 dalla coppia  Draghi-Trichet, lettera dal «metodo inaccettabile» e dal «merito (spesso) assai discutibile».

Quanto alle vicende greche – analiticamente ricostruite – l’autore mostra come queste abbiano effetti non più reversibili tanto sulla sovranità statale quanto nei sistemi di welfare.

Il caso Islandese, seppur nelle sue singolarità ben descritte nel volume, ha invece riportato a galla «le istanze più genuine della democrazia diretta, in potenziale concorrenza con una democrazia rappresentativa che sembra più incline a “sottomettersi” al primato dell’economia sulla politica e sul diritto».

Non meno rilevanti sul piano della sovranità e del rispetto del principio democratico sono le vicende connesse alla lettera che, il 5 agosto 2011, i “due” Governatori della Banca centrale europea hanno spedito alla Presidenza del consiglio dei ministri del nostro Paese.  Nella lettera, si ricorderà,  non venivano soltanto raccomandate alcune misure da intraprendere come, tra l’altro, la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali», il riordino del «sistema di contrattazione salariale collettiva», l’adozione di una «un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti». Ma venivano altresì individuate la modalità di introduzione di queste misure. Vale a dire decreti legge, accompagnati dalle rispettive leggi di conversione parlamentare. Veniva poi considerata l’opportunità di alcune riforme costituzionali capaci di «rendere più stringenti le regole di bilancio» e di impegnarsi per abolire o fondere «alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)» [i virgolettati si riferiscono alla lettera]. Il tutto entro la fine del settembre 2011. Condivisibile l’affermazione dell’autore secondo la quale la lettera – indirizzata al solo Presidente del Consiglio – ha avuto il non trascurabile effetto di svuotare il ruolo del Parlamento, ridotto a mero ratificatore di scelte adottate in altri luoghi. Disegnando «un tentativo di incidere sulla stessa forma di Stato e sul principio di appartenenza al popolo della sovranità, ai sensi dell’art. 1, comma 2 della Costituzione». Evidenti anche le ripercussioni sulla forma di governo la quale «non disegna finora un esecutivo “onnipotente” nell’esercizio dei suoi poteri» come quello supposto dalla lettera indirizzata al nostro Paese. Chiaro il punto di vista di Grasso:  non può un organo come la Banca centrale europea,  «che nasce con lo scopo principale di garantire la stabilità dei prezzi e di definire e attuare la politica monetaria per l’intera area dell’euro arrogarsi il potere (il diritto non c’è, non può esistere in alcun modo) di dettare ad un Paese modi e tempi, per portare avanti la propria attività di indirizzo politico, facendo delle scelte (in parte opinabili, del resto), al posto degli organi titolari della funzione di indirizzo politico».

Forte è il contrasto con gli Stati “egemoni” come la Germania. Dove il Bundestag – come sottolineato il Tribunale costituzionale federale tedesco con la sentenza del 7 settembre 2011 – deve «restare “padrone delle sue decisioni ”, comprese quelle relative alle entrate (per esempio le tasse) e alle spese del bilancio, senza condizionamenti esterni da parte degli organi dell’Unione europea o di altri Stati membri».

Tornando al diritto interno, l’Autore mette ben in evidenza le molteplici e divergenti opinioni sul principio del pareggio di bilancio nella nostra Costituzione introdotto la legge costituzionale 1/2012. La domanda che egli si pone è tanto provocatoria quanto fondata: «anche accettando di dover arrivare, a seguito dell’impulso determinante del diritto comunitario e internazionale, a una rigorosa disciplina normativa sul pareggio di bilancio, prima solo “caldamente” suggerita (il patto Europlus), poi fornita del crisma della prescrittività (il Trattato sul Fiscal Compact), era davvero necessario che quella disciplina facesse il suo ingresso nell’ordinamento giuridico italiano mediante la via maestra della riforma costituzionale?». Nessuno degli atti riferibili all’ambito comunitario ha mai condizionato la sostenibilità finanziaria ad una revisione della Costituzione. E’ noto infatti che Il Fiscal Compact sembrerebbe semmai prevedere un favor, ma non un obbligo in tal senso. Si parla infatti di «disposizioni vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionali», anche se non mancano divergenti opinioni su come debba intendersi l’avverbio “preferibilmente”.

Non vengono trascurati dall’Autore gli effetti della legge costituzionale n. 1/2012 sul sistema delle autonomie. Ad essere  messo in discussione è il principio di leale collaborazione,  eroso dalla mancanza di strumenti di raccordo tra i diversi livelli territoriali che avevano invece caratterizzato la legge 42/2009 e i successivi decreti attuativi.

Ma vi è di più.  L’art.  5 comma 2 della legge “organica” di cui al nuovo testo dell’articolo 81, sesto comma, deve prevedere tra l’altro «le modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali … anche in deroga all’art. 119, concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali». Questa norma dimostrerebbe in realtà  come «gli effetti devastanti della riforma in commento, sull’impianto costituzionale dei diritti e delle libertà fondamentali», rendono quest’ultimi non più un limite ultimo e insormontabile dell’agire pubblico. Con questa previsione «è come se si ribaltassero i termini del rapporto tra politica ed economia, tra spera pubblica e interessi privati, che la Costituzione italiana aveva saggiamente risolto e che il costituzionalismo del Novecento ha contribuito a difendere, tra alti e bassi, per più di sessanta anni».

La successiva ma attenta sintesi dei trattati MESF, FESF e  MES è finalizzata a denunciare lo scarso ruolo attribuito al Parlamento europeo.  Come a dimostrare – specifica l’Autore – «la tendenziale impermeabilità di questi strumenti finanziari alle forme della responsabilità parlamentare, anche solo nella più tenue veste della presentazioni di relazioni periodiche al Parlamento medesimo». Non pare questo però «il miglior viatico di un costituzionalismo (europeo) che voglia davvero porsi a limite dell’esercizio del potere»

In conclusione, ecco che  i diritti - in specie i diritti sociali -  nella fase di loro maggiore sofferenza possono essere il “momento” da cui ripartire. Sottolinea Grasso come «Solo rinvigorendo i diritti e con essi le forme di partecipazione democratica ai processi politici di governo della crisi economica, che risultano, invece, del tutto emarginate … è possibile uscire dal guado; e solo a queste condizioni si potrà accettare, come possibile contropartita finale, un eventuale indebolimento del potere statuale, nel rispetto sostanziale della cornice costituzionale, magari a favore di un potenziamento delle istituzioni sovranazionali (come l’Unione europea)».

Soltanto «Dando una sempre più completa garanzia dell’effettività dei diritto fondamentali e offrendo una più robusta legittimazione democratica alle forme di esercizio del potere, si potrà vincere, davvero, la sfida che la crisi economica e i mercati globali hanno lanciato agli Stati sovrani». Solo a queste condivisibili  condizioni  «ci si potrà anche incamminare, non di fretta, ma con il passo di chi sale anche sulle più alte vette … lungo il sentiero che porterà a fare dell’Europa unita una compiuta opera, con tutte le rinunce della sovranità statale che, a quel punto, nei confronti del nuovo soggetto politico, sarà ragionevole accettare».

 


Corte di Cassazione e libertà di stampa sul web

La sentenza della Corte di Cassazione, V Sezione Penale, del 16 luglio 2010, n. 35511 è già, nel bene o nel male, un punto fermo. Interpreti ed operatori del diritto, chiamati in qualsiasi sede a dover rispondere dell’assimilabilità giuridica di internet alla stampa cartacea, ne dovranno tenere conto. La Corte, infatti, per affermare la non applicabilità dell’art. 57 del codice penale (Reati commessi col mezzo di una stampa periodica)  nei confronti del direttore di un giornale web per i commenti dei lettori ospitati all’interno della propria piattaforma, utilizza argomenti che vanno in parte oltre il caso di specie e che pertanto si prestano a sintetizzare e far emergere il principio secondo cui internet non è la stampa. Le argomentazioni della Corte sono difatti molte (nonostante la brevità della sentenza) ed ognuna appare come una reazione alle interpretazioni legislative che in passato hanno provato ad estendere l’ambito applicativo della disciplina prevista per la stampa anche al web.

 

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