Come costruire e preservare le tradizioni dei diritti in Europa?*

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* Intervento conclusivo del II Seminario annuale di diritticomparati su Costruendo le tradizioni dei diritti in Europa, Macerata 11 dicembre 2015.

Sommario: 1. Le due palle di ferro ai piedi dei diritti (terrorismo e crisi economica), il bisogno di riguardare ai diritti stessi nel loro fare “sistema” con altri beni della vita costituzionalmente protetti, il carattere “intersistemico” dell’ordinamento e “intercostituzionale” della Costituzione conseguente all’apertura dell’uno e dell’altra a norme di origine esterna. – 2. Le mutue implicazioni tra la teoria dei diritti e la teoria della Costituzione, l’idea di una Costituzione umile, che sa di aver bisogno di attingere ab extra quanto le è necessario al fine della propria affermazione, la mutua integrazione di tutti i documenti che danno riconoscimento ai diritti nei fatti interpretativi, alla luce del canone della massimizzazione della tutela. – 3. Il carattere culturale, più (o anzi) che positivo, del primato di un ordinamento sull’altro, la struttura internamente composita della identità costituzionale, nazionale in quanto anche inter- e sovra-nazionale e internazionale e sovranazionale in quanto anche nazionale, l’impossibile entrata in campo dei “controlimiti” per sistema, così come invece vorrebbero dottrina e giurisprudenza correnti, dipendente piuttosto dall’esito di operazioni di bilanciamento (anche interordinamentale) secondo i casi ed alla luce del canone della miglior tutela. – 4. Le riserve mosse all’uso del canone della massimizzazione della tutela, specie per il pregiudizio che se ne avrebbe per la certezza del diritto, e la loro confutazione alla luce di una teoria della Costituzione assiologicamente orientata. – 5. Il “dialogo” quale strumento di stabilizzazione e di rinnovamento a un tempo della giurisprudenza, la conciliazione di uniformità e differenziazione per effetto della “federalizzazione” dei diritti, che si avvale del metodo di una produzione giurisprudenziale in progress, idonea a prendere corpo a mezzo di “catene” di atti funzionalmente connessi, bisognosa tuttavia di poggiare su una previa, misurata ed incisiva allo stesso tempo, disciplina (anche di rango costituzionale) dei diritti. – 6. Una succinta notazione finale, a riguardo della comparazione quale strumento necessario, di rilievo crescente, per la compiuta comprensione e l’incessante rigenerazione semantica degli enunciati delle Carte “intercostituzionali”, l’ottimale affermazione del dialogo intergiurisprudenziale, il ravvicinamento tra civil e common law, la produzione, verifica e salvaguardia delle tradizioni dei diritti.

  1. Le due palle di ferro ai piedi dei diritti (terrorismo e crisi economica), il bisogno di riguardare ai diritti stessi nel loro fare “sistema” con altri beni della vita costituzionalmente protetti, il carattere “intersistemico” dell’ordinamento e “intercostituzionale” della Costituzione conseguente all’apertura dell’uno e dell’altra a norme di origine esterna

Anticipo subito la risposta alla domanda che dà il titolo a questa mia riflessione: … federalizzando i diritti e, perciò, in buona sostanza le relazioni tra le Corti che ne sono garanti.

Prima (ed al fine di) argomentare questa tesi e chiarirne le possibili implicazioni, si rendono tuttavia necessarie alcune avvertenze preliminari.

La prima.

Quelle che seguono sono notazioni di metodo, più ancora che di merito, pur trovandomi obbligato ad una rapida incursione anche su quest’ultimo terreno al scopo di dare un minimo di concretezza al discorso che mi accingo a svolgere. Non è, infatti, mia cura ripercorrere l’intera vicenda, che affonda – come si sa – le sue radici in un tempo ormai risalente, relativa al modo con cui sono venute a formarsi le “tradizioni” riguardanti i diritti fondamentali (cui d’ora innanzi, per brevità, farò riferimento senza uso dell’aggettivo, che considero sottinteso), al fine di stabilire pur se approssimativamente quale sia la loro consistenza e il rilievo complessivamente assunto al piano delle relazioni interordinamentali. Mi preme piuttosto trattare del modo con cui possono (e, a mia opinione, devono), nel presente contesto segnato da una integrazione sovranazionale viepiù avanzata e dall’infittirsi crescente dei vincoli di solidarietà in seno alla Comunità internazionale, essere costruite e preservate le tradizioni in parola. Una riflessione, dunque, quella ora avviata che specificamente si appunta sul modello, quale risultante dai documenti normativi riguardanti i diritti (per ciò che maggiormente importa, dalla Costituzione per un verso, dalla CEDU e dalla Carta dell’Unione europea per un altro).

Non tento, perciò, di far luogo neppure ad una sommaria sintesi degli interventi, tutti assai articolati ed interessanti, svolti in occasione del nostro Seminario, che pure mi era stata chiesta ma che francamente non sarei in grado di fare a motivo della varietà degli stessi per oggetto, impostazione, svolgimenti. Considero, pertanto, il mio un ulteriore intervento che vuol porsi all’ultimo posto di quelli ascoltati oggi, in chiusura del nostro incontro.

Non poche difficoltà poi si danno a chi si accinga al compito di far luogo ad una riflessione di ordine generale, quale quella richiestami, legate alla complessità ed opacità del quadro, sia per l’aspetto positivo che per quello politico-istituzionale, in ispecie per quest’ultimo, ove si convenga che il contesto in seno al quale matura la tutela dei diritti si connota per la esistenza di spinte e controspinte di varia natura ed intensità, forti tensioni, non rimosse contraddizioni, tali da rendere assai problematico l’appagamento dei diritti stessi e, prima ancora, ardua la lineare ricostruzione del sistema da essi composto, specie laddove considerato in rapporto ad altri beni o interessi meritevoli di giuridica protezione.

Un dato di comune acquisizione è, sopra ogni altro, da tenere al riguardo presente. Il riferimento al contesto mostra infatti che vi sono due palle di ferro al piede dei diritti, che ne frenano e condizionano lo sviluppo e l’affermazione: il terrorismo e la crisi economica internazionale, che mettono sotto stress praticamente tutti i diritti (pur se alcuni più di altri), obbligandoli a dolorose rinunzie ed a pressoché quotidiani e sofferti bilanciamenti tanto inter se quanto con altri beni, principalmente oggi – come confermano i recenti fatti di Parigi, Bamako e San Bernardino – quello alla sicurezza, che peraltro, oltre a costituire un interesse dell’intera collettività, può essere ovviamente riguardato anche dall’angolo visuale dei diritti o, diciamo pure, può essere convertito in una sommatoria di diritti individuali.

La notazione appena svolta in merito alla conversione di un interesse (in senso lato) di una certa natura in un interesse di natura diversa richiederebbe approfondimenti teorici e verifiche pratiche ai quali, per evidenti ragioni, non è ora possibile far luogo; rende, tuttavia, per la sua parte, ulteriore conferma della impossibilità di considerare i singoli enunciati relativi ai diritti come in sé conchiusi ed autosufficienti, laddove essi piuttosto si compongono in unità significante unicamente appunto nel loro fare, tutti assieme e necessariamente, “sistema”[1]. Una composizione, poi, che – come si è tentato di mostrare in altri luoghi – si fa e incessantemente rinnova secondo i casi ed alla luce delle mobili combinazioni di valore dagli stessi sollecitate a formarsi.

Nessun enunciato ha, infatti, senso se atomisticamente considerato e letto in vitro, ma solo nel comporsi di ciascun enunciato con quelli restanti, tutti assieme richiedendo di essere riguardati in vivo, alla luce delle specifiche esperienze in cui si fa questione della loro possibile applicazione.

Il sistema dei diritti ha, dunque, senso solo entro la cornice più larga del sistema dei beni costituzionalmente protetti; e, poiché l’ordinamento nazionale si apre ad ordinamenti di origine esterna (per ciò che qui specificamente importa, quello internazionale e quello eurounitario), così come questi variamente si raccordano a quello e in esso quindi si affermano, se ne ha che ogni sistema normativo è, specie nella presente congiuntura caratterizzata da una interdipendenza e integrazione crescenti, per sua indeclinabile vocazione “intersistemico”, è cioè un “sistema di sistemi” e, per logica necessità, “intercostituzionale” è il documento normativo di vertice di ciascun sistema[2]. Termine che qui nuovamente adopero e ripropongo in accezione materiale, facendolo valere tanto per la Costituzione quanto per altre Carte che con la Costituzione stessa condividono la peculiare natura di documenti che danno il riconoscimento (in ristretta e propria accezione) dei diritti.

  1. Le mutue implicazioni tra la teoria dei diritti e la teoria della Costituzione, l’idea di una Costituzione umile, che sa di aver bisogno di attingere ab extra quanto le è necessario al fine della propria affermazione, la mutua integrazione di tutti i documenti che danno riconoscimento ai diritti nei fatti interpretativi, alla luce del canone della massimizzazione della tutela

La seconda avvertenza.

            Muovo qui dall’assunto che si danno mutue implicazioni tra la teoria dei diritti e la teoria della Costituzione. La prima è, infatti, una species della seconda, anzi ne è proprio la parte più qualificante ed espressiva, l’autentico cuore pulsante, in linea con l’indicazione offerta dall’art. 16 della Dichiarazione dei rivoluzionari francesi del 1789, oggi forse più ancora di ieri valida ed attuale. È pur vero però che, per il modo con cui complessivamente s’intende cos’è ed a cosa serve (e deve servire) la Costituzione[3], si avranno dirette ed immediate conseguenze al piano della teoria dei diritti, dovendosi nondimeno tener fermo il dato per cui la ricostruzione del sistema dei diritti si riflette ed irradia sull’intera teoria della Costituzione, concorrendo alla sua messa a punto e all’incessante rinnovamento.

            Ora, è chiaro che non è qui possibile rimettere in discussione generali questioni riguardanti l’essenza stessa della Costituzione, con specifico riguardo agli ordinamenti di tradizioni liberal-democratiche[4]. Mi limito, dunque, ad enunciare, senza argomentare, la tesi nella quale da tempo mi riconosco, traendone alcune conseguenze al piano della teoria dei diritti.

            La mia idea è che l’integrazione tra gli ordinamenti in seno ad organizzazioni che chiamano gli ordinamenti stessi a prestazioni crescenti di reciproca solidarietà (da noi, in special modo, ovviamente, l’Unione europea), al pari peraltro della loro soggezione a vincoli particolarmente stringenti aventi il loro fondamento nella Comunità internazionale, resterebbe priva di senso se non si accompagnasse ad una evoluzione già pervenuta ad un grado notevole di maturazione del concetto e della funzione della Costituzione.

            L’idea di Costituzione, insomma, può prendere forma non già ad un piano teorico-astratto bensì ad uno teorico-concreto, risultare cioè saldamente poggiante su una base che è, a un tempo, storica, politica, economica, istituzionale. Un’idea di Costituzione aspaziale ed atemporale sarebbe, infatti, palesemente priva di senso, contraddirebbe se stessa, ove si convenga – come devesi – che la Costituzione, più (e prima ancora) che un atto, è un processo, soggetto ad incessante divenire, in ragione del mutare stesso del contesto in cui s’inscrive ed invera[5]. Questo modo di essere della Costituzione ha la sua più immediata ed espressiva proiezione proprio al piano su cui maturano le vicende relative ai diritti ed al fine della loro ottimale, alle condizioni oggettive di contesto, salvaguardia.

            È stato, ancora da ultimo, opportunamente rilevato ad avvio del nostro Seminario[6] che l’essenza delle “tradizioni” costituzionali dei diritti sta nel loro incessante divenire: una sorta, insomma, di constitutional work in progress alla cui continua e mai finita messa a punto sono – a me pare – chiamati a concorrere, con tipicità di ruoli complessivi, il diritto scritto e il diritto non scritto, specie giurisprudenziale[7].

            Ora, è chiaro che il verso e gli svolgimenti di questa progressiva costruzione, che si va facendo non sempre in modo lineare, tra non poche, vistose oscillazioni e tensioni di ordine istituzionale, risentono profondamente del contesto nel quale la costruzione stessa s’inscrive e prende forme continuamente cangianti. Ed è interessante notare che gli sviluppi di questo contesto, seppur non ancora nitidamente visibili al tempo della Costituente, erano stati da questa felicemente intuiti, nel mentre oggi si presentano – come si sa – con tratti di straordinario spessore e rilievo. Non a caso, dunque, tra i principi fondamentali della Carta figura quello dell’apertura al diritto internazionale e sovranazionale[8], che rende testimonianza della consapevolezza che pace e giustizia tra le Nazioni sono condizioni necessarie, ancorché di per sé sole non sufficienti, del mantenimento di un modello di società e di Stato ispirato ai valori fondanti delle liberal-democrazie, così come però, dal suo canto, il modello stesso può, per la sua parte, concorrere al radicamento dei fini-valori evocati dall’art. 11 della Carta.

Di qui, la conseguenza per cui la rappresentazione della Costituzione che a momenti si farà, oltre ad essere provvista della base sopra indicata, è altresì positivamente fondata sul principio di apertura suddetto, un principio che non va visto come una sorta di corpo spurio, a forza immesso nella tavola dei valori fondanti la Repubblica e, per dir così, “tollerato” dai valori restanti ai quali è nondimeno legato e coi quali è, dunque, tenuto a fare “sistema” bensì come una delle più felici, genuinamente espressive qualità che connotano, al pari delle altre, il “nucleo duro” della Costituzione e ne segnano, dunque, il complessivo sviluppo e radicamento nell’esperienza.

Così stando le cose, si ha – a me pare – conferma dell’essere la nostra, al pari delle altre leggi fondamentali degli ordinamenti ricostruiti sopra le macerie della seconda grande guerra, una Costituzione – come la si è altrove chiamata – “parziale”, e non “totale”, che non rivendica per sé, presuntuosamente, il merito di saper dire tutto su tutto e di dirlo sempre nel migliore dei modi, come invece affermato in una pur importante pronunzia della nostra Corte costituzionale, la n. 388 del 1999, laddove trovasi scritto che “i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione”. La stessa decisione, tuttavia, subito di seguito enuncia un principio al quale è da assegnare uno straordinario rilievo, un’autentica direttiva di metodo e di azione per gli operatori in genere (e i giudici in ispecie), secondo cui tali Carte e la Costituzione stessa “si integrano completandosi reciprocamente nella interpretazione”. Un’affermazione, quest’ultima, che dà il giusto peso al principio di apertura suddetto, ne consente il retto inquadramento e il più proficuo utilizzo a beneficio della pratica giuridica e dei beni della vita di volta in volta in gioco.

Ora, se il primo frammento della pronunzia appena richiamata ci mostra una Costituzione superba, arroccata in se stessa e, a conti fatti, autoreferenziale, il secondo invece ci consegna l’immagine di una Costituzione umile, che confessa di avere un disperato bisogno di attingere ab extra i materiali indispensabili alla propria incessante rigenerazione semantica, alla propria integrazione e stabilizzazione, in vista del suo ottimale rinvigorimento e la trasmissione integra anche alle generazioni che verranno e che vorranno identificarsi nel medesimo idem sentire de re publica della generazione presente, riconoscendosi nella tavola dei valori fondamentali in cui questa si riconosce, nella sua etica pubblica assiologicamente orientata.

Si ha così conferma dello stretto ed inscindibile legame sussistente tra il principio-valore dell’apertura della Costituzione e dell’ordinamento sulla stessa fondato verso l’esterno (in particolare, la Comunità internazionale e l’Unione europea) e i principi-valori restanti, in particolare quelli componenti la coppia assiologica fondamentale, come a me piace chiamarla, costituita da libertà ed eguaglianza (e, in ultima istanza, dignità della persona umana), l’uno essendo un principio-fine ma anche, per ciò che qui maggiormente importa, un principio-mezzo, necessario al fine dell’ottimale appagamento della coppia suddetta.

Si tratta, poi, d’intendere qual è il modo migliore per far luogo a quella mutua integrazione nell’interpretazione di tutte le Carte patrocinata dalla Consulta. Non ho dubbi a riguardo dell’indirizzo metodico in grado di dare luce ed orientamento alla tecnica messa in campo dall’interprete e che si rifà al principio – un’autentica Grundnorm e, allo stesso tempo, un Grundwert delle relazioni interordinamentali – della massimizzazione della tutela dei diritti e, in genere, degli interessi costituzionalmente protetti[9]. Si tratta, in breve, di far sì che il “sistema di sistemi”, cui si faceva dianzi cenno, possa affermarsi al meglio di sé, alle condizioni storicamente e positivamente date, che ogni Carta possa cioè trovare il modo di esprimere e realizzare al meglio la propria vocazione e natura “intercostituzionale”, fissandosi dunque in tal modo il punto più alto di sintesi assiologica tanto dal punto di vista esterno (in ispecie, come si diceva, della CEDU e della Carta dell’Unione) quanto da quello interno.

Nulla, ovviamente, può escludere in partenza che possano darsi casi nei quali l’integrazione in parola non riesca o non riesca appieno e che, dunque, debba farsi luogo ad una scelta esclusiva (o, meglio, esclusivizzante), ispirata alla “logica” dell’aut aut. Ciò che mostra come il principio della massimizzazione della tutela possa porsi quale la chiave che apre ovvero chiude la porta che dà all’esterno, dando modo a materiali, positivi e giurisprudenziali, d’immettersi in ambito interno e di spiegare effetti al servizio dei diritti ovvero di rendersi inutilizzabili a questo scopo, per effetto della discesa in campo dei “controlimiti” (a riguardo dei quali, tuttavia, si faranno a breve alcune precisazioni).

Non è quello appena descritto, tuttavia, lo scenario maggiormente conforme alle attese del principio della massimizzazione della tutela che, nella sua più raffinata e densa accezione, induce a far luogo alla congiunta applicazione di tutte le Carte, divenute una sola cosa nei fatti interpretativi e per il congiunto appagamento di tutti gli interessi in campo, per effetto della tecnica usuale del reciproco bilanciamento: un bilanciamento che – come qui pure si è venuti dicendo – resta indifferente alla veste formale o alla provenienza (da questo o quell’ordinamento) dei materiali normativi che danno il riconoscimento dei diritti, che trapassa cioè lo schermo deformante delle fonti per puntare diritto alle norme, nella ricerca di ciò che di meglio esse hanno da dare al servizio dei diritti e dei beni restanti della vita visti nel loro fare “sistema”.

Ancora prima della selezione e ponderazione delle norme, il principio in parola è, dunque, guida nei processi interpretativi volti alla ricostruzione delle norme stesse: processi non neutri bensì orientati (o, se si vuole, preorientati), siccome obbligati a ricercare il modo ottimale possibile, secondo il caso, per dare appagamento a tutti gli interessi in campo[10].

  1. Il carattere culturale, più (o anzi) che positivo, del primato di un ordinamento sull’altro, la struttura internamente composita della identità costituzionale, nazionale in quanto anche inter- e sovra-nazionale e internazionale e sovranazionale in quanto anche nazionale, l’impossibile entrata in campo dei “controlimiti” per sistema, così come invece vorrebbero dottrina e giurisprudenza correnti, dipendente piuttosto dall’esito di operazioni di bilanciamento (anche interordinamentale) secondo i casi ed alla luce del canone della miglior tutela

In questo quadro, qui sommariamente raffigurato unicamente nei suoi lineamenti di fondo, quale senso può avere il principio del primato di un ordinamento sull’altro?

Discende linearmente dalle premesse sopra poste la conseguenza per cui il primato stesso ha da essere, ancora prima (o invece) che positivo, culturale: ogni giorno nei casi della vita (e, segnatamente, nel corso delle vicende processuali) si assiste dunque ad una sana competizione al rialzo tra le Carte (e perciò, in buona sostanza, le Corti), l’affermazione di questa o di quella, ovvero – possiamo ora dire – in maggiore o minore misura dell’una o dell’altra, dipendendo appunto dalla “merce” maggiormente pregiata che l’una Carta (e Corte) ha da offrire nel mercato dei diritti all’operatore di turno.

L’integrazione nei processi interpretativi non è poi una mera esigenza o, diciamo pure, un’aspirazione avente la radice da cui incessantemente si alimenta nel contesto sopra succintamente descritto; è piuttosto, allo stesso tempo un fatto e un valore (o, se si preferisce dire altrimenti, un fatto assiologicamente qualificato): un fatto di cui per vero si hanno ad oggi non rari riscontri e che però risulta ancora complessivamente immaturo, non pienamente e saldamente affermatosi, secondo quanto si vedrà meglio a momenti; ed è anche un valore in modo non del tutto adeguato servito ed implementato nell’esperienza, un valore “razionalizzato” dalle previsioni contenute tanto nelle Carte di origine esterna (e, segnatamente, nell’art. 53 sia della CEDU che della Carta dell’Unione) quanto nelle Costituzioni nazionali, nelle quali è reso palese dal principio di apertura suddetto, nel suo fare “sistema” coi principi di libertà ed eguaglianza e i principi restanti posti a base dell’ordine interno.

Tutte le Carte – come si è venuti dicendo –, riviste nei loro reciproci rapporti alla luce del principio della miglior tutela, convergono nell’esito della loro necessaria integrazione, ciascuna manifestando il bisogno di doversi appoggiare alle altre e da queste farsi incessantemente alimentare al fine della propria ottimale rigenerazione semantica.

Ecco perché – come vado dicendo da tempo[11] – l’interpretazione è o circolarmente conforme oppure semplicemente non è.

Ieri la guerra di stampo tradizionale, oggi la nuova guerra originata dal terrorismo, unitamente – come si diceva – alla crisi economica devastante e con ogni probabilità ormai endemica, inducono alla unione delle forze, non alla divisione o, peggio, alla contrapposizione.

L’obbligo di interpretazione orientata da norme di origine esterna è, dunque, un fatto dovuto per gli operatori di diritto interno; ma parimenti dovuto è, per gli operatori sovranazionali, l’orientamento verso (e il costante alimento dal)le tradizioni nazionali in vista dell’ottimale estrazione delle norme stesse. Una convergenza, questa, che dunque riceve spinta e indirizzo dal principio della miglior tutela.

Il principio del primato solo così può, a mia opinione, essere a modo inquadrato e rivisto sotto la luce giusta, affermandosi nei fatti interpretativi a mezzo della tecnica del bilanciamento intersistemico e secondo valore.

Si consideri, solo per un momento, il rapporto che si costituisce tra il diritto dell’Unione e quello degli Stati membri.

L’un ordinamento cammina su due gambe: il principio del primato e il principio della salvaguardia dell’identità costituzionale degli ordinamenti nazionali, due principi che, ad una prima ma erronea impressione, parrebbero reciprocamente inconciliabili e però, allo stesso tempo, bisognosi entrambi di trovare il modo e lo spazio per potersi affermare. Il primato è, poi, comunemente e giustamente considerato servente la realizzazione dell’identità “costituzionale” dell’Unione; solo che dell’identità stessa è tratto connotativo il rispetto dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali e, dunque, l’identità dell’Unione non può che affermarsi congiuntamente e grazie alla salvaguardia della identità degli Stati, non già col costo insopportabile del sacrificio di questa.

Questo modello tuttavia non si rispecchia nei fatti, laddove si sono avute (e si hanno) probanti e ripetute testimonianze, specie nella pratica giudiziale (particolarmente istruttive al riguardo le prese di posizione della Corte di giustizia in Melloni e col parere sull’adesione alla CEDU del dicembre 2014) da cui risulta che il principio della osservanza dell’identità nazionale, di cui all’art. 4.2 del trattato dell’Unione, non è stato visto come limite invalicabile al primato o, comunque, come meritevole di paritario bilanciamento con questo bensì, all’inverso, è il primato stesso a porsi – per sistema – a limite del principio della salvaguardia delle identità nazionali, le quali perciò sono effettivamente fatte salve a condizione che non incrocino il primato stesso[12]. Com’è stato, ancora di recente, opportunamente rilevato, il primato ha insomma costituito il cuore della “costituzione materiale” dell’Unione, una costituzione in cui “l’unità giurisdizionale ha tenuto il luogo, inevitabilmente, dell’unità politica”[13].

Dal suo canto, l’ordinamento statale ha esso pure due gambe con le quali si porta avanti: il principio della salvaguardia della propria identità costituzionale e il principio dell’apertura al diritto di origine esterna. E nuovamente – come si è veduto – è da dire che del primo principio è parte integrante il secondo, la piena identità nazionale assicurandosi anche a mezzo dell’apertura suddetta.

Al di là di ogni astratta professione di principio, per ciò che attiene al bisogno di mantenere costantemente integra l’identità nazionale, in ambito interno (e, segnatamente, nel nostro[14]), la tendenza maggiormente diffusa e marcata, in seno ad un quadro nondimeno internamente articolato[15], sembra essere nel segno della sostanziale osservanza del primato del diritto eurounitario, pur laddove ciò dovesse mettere sotto stress norme costituzionali e, persino, i principi di base dell’ordinamento: insomma, un vero e proprio ribaltamento della dottrina dei “controlimiti”, col conseguente sprofondamento di ogni principio fondamentale in quel vero e proprio “buco nero” evocato dall’art. 11, a riguardo della contrazione della sovranità della Repubblica a beneficio di organizzazioni internazionali costituite allo scopo di preservare la pace e la giustizia tra le Nazioni.

Come si vede, si assiste ad una sensibile divaricazione dell’esperienza rispetto al modello.

Per quest’ultimo, ciò che accomuna e fa convergere l’ordine sovranazionale e quello interno è – come si è veduto – il principio di identità: una identità che avrebbe dovuto esibire un equilibrio interno tra le due sue “anime” o componenti, dunque un’identità – potrebbe dirsi – “composta” o articolata, nazionale in quanto anche inter- e sovra-nazionale e inter- e sovra-nazionale in quanto anche nazionale; nei fatti, di contro, si ha la netta prevalenza e, alle volte, il vero e proprio schiacciamento dell’una sull’altra componente. I casi della vita sollecitano, infatti, di frequente la messa in atto di delicate e complesse operazioni di ponderazione assiologica, le quali, peraltro, come si sa, sono di quotidiano riscontro nell’esperienza di uno stesso ordinamento. Qui, la novità è data dal fatto che il bilanciamento ha carattere e proiezione interordinamentale (o intersistemica che dir si voglia[16]) e che, però, risulta in buona sostanza squilibrato, fortemente attratto dal polo della prevalenza delle istanze di cui si fa portatrice l’Unione, costi quel che costi.

In tal modo, tuttavia, non si coglie ed apprezza il senso profondo del modello internamente articolato concernente tanto l’identità dell’Unione quanto quella dello Stato e che vorrebbe costantemente mantenuto l’equilibrio tra le due componenti ciascuna identità. Non si coglie ed apprezza la circostanza per cui, pur laddove l’una o l’altro dovessero chinarsi per far posto a norme non prodotte al loro interno, in nome del principio della massimizzazione della tutela, ciò non comporterebbe affatto lo svuotamento del proprio primato ma, all’inverso, la sua stessa ottimale salvaguardia e realizzazione. È un errore grave di prospettiva metodica e di ricostruzione teorica quello commesso da quanti – giudici e studiosi – non riescono a percepire le potenzialità insite nella “logica” della sussidiarietà che comunque fa salva, ad un piano diverso e più alto, il principio del primato. E ciò, ove si consideri che la pur occasionale messa da canto qui ipotizzata non sarebbe il frutto di una eteroimposizione realizzata a forza, manu militari, bensì di un autolimite che lo stesso ordinamento occasionalmente recessivo si dà, con la propria metanorma che vuole comunque assicurata la massima realizzazione possibile, in ragione delle peculiari esigenze del caso, dei diritti e, in genere, dei beni della vita meritevoli di tutela.

Di qui, poi, la conferma che i “controlimiti”[17] si rivelano essere comunque inidonei – come mi sforzo di argomentare da tempo – a farsi valere per sistema (o in astratto) e, piuttosto, risultano suscettibili di operare a beneficio di qualunque ordinamento, laddove ciò sia appunto richiesto dal principio della miglior tutela. È perciò che norme di origine esterna (e il discorso ha, a parer mio, generale valenza, estendendosi ad ogni norma, eurounitaria o convenzionale o di altro genere e provenienza ancora), ancorché incompatibili con singoli principi fondamentali di diritto interno, possono ugualmente affermarsi, ove si dimostrino all’altezza di fissare ancora più in alto delle norme interne (e persino di quelle costituzionali) il punto di sintesi tra i valori in campo, così come però potrebbe parimenti darsi il caso che le norme suddette debbano farsi da parte, pur se inconciliabili con norme nazionali inespressive di principi fondamentali e tuttavia maggiormente rispondenti al principio della miglior tutela, secondo il caso[18].

È nondimeno importante tenere sempre a mente la circostanza per cui il principio di un primato incondizionato, valevole sempre e comunque, si ritorcerebbe, a conti fatti, contro… se stesso, rinnegherebbe la propria intima e genuina natura, fatalmente trascurando questa o questa delle componenti che fanno l’identità dell’ordinamento che aspiri alla propria illimitata affermazione e perciò, a conti fatti, lungi dal servire quest’ultima, ne pregiudicherebbe la compiuta ed equilibrata realizzazione. E così l’ordinamento dell’Unione che dovesse – a mia opinione, senza costrutto alcuno – puntare a farsi in ogni caso valere, anche a discapito dei principi di struttura degli ordinamenti nazionali, laddove questi ultimi si mostrino in grado di servire ancora meglio delle norme sovranazionali il principio della massimizzazione della tutela, non terrebbe nel dovuto conto il disposto di cui all’art. 4.2 del trattato di Lisbona e, per ciò stesso, si automutilerebbe in uno dei suoi principi portanti. Mutatis mutandis, questa conclusione – come si è veduto – vale altresì per il caso che in nome dei “controlimiti” non si dia ingresso in ambito interno a norme internazionali o sovranazionali in grado d’innalzare il livello della tutela.

Si tocca così con mano come i bilanciamenti interordinamentali sono forma o species dei bilanciamenti intraordinamentali, aperti ad esiti plurimi in ragione dei casi.

  1. Le riserve mosse all’uso del canone della massimizzazione della tutela, specie per il pregiudizio che se ne avrebbe per la certezza del diritto, e la loro confutazione alla luce di una teoria della Costituzione assiologicamente orientata

            Si tratta, a questo punto, di stabilire quali possano essere le soluzioni tecniche maggiormente idonee alla concretizzazione del modello teorico sopra sommariamente delineato e tentare quindi di argomentare la tesi enunciata in partenza a riguardo dell’assetto “federale” dei diritti e delle forme della loro tutela (specie in sede giurisdizionale).

            Giova, in primo luogo, osservare che l’esito teorico-ricostruttivo ora raggiunto, al di là dei suoi occasionali riconoscimenti avutisi in giurisprudenza[19], va incontro, nei fatti, a talune non infrequenti manifestazioni di “resistenza” – come sono state chiamate in occasione del nostro Seminario –, alcune delle quali (come quelle dei tribunali ceco, ungherese e polacco) particolarmente vigorose e vistose[20], da parte dei giudici nazionali e da altre analoghe e, forse, ancora più ricorrenti e risolute prese di posizione delle Corti europee, interpreti di un modello internamente squilibrato d’identità dell’ordinamento (o sistema normativo) di appartenenza: orientamenti, tutti questi, nei quali emerge, pur se alle volte confusamente ed abilmente mascherata, la mai sopita vocazione all’affermazione di una sorta di nazionalismo costituzionale esasperato, che trae alimento dal sospetto[21] e dalla gelosa rivendica della propria identità (malamente intesa) e che, nondimeno, si rivela essere – come mi è venuto di dire in altre occasioni – ingenuo ed infecondo, comunque ingiustificato.

            Molti esempi sono stati addotti nel corso dei nostri lavori ed altri ancora potrebbero aggiungersi a testimonianza di siffatta radicata tendenza che, realisticamente, potrà essere superata unicamente con un cambio deciso di mentalità e di metodo nello studio delle relazioni interordinamentali, che abbia a cuore la costruzione di una cultura dei diritti profondamente rigenerata, fatta poggiare su quell’idea di Costituzione “intercostituzionale” che, a mio modo di vedere, costituisce la risposta più persuasiva e complessivamente adeguata alle esigenze del presente contesto internazionale e sovranazionale, oltre che fedele alle indicazioni date dalla stessa Carta nei suoi principi fondamentali visti nel loro fare “sistema”.

            Ogni medaglia ha però il suo rovescio; e molti altri esempi ancora possono farsi a testimonianza di un “dialogo” – come suole, pur con una certa improprietà, essere chiamato – tra le Corti costruttivo, che ha portato a superare antiche barriere ed incrostazioni, con conseguente beneficio per i diritti.

Farò a momenti alcuni riferimenti a conferma di quest’assunto. Mi preme tuttavia sin d’ora evidenziare come ogni eccessiva sottolineatura dell’uno o dell’altro profilo della complessiva vicenda dei diritti porti con sé inevitabili sue deformanti rappresentazioni e parimenti distorsive implicazioni.

Una delle più ricorrenti obiezioni al modello sopra raffigurato, in ispecie al perno stesso attorno al quale esso ruota, costituito dal principio della massima tutela, è che esso comporta un insopportabile sovraccarico di poteri e di responsabilità in capo ai giudici, lasciati a conti fatti liberi di determinarsi come credono in relazione alle peculiari esigenze dei casi portati alla loro risoluzione.

Insomma, la certezza del diritto ne risulterebbe gravemente pregiudicata fino a poter andare del tutto dispersa. È una critica che mi è stata più volte fatta e che colpisce al cuore la mia tesi, specificamente laddove mi sforzo di argomentare l’idea secondo cui non si dà, e non può darsi, un sistema delle fonti, ciascuna delle quali sia connotata da una forza invariabile che la porterebbe ad occupare stabilmente sempre (e solo) un certo “posto” nel sistema; si dà, di contro, un sistema di norme, che si fa e rinnova incessantemente in relazione ai casi e secondo valore e che ha appunto nel principio della massima realizzazione possibile della Costituzione come “sistema” il chiodo fisso dal quale incessantemente e stabilmente si tiene.

Il colpo – ne convengo – è forte, evocandosi a sua giustificazione uno dei miti del positivismo giuridico, la certezza del diritto; e però dagli infarti (ammesso che siano tali…) – come si sa – ci si può riprendere, non essendo per fortuna sempre fatali.

Per altro verso, come mi sono sforzato di argomentare più volte, non è invero consigliabile abbandonarsi ad una visione ideale (o, appunto, mitica) della certezza stessa, la quale ha senso se ed in quanto riesca a convertirsi in concreto in certezza dei diritti costituzionali, vale a dire nella effettività della loro tutela. Non mi stancherò infatti di ripetere che la certezza è, sì, un bene prezioso da custodire e trasmettere (un autentico principio supremo, ci rammenta la giurisprudenza costituzionale); dobbiamo però chiederci di quale idea di Costituzione vogliamo farci portatori (torna, come si vede, la correlazione stretta, inscindibile, cui accennavo poc’anzi, tra teoria dei diritti e teoria della Costituzione). Personalmente, seguito ad essere affezionato alla definizione datane dal già richiamato art. 16 della Dichiarazione del 1789, che vede il nucleo espressivo della Costituzione stessa nella salvaguardia dei diritti fondamentali, nei cui riguardi si pone in posizione servente il principio della separazione dei poteri (il secondo frammento della nota formula frutto della illuminata intuizione dei rivoluzionari francesi).

L’esperienza, d’altro canto, avvalora che sono numerose e diffuse, quotidianamente ricorrenti, le pratiche giuridiche nel corso delle quali gli operatori sono chiamati a far luogo a criteri sostanziali puri (o, meglio, assiologico-sostanziali), senza che ciò sia di per sé motivo di scandalo (si pensi, ad es., all’abrogazione tacita e, più in genere, all’interpretazione e, insomma, a tutto ciò che ha a che fare con le norme, il loro avvicendamento nel tempo, l’efficacia o il giudizio sulla loro validità sostanziale, che si dispone ad un piano e va visto da una prospettiva di ordine sostanziale).

  1. Il “dialogo” quale strumento di stabilizzazione e di rinnovamento a un tempo della giurisprudenza, la conciliazione di uniformità e differenziazione per effetto della “federalizzazione” dei diritti, che si avvale del metodo di una produzione giurisprudenziale in progress, idonea a prendere corpo a mezzo di “catene” di atti funzionalmente connessi, bisognosa tuttavia di poggiare su una previa, misurata ed incisiva allo stesso tempo, disciplina (anche di rango costituzionale) dei diritti

È pur vero tuttavia – e qui colgono nel segno quanti manifestano preoccupazione per le sorti della certezza – che occorre mettere in campo meccanismi di stabilizzazione della giurisprudenza; e il solo carburante in grado di azionarli e portarli ad effetto è il “dialogo” intergiurisprudenziale che si conferma essere strumento di centrale rilievo. Uno strumento che, nondimeno, non conviene che sia per intero rimesso al moto spontaneo di coloro che se ne avvalgono ma che dev’essere, a mia opinione, sorretto da un pugno di canoni essenziali che ne incanalano ed orientano lo svolgimento. Canoni che, per vero, in parte si hanno (e il riferimento va ora, ovviamente, fatto soprattutto al rinvio pregiudiziale), per quanto i risultati in concreto ottenuti non siano ad oggi in tutto appaganti[22], ma che richiedono ulteriori, non secondarie correzioni e, soprattutto, integrazioni.

L’intreccio dei rapporti tra le Corti europee, tanto inter se quanto con le Corti nazionali, è ormai tale da rendersi urgente l’allestimento di canali di collegamento specificamente sul fronte che porta a Strasburgo, al fine di incoraggiare la convergenza degli indirizzi giurisprudenziali senza la quale potrebbero determinarsi tensioni e contraddizioni che poi fatalmente si scaricherebbero soprattutto sui giudici nazionali, i terminali di complesse e sofferte operazioni di bilanciamento assiologico riguardanti i diritti.

Qualche passo si è invero fatto nella direzione qui auspicata (in ispecie, grazie al prot. 16 annesso alla CEDU, che nondimeno appare esibire limiti gravi di rendimento[23]) ma molti altri ancora devono essere compiuti al fine di dare un assetto complessivamente soddisfacente alla relazioni tra le Corti. Senza che se ne possa ora dire con la dovuta estensione, mi limito solo ad enunciare due novità che sarebbe urgente introdurre: la estensione del meccanismo di consultazione alla Corte europea, dal prot. suddetto riservato – come si sa – unicamente ai giudici di ultima istanza[24], e, soprattutto, la previsione di strumenti di reciproca consultazione tra le Corti europee[25]. È chiaro che la formalizzazione della mutua consultazione lega e frena, in una certa misura, i movimenti delle Corti stesse, segnatamente di quelli della Corte che di volta in volta chiede e riceve il parere, laddove fin qui esse hanno goduto di piena libertà d’azione, potendo scegliere se e quando farsi reciproco richiamo nella propria giurisprudenza, selezionare i precedenti e, talvolta, anche manipolarli, così come peraltro fanno persino nei riguardi di… se stesse[26]. I vantaggi che, nondimeno, potrebbero aversi dall’accoglimento della proposta qui patrocinata superano – a me pare – di gran lunga i costi, sol che si pensi alla riduzione vistosa, se non proprio all’azzeramento, che verosimilmente è da attendersi dei casi di scollamento degli indirizzi, quando non del loro irriducibile contrasto, foriero poi di guasti notevoli – come si diceva – specie nelle sedi nazionali in cui si amministra giustizia.

In disparte, ad ogni buon conto, l’ipotesi della razionalizzazione positiva del “dialogo” intergiurisprudenziale, pur se particolarmente contenuta al fine proprio di non ingessarne gli svolgimenti e orientamenti, resta il significato di quest’ultimo in sé e per sé. Ed è bensì vero che esso non è comunque in grado di assicurare la necessaria e sistematica convergenza delle giurisprudenze. Parlandosi e chiarendosi i rispettivi punti di vista, la convergenza stessa può comunque disporre di chances per potersi affermare che altrimenti di sicuro non avrebbe. E gli esempi – come si diceva – possono farsi numerosi, in relazione tanto a questioni di biodiritto quanto a questioni di ordine economico-sociali o di altro ordine ancora, per la cui soluzione il “dialogo” si è rivelato una risorsa preziosa e feconda, di cui si sono avvalsi tutti i giudici, costituzionali e non, che incoraggia a proseguire risolutamente e speditamente lungo la via intrapresa[27].

Pescando a caso tra le molte suggestioni e indicazioni offerte dall’esperienza, basti solo porre mente all’incidenza esercitata sullo sviluppo della giurisprudenza (e, in minor misura, della legislazione) nazionale da parte di quella europea, per ciò che attiene al riconoscimento del diritto a conoscere le proprie origini biologiche[28], alla condizione delle coppie composte da persone dello stesso sesso, nonché a quella dei detenuti resa disumana per effetto del sovraffollamento carcerario, alla fecondazione medicalmente assistita, al lavoro, alla proprietà[29], alla riservatezza e tutela dei dati personali[30].

Ovviamente, non mancano – come pure si diceva – le indicazioni di segno opposto, che danno testimonianza di una divaricazione di posizioni tra le Corti e delle difficoltà e remore a comunicare costruttivamente a vicenda: tutti casi nei quali – come si è fatto altrove notare – il dialogo, a conti fatti, si snatura e converte in plurimi monologhi tra parlanti lingue diverse, incomprensibili per ciascuno degli attori sulla scena.

Posseggo al riguardo una sola certezza, nella quale confesso di radicarmi sempre di più: che, laddove dovessero affermarsi e sempre di più crescere, per numero e rilievo degli effetti prodotti, posizioni irrigidite e chiusure autoreferenziali delle Corti, non solo non si costruirebbe nulla di buono ma – peggio – verrebbe tradita la missione alla quale le Corti stesse sono chiamate dalle Carte di cui sono (e devono costantemente essere) istituzionalmente garanti, non offrendosi a queste ultime il servizio che dalle prime si attendono e non dandosi dunque una loro fedele e compiuta rappresentazione nell’esperienza.

Si è dietro veduto che, in un contesto connotato da una integrazione sovranazionale avanzata e in un mondo – come usa dire, con termine brutto ma efficace – ormai irreversibilmente “globalizzato”, le Carte sono strutturalmente “intercostituzionali” e “intergiurisprudenziale” ha dunque da essere la salvaguardia dei diritti.

Il modo più adeguato per riconciliare e far reciprocamente convergere le tendenze alla uniformità e le tendenze alla diversificazione, quali si manifestano in seno tanto all’identità nazionale quanto a quella europea, identità – come si è fatto notare – internamente composite, ciascuna in sé racchiudendo ed esprimendo i tratti propri dell’altra, è, a mia opinione, quello di mutuare gli schemi propri dell’organizzazione federale, di “federalizzare” appunto i diritti, adeguandovi quindi le tecniche decisorie che danno forma alle operazioni di ponderazione dei diritti stessi, sia inter se che con altri beni della vita[31].

Non è a caso, d’altronde, che sempre più di frequente si assista a pronunzie delle Corti europee che danno indicazioni di principio, sollecitando poi al fine del loro opportuno svolgimento le Corti nazionali e che parimenti non di rado i tribunali costituzionali diano vita essi pure ad analoghe pronunzie, in vista della graduale e per quanto possibile morbida ed articolata implementazione dei principi stessi, conformemente alla varietà dei casi che ne sono riguardati ed alla complessità degli interessi in gioco.

Non si commetta tuttavia l’errore di ritenere che il moto e il verso siano unicamente “discendenti”, segnati da “direttive” impartite dai giudici europei a quelli nazionali, chiamati ad un mero ruolo servente, ancorché connotato da margini di manovra non poco consistenti in sede di specificazione-attuazione delle “direttive” stesse. Una volta, infatti, ambientate le relazioni tra gli ordinamenti (e le Corti che ne sono garanti) al piano culturale ancora prima (e più) che a quello positivo e spianato il terreno sul quale esse possono con profitto svolgersi a mezzo degli strumenti coi quali prendono corpo le esperienze della interpretazione, l’esito naturalmente discendente da siffatte premesse è la incessante e circolare influenza che le Corti possono esercitarsi (e sempre più spesso effettivamente esercitano) a vicenda. Non poche volte, infatti, la spinta iniziale per la formazione degli indirizzi delle Corti europee viene proprio da quei giudici nazionali che quindi, una volta giunti a maturazione gli indirizzi stessi, sono da questi ulteriormente incoraggiati e proseguire lungo la via già tracciata e in parte percorsa, se del caso correggendo e complessivamente mettendo a punto l’originaria impostazione.

L’esperienza delle decisioni-pilota della Corte europea e delle additive di principio della Corte costituzionale è altamente emblematica di questa tendenza segnata dalla mutua alimentazione degli orientamenti giurisprudenziali e volta, per quanto possibile, alla apertura delle soluzioni ed alla flessibilizzazione di discipline positive che, laddove invece irrigidite, darebbero vita ad inconvenienti gravi ed a squilibrate ponderazioni su basi di valore.

Gli esempi sopra fatti a riguardo del diritto a conoscere le proprie origini biologiche o al sovraffollamento carcerario o altri esempi ancora concernenti la procreazione, la vita di coppia ecc. rendono tutti testimonianza di questo che appare invero essere uno dei segni più marcati dell’esperienza presente in merito alla tutela dei diritti.

Come si è tentato in altri luoghi di mostrare, viene in tal modo a prendere forma una “catena” di atti, alcuni prodotti in ambito esterno ed altri di diritto interno, funzionalmente connessi e convergenti allo scopo di realizzare un bilanciamento, anche appunto al piano delle relazioni interordinamentali, idoneo a consentire alle due componenti dell’identità costituzionale di trovare comunque appagamento. Una giurisprudenza in progress, la si è altrove definita, che mostra i limiti di antiche e ad oggi diffuse credenze, volte a considerare gli atti esclusivamente uti singuli, siccome idonei ciascuno a produrre un effetto suo proprio, laddove – senza ovviamente escludere siffatta idoneità – ciò che maggiormente conta, perlomeno in talune esperienze, è l’effetto unitario riconducibile alla “catena” in quanto tale, più (e prima ancora) che agli “anelli” di cui si compone.

Mi sbaglierò ma credo che le speranze di un’ulteriore integrazione sovranazionale, anche al piano delle relazioni tra le Corti, che possa rinvenire al proprio interno la spinta decisiva per la propria compiuta maturazione sono legate proprio alla fattibilità di un modello che risulti connotato da interventi soft delle Corti sovranazionali, coi quali si stabilisca la cornice e si tracci l’orientamento per un’azione in tandem posta in essere in ambito interno dai giudici costituzionali e da quelli comuni, a completamento e perfezionamento dell’opera avviata dalle prime.

Solo rendendo reciprocamente complementari e convergenti verso scopi comuni i ruoli delle Corti può – a me pare – centrarsi l’obiettivo di un soddisfacente appagamento dei diritti e, allo stesso tempo, preservare l’equilibrio tra le Corti stesse e, di riflesso, le identità costituzionali di cui esse sono chiamate a farsi garanti.

Meccanismi formalizzati di raccordo tra le Corti, comunque risultanti da essenzialità di disposti che li regolano e, perciò, idonei ad assicurare la necessaria agilità di movenze alle relazioni tra le Corti, agevolandone la duttilità degli interventi, nondimeno non bastano. Occorre, infatti, che tutto ciò sia fatto poggiare su un terreno spianato da una congrua disciplina legislativa (anche di rango costituzionale[32]) che tracci dunque il solco lungo il quale la giurisprudenza, in ciascuna delle sue plurime forme espressive, abbia modo di svolgersi per giungere alla meta di un adeguato appagamento dei diritti. Non mi stancherò di rinnovare l’invito, in altre sedi rivolto, a fermare l’attenzione su un punto di cruciale rilievo, vale a dire che il volto dello Stato odierno non può essere né quello usualmente sintetizzato nella formula ad effetto dello “Stato giurisdizionale” né l’altro, fedele alla tradizione liberale dell’Europa continentale, dello “Stato legislativo”: due raffigurazioni entrambe, per l’uno o per l’altro verso, eccessive e, dunque, a conti fatti, parziali e deformanti.

Di contro, occorre farsi portatori – a me pare – di un modello di Stato in seno al quale ciascuna delle sedi istituzionali in cui si articola è sollecitata ad incarnare un ruolo viepiù impegnativo e crescente, in cui cioè si abbia un ruolo forte sia degli organi della direzione politica e sia degli organi di garanzia (per ciò che qui specificamente importa, dei giudici, comuni e costituzionali). Insomma, uno Stato che è, a un tempo, “legislativo” e “giurisdizionale”, se vogliamo riprendere queste usuali, ancorché logore, etichette, nel quale l’equilibrio complessivo del sistema risulti – perlomeno, secondo modello – costantemente preservato e idoneo ad essere trasmesso anche ai tempi a venire, in cui perciò non si abbiano più “diritti senza legge”[33], rimessi per intero in ordine al loro riconoscimento ed alla loro tutela ad occasionali e non di rado improvvisati interventi regolatori (pur se circoscritti quoad effectum) dei giudici, in tal modo sovraccaricati di un peso e di una responsabilità, morale prima ancora che giuridica, che non possono (e non devono) da sé soli portare.

Occorre, in breve, dotare il dialogo tra le Corti di un orientamento e di un verso che, negli ordinamenti a tradizione di diritto scritto, non possono che venire dalla legge, costituzionale in prima battuta e, a seguire, comune.

  1. Una succinta notazione finale, a riguardo della comparazione quale strumento necessario, di rilievo crescente, per la compiuta comprensione e l’incessante rigenerazione semantica degli enunciati delle Carte “intercostituzionali”, l’ottimale affermazione del dialogo intergiurisprudenziale, il ravvicinamento tra civil e common law, la produzione, verifica e salvaguardia delle tradizioni dei diritti

Strumento indispensabile perché un dialogo effettivamente paritario e reciprocamente rispettoso possa prendere corpo e portare frutti, nel senso qui auspicato, è che si faccia un uso diffuso, allo stesso tempo accorto ed incisivo, della comparazione, in tutte le sue possibili forme ed espressioni[34]: tanto di quella “verticale”, al piano delle relazioni tra diritto internazionale e sovranazionale (positivo e, soprattutto, giurisprudenziale), quanto dell’altra “orizzontale” (tra ordinamenti della medesima specie o livello, principalmente di quelli statali), la quale ultima pur essendo ultimamente cresciuta, risulta nondimeno ancora oggi vistosamente carente[35].

D’altronde, è un dato di comune evidenza quello per cui senza la comparazione stessa non è possibile far luogo alla elaborazione, verifica, costante aggiornamento delle tradizioni dei diritti. Il che vale come dire che l’interpretazione delle Carte in genere (Costituzione compresa) non può solidamente impiantarsi e proficuamente svolgersi facendo a meno della comparazione stessa, ove si abbia a cuore di dare il giusto conto al rilevato carattere “intercostituzionale” delle Carte stesse. D’altronde, come potrebbe mai prendere forma quella integrazione delle Carte nei fatti interpretativi, di cui discorre la già richiamata sent. n. 388 del 1999, se non comparando?

La comparazione consente infatti di “misurare”, sia pure alle volte invero in modo approssimativo[36], il grado dell’appagamento ottenuto dai diritti o altri interessi, spianando pertanto la via al radicamento del canone della miglior tutela; ancora prima, la comparazione è il passaggio obbligato per far pervenire l’identità costituzionale alla compiuta coscienza di sé[37]. Un esito, questo, linearmente discendente dalla natura internamente composita dell’identità stessa che – come si è venuti dicendo – è costituzionale nel suo “internazionalizzarsi” e “sovranazionalizzarsi”, così come, di rovescio, l’identità internazionale e sovranazionale tende alla propria “costituzionalizzazione” complessiva.

La comparazione è, poi, causa ed effetto allo stesso tempo di quel ravvicinamento tra civil e common law che costituisce, per diffuso riconoscimento, una delle tendenze ordinamentali di maggior rilievo del tempo presente. Non a caso, per un verso, il diritto giurisprudenziale va facendosi prepotentemente largo nei Paesi dell’Europa continentale, colmando lacune strutturali del diritto legislativo e rendendone viepiù palesi i limiti di rendimento per ciò che attiene al complessivo soddisfacimento dei diritti. Per un altro verso, parimenti crescente appare essere l’interesse in larghi strati della cultura giuridica dei Paesi di tradizione anglosassone, a partire dalla stessa Gran Bretagna, verso istituti tipici degli ordinamenti a diritto essenzialmente scritto[38].

Il dialogo tra le Corti può dunque produrre (o, meglio, concorrere per la sua parte a produrre) effetti strutturali, di innovazione ordinamentale: in Gran Bretagna – come è stato mostrato anche nel corso dei nostri lavori[39] – ha portato (o, direi, con maggiore cautela, sta portando) ad una trasformazione della common law; in Europa continentale (e, per ciò che più da presso ci tocca, nel nostro Paese), poi, va determinando, come si è accennato, con la sua stessa esistenza, un diverso equilibrio tra diritto giurisprudenziale e diritto legislativo dagli imprevedibili ulteriori sviluppi.

Ecco perché incontri quale quello odierno hanno uno speciale significato, che va apprezzato e ulteriormente coltivato ed alimentato, anche estendendoli a cultori di discipline diverse da quelle giuridiche (tra i quali, principalmente, economisti, sociologi, politologi). Se non avremo piena consapevolezza del rilievo di questa aspettativa e, soprattutto, la capacità di darvi voce e seguito con ulteriori iniziative culturali credo che verremo meno al compito che ci siamo assunti nel momento in cui abbiamo scelto di dedicarci agli studi cui quotidianamente attendiamo.

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[1] Particolarmente insistiti i riferimenti nella nostra giurisprudenza costituzionale al “sistema”: ineccepibili per l’aspetto metodico-teorico ma non di rado strumentali, specie laddove risultino piegati all’obiettivo di resistere al pressing delle Corti europee (a riguardo del quale, indicazioni più avanti): v., dunque, ex plurimis, Corte cost. nn. 236 del 2011; 264 del 2012; 1, 170 e 202 del 2013; 10 e 49 del 2015.

[2] Ho cominciato a discorrere di un ordine “intercostituzionale” nel mio Sovranità dello Stato e sovranità sovranazionale, attraverso i diritti umani, e le prospettive di un diritto europeo “intercostituzionale”, in Dir. pubbl. comp. eur., 2/2001, 544 ss., riprendendo quindi ed ulteriormente precisando il concetto in più scritti, tra i quali, Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”, in www.rivistaaic.it, 4/2013, 8 novembre 2013. In argomento, v., tra gli altri, A. Gusmai, Il valore normativo dell’at­ti­­vità interpretativo-applicativa del giudice nello Stato (inter)costituzio­nale di diritto, in www.rivistaaic.it, 3/2014, 11 luglio 2014, spec. al § 4, e, dello stesso, ora, Giurisdizione, interpretazione e co-produzione normativa, Cacucci, Bari 2015, spec. al cap. II.

[3] La querelle riguardante l’essenza e la funzione della Costituzione è – come si sa – antica e al proprio interno variamente articolata: per far capo unicamente agli scritti di recente apparsi, v., tra gli altri, i contributi che sono in Quad. cost. di R. Bin, Che cos’è la Costituzione, 1/2007, 11 ss., seguito dal mio Teorie e “usi” della Costituzione, 3/2007, 519 ss.; G. Bognetti, Cos’è la Costituzione? A proposito di un saggio di Roberto Bin, e O. Chessa, Cos’è la Costituzione? La vita del testo, entrambi nel fasc. 1/2008, rispettivamente, 5 ss. e 41 ss., e, ancora ivi, A. Barbera, Ordinamento costituzionale e carte costituzionali, 2/2010, 311 ss., del quale v., ora, le precisazioni che sono in Costituzione della Repubblica italiana, in Enc. dir., Ann., VIII (2015), 263 ss.; nuovamente G. Bognetti, Costantino Mortati e la Scienza del diritto, e F. Di Donato, La Costituzione fuori del suo tempo. Dottrine, testi e pratiche costituzionali nella Longue durée, ancora in Quad. cost., 4/2011, rispettivamente 803 ss. e 895 ss. Inoltre, F. Gallo, Che cos’è la Costituzione? Una disputa sulla rifondazione della scienza giuridica, in www.rivistaaic.it, 1/2011, 22 marzo 2011; M. Carducci, Brevi note comparate su Costituzione-fondamento e Costituzione-limite, in Studi in onore di F. Modugno, I, Jovene, Napoli 2011, 519 ss. e, pure ivi, G. Razzano, Il concetto di costituzione in Franco Modugno, fra positivismo giuridico e “giusnaturalismo”, III, 2771 ss.; F. Rimoli, L’idea di costituzione. Una storia critica, Carocci, Roma 2011; M. Luciani, Dottrina del moto delle Costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in www.rivistaaic.it, 1/2013, 1° marzo 2013; G. Azzariti – S. Dellavalle, Crisi del costituzionalismo e ordine giuridico sovranazionale, con introduz. di L. Ventura, ESI, Napoli 2014; F. Ferrari, Potere costituente e limiti (logici) alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, in Giur. cost., 6/2014, 4901 ss., e, con specifico riferimento alle prospettive di riforma, A. Poggi, Riforme costituzionali e “concezioni” della Costituzione, in Lo Stato, 4/2015, 83 ss., e S. Sicardi, Costituzione, potere costituente e revisione costituzionale alla prova dell’ultimo ventennio, in AA.VV., Vent’anni di Costituzione (1993-2013). Dibattiti e riforme nell’Italia tra due secoli, Il Mulino, Bologna 2015, 9 ss.

[4] Per la medesima ragione sopra indicata, non riprendo qui la vessata questione se della “Costituzione” possa propriamente ed esclusivamente discorrersi con riguardo agli ordinamenti di tradizioni liberali ovvero se il termine (e il concetto dallo stesso evocato) possieda una più larga e generale valenza (su ciò, part., gli studi approfonditi di A. Spadaro, del quale richiamo qui solo il suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994, nonché L’idea di Costituzione fra letteratura, botanica e geometria. Ovvero: sei diverse concezioni “geometriche” dell’“albero” della Costituzione e un’unica, identica “clausola d’Ulisse”, in AA.VV., The Spanish  Constitution in the European Constitutionalism Context, a cura di F. Fernández Segado, Dykinson, Madrid 2003, 169 ss.).

[5] Su siffatta connotazione strutturale della Costituzione, v., sopra tutti, A. Spadaro, Dalla Costituzione come “atto” (puntuale nel tempo) alla Costituzione come “processo” (storico). Ovvero della continua  evoluzione del parametro costituzionale attraverso i giudizi di costituzionalità, in Quad. cost., 3/1998, 343 ss.; del “moto” delle Costituzioni ha, di recente, discorso M. Luciani, Dottrina del moto delle Costituzioni e vicende della Costituzione repubblicana, in www.rivistaaic.it, 1/2013, 1 marzo 2013; nella stessa Rivista, V. Teotonico, Riflessioni sulle transizioni. Contributo allo studio dei mutamenti costituzionali, 3/2014, 1 agosto 2014.

[6] … nella Introduzione ai lavori di O. Pollicino.

[7] Sul mutuo sostegno che, secondo modello, siffatte forme di esperienza giuridica si danno dirò meglio più avanti.

[8] … a riguardo del quale, per un quadro di sintesi delle sue forme espressive, ora, P. Mori, Il principio di apertura al diritto internazionale e al diritto europeo, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Giuffrè, Milano 2015, 507 ss.

[9] Il principio ha attratto l’attenzione di una nutrita schiera di studiosi: tra gli altri, S. Gambino, Livello di protezione dei diritti fondamentali (fra diritto dell’Unione, convenzioni internazionali, Costituzioni degli Stati membri) e dialogo fra le Corti. Effetti politici nel costituzionalismo interno ed europeo, in www.federalismi.it, 13/2014, 25 giugno 2014; G. D’Amico, La massima espansione delle libertà e l’effettività della tutela dei diritti, in AA.VV., Il diritto e il dovere dell’uguaglianza. Problematiche attuali di un principio risalente, a cura di A. Pin, Editoriale Scientifica, Napoli 2015, 17 ss., nonché negli Scritti in onore di G. Silvestri; pure ivi, E. Castorina – C. Nicolosi, “Sovranità dei valori” e sviluppo della tutela dei diritti fondamentali: note sull’evoluzione della giurisprudenza statunitense; L. Cappuccio, La massima espansione delle garanzie tra Costituzione nazionale e Carte dei diritti, e C. Panzera, Rispetto degli obblighi internazionali e tutela integrata dei diritti sociali, spec. al § 3 (quest’ultimo può vedersi anche in Consulta OnLine, 2/2015, 3 giugno 2015, 488 ss.); v. inoltre, L. Tria, La tutela dei diritti fondamentali. Le tecniche di interrelazione normativa indicate dalla Corte costituzionale. L’abilità di usare il patrimonio di sapienza giuridica ereditato dal passato per preparare il futuro, in www.cortecostituzionale.it, dicembre 2014; T. Giovannetti – P. Passaglia, La Corte ed i rapporti tra diritto interno e diritto sovranazionale, in AA.VV., Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (2011-2013), a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2014, 389 ss.; C. Amalfitano – M. Condinanzi, Unione europea: fonti, adattamento e rapporti tra ordinamenti, Giappichelli, Torino 2015, 126 ss. e 168 ss.; A. Spadaro, Sull’aporia logica di diritti riconosciuti sul piano internazionale, ma negati sul piano costituzionale. Nota sulla discutibile “freddezza” della Corte costituzionale verso due Carte internazionali: la CSE e la CEAL, in Consulta OnLine, 2/2015, 3 giugno 2015, e, dello stesso, ora, La “cultura costituzionale” sottesa alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, fra modelli di riferimento e innovazioni giuridiche, in AA.VV., La Carta dei diritti dell’Unione Europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), a cura di L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta, in corso di stampa per i tipi della Giappichelli, spec. al § 10; G.M. Salerno, I diritti fondamentali tra le tradizioni costituzionali comuni e i controlimiti a tutela dell’identità costituzionale, in Il Filangieri, Quad. 2014 su Unione europea e principi democratici, Jovene, Napoli 2015, 103 ss.

[10] Ho patrocinato più volte il necessario utilizzo del principio della miglior tutela quale fattore di (pre)orientamento dell’interpretazione conforme (ad es., nel mio Primato del diritto dell’Unione europea in fatto di tutela dei diritti fondamentali?, in Quad. cost., 4/2015, § 4).

[11] Ad es., in Sei tesi in tema di diritti fondamentali e della loro tutela attraverso il “dialogo” tra Corti europee e Corti nazionali, in www.federalismi.it, 18/2014, 1 ottobre 2014.

[12] Sulle non lievi questioni teorico-pratiche legate alla formula dell’art. 4, cit., v., tra gli altri, S. Gambino, Identità costituzionali nazionali e primauté eurounitaria, in Quad. cost., 3/2012, 533 ss.; B. Guastaferro, Beyond the Exceptionalism of Constitutional Conflicts: The Ordinary Functions of the Identity Clause, in Yearbook of European Law, 1/2012, 263 ss. e, della stessa, Legalità sovranazionale e legalità costituzionale. Tensioni costitutive e giun­ture ordinamentali, Giappichelli, Torino 2013, spec. 190 ss.; F. Vecchio, Primazia del diritto europeo e salvaguardia delle identità costituzionali. Effetti asimmetrici del­l’europeizzazione dei controlimiti, Giappichelli, Torino 2012; M. Starita, L’identità costituzionale nel diritto dell’Unione europea: un nuovo concetto giuridico?, in AA.VV., Lo stato costituzionale di diritto e le insidie del pluralismo, a cura di F. Viola, Il Mulino, Bologna 2012, 139 ss.

[13] Così, efficacemente, V. Piccone, La primauté nell’Unione allargata, relaz. al workshop su Diritto dell’Unione Europea e Internazionale tenutosi presso la Corte di Cassazione il 12 e 13 novembre 2015, in paper.

[14] Manifestazioni di resistenza al principio del primato – come si preciserà meglio più avanti – si sono avute in alcuni ordinamenti, per quanto la tendenza complessiva sembri essere nel segno della sostanziale acquiescenza da parte delle Corti nazionali all’indirizzo delineato dalla giurisprudenza dell’Unione che – come si è appena rammentato – è fermo in ordine alla sistematica affermazione del diritto eurounitario nei riguardi di quello interno, secondo quando è stato, ancora di recente, rammentato dal Presidente della Corte di giustizia, K. Lenaerts, The Legacy of Costa v. Enel, relaz. al workshop sopra cit., in paper.

[15] … secondo quanto si vedrà meglio più avanti, spec. al § 4.

[16] Aggiungo questo secondo termine non per convinzione ma unicamente per tener conto del pensiero della Consulta che – come si sa – ha risolutamente affermato, sin dalle sentenze “gemelle” del 2007, esser priva la Convenzione dell’attributo proprio delle organizzazioni che, sole, possono beneficiare delle limitazioni di sovranità, ex art. 11 cost., per quanto la stessa sent. n. 349 non abbia trascurato di sottolineare che la Convenzione si pone quale una “realtà giuridica, funzionale e istituzionale” (punto 6.1 del cons. in dir.).

[17] … di cui duole dover constatare che molti ancora oggi se ne fanno un’idea mitica o ideale, discendente da (ed avvinta a) una visione distorta e parziale dell’identità costituzionale.

[18] Ho avuto modo di argomentare questa tesi, ancora da ultimo, nel mio Primato del diritto dell’Unione europea in fatto di tutela dei diritti fondamentali?, cit., spec. al § 2.

[19] … principalmente, da noi, come si sa, oltre che nella già richiamata pronunzia del 1999, in Corte cost. n. 317 del 2009 e successive, laddove si ha traccia particolarmente marcata del principio della miglior tutela.

[20] Riferimenti in O. Pollicino, Qualcosa è cambiato? La recente giuris­prudenza delle Corti costituzionali dell’est vis-à-vis il processo di integrazione europea, in Dir. Un. Eur., 4/2012, 765 ss. e J. Rideau, The Case-law of the Polish, Hungarian and Czech Constitutional Courts on National Identity and the ‘German Model’, in AA.VV., National constitutional identity and European integration, a cura di A. Saiz Arnaiz e C. Alcoberro Llivina, Intersentia, Antwerpen 2013, 243 ss e, tra gli interventi al nostro Seminario, part. M. Dicosola, Gli stati dell’Europa centro-orientale tra identità nazionale e costituzionalismo europeo, in paper.

[21] Azzeccato il titolo dato da P. Faraguna al proprio intervento al nostro Seminario, dal titolo Il “sospettoso” cammino europeo del Bundesverfassungsgericht; non si trascuri, nondimeno, che il complessivo indirizzo del giudice tedesco risulta essere internamente assai frastagliato ed oscillante tra fedeltà alla nazione ed Europarechtsfreundlichkeit, con una maggiore propensione – a me parrebbe – per il primo corno dell’alternativa, com’è peraltro da ultimo avvalorato dalla vicenda Gauweiler, di cui F. riferisce nel § 9 del suo paper.

[22] A fronte, infatti, di un numero crescente di rinvii fatti alla Corte dell’Unione sta il numero, di sicuro incomparabilmente maggiore pur se non determinabile, di rinvii mancati, a motivo del difetto di consapevolezza e di padronanza dello strumento, secondo quanto avvalora anche una osservazione superficiale del modo con cui quotidianamente si amministra giustizia nelle aule giudiziarie.

[23] Le novità introdotte dall’atto sono – come si sa – in genere valutate positivamente (indicazioni di vario segno, per tutti, in AA.VV., La richiesta di pareri consultivi alla Corte di Strasburgo da parte delle più alte giurisdizioni nazionali. Prime riflessioni in vista della ratifica del Protocollo 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a cura di E. Lamarque, Giappichelli, Torino 2015), pur apparendo solo come un primo passo lungo la via qui indicata.

[24] È chiaro che, poi, dovrà trovarsi il modo per far fronte alla mole imponente di lavoro di cui la Corte europea potrebbe essere gravata, introducendo filtri adeguati o, se del caso, riarticolando al proprio interno la Corte stessa. Le soluzioni, nondimeno, non mancano, come tra l’altro testimonia l’esperienza dei ricorsi diretti (tra i quali, l’amparo) ai tribunali costituzionali.

[25] … e, di conseguenza, la disciplina dei modi con cui i giudici nazionali dovrebbero gestire i casi – diciamo così – di “doppia pregiudizialità”, eurounitaria e convenzionale (volendo ora fare un uso largo della espressione, estendendola altresì alla consultazione della Corte EDU).

[26] La tecnica dell’autocitazione si presta – come si sa – ad usi a largo raggio, in occasione dei quali ciascuna Corte è chiamata a dare prova delle raffinate capacità che possiede nell’adoperare le tecniche decisorie di cui è dotata (con specifico riferimento alla Corte costituzionale, per tutti, v. A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996, spec. 160 ss., e AA.VV., Il precedente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Cedam, Padova 2008).

[27] Indicazioni al riguardo possono aversi da R. Conti, I giudici ed il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Aracne, Roma 2014; G. Laneve, L’attenzione sui diritti sociali, paradigma di un tempo, in www.federalismi.it, 12/2014, 10 giugno 2014, spec. al § 3.2, e, ora, AA.VV., Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, a cura di L. D’Andrea – G. Moschella – A. Ruggeri – A. Saitta, Giappichelli, Torino 2015 (e ivi, con specifico riguardo ai diritti sociali, S. Gambino, Diritti sociali e libertà economiche nelle Costituzioni nazionali e nel diritto europeo, 245 ss.; tra i contributi al nostro incontro, v., spec., G. Romeo, Riposizionare i diritti sociali nelle tradizioni costituzionali comuni, in paper).

[28] La vicenda è stata riconsiderata durante il nostro seminario da B. Barbisan.

[29] … e, in ispecie, alla occupazione acquisitiva, che ha avuto, come si sa, un nuovo assetto in conseguenza delle condanne comminate al nostro Stato dalla Corte EDU (riferimenti, nel corso dei nostri lavori, in L. Vagni, Brevi riflessioni su cittadinanza, diritti fondamentali e proprietà, spec. al § 3, dove sono altresì pertinenti rilievi a riguardo del ravvicinamento tra civil e common law, specie per ciò che concerne la “rilettura della proprietà in chiave solidaristica”, su cui mi soffermerò, con una succinta riflessione di ordine generale, a momenti).

[30] Su ciò, la relazione illustrata durante il nostro Seminario da A. Di Martino, Riservatezza e tutela dei dati personali, spec. alla parte IV del paper, che opportunamente insiste sulla ricaduta avutasi in ambito interno di Digital Rights Ireland.

[31] Ho anticipato alcuni dei concetti ora esposti in altri luoghi, tra i quali L’integrazione europea, attraverso i diritti, e il “valore” della Costituzione, in www.federalismi.it, 12/2014, 11 giugno 2014, spec. al § 3.5.

[32] Sulla opportunità di una razionalizzazione costituzionale che coinvolga anche la parte sostantiva della Carta e che anzi parta proprio da questa vado discorrendo da tempo; ed anche per questo profilo si coglie la “leale cooperazione” che può (e deve) intrattenersi tra giudici e legislatore, l’opera di questo, per un verso, risentendo delle suggestioni che vengono dagli indirizzi di quelli e, per un altro (e circolarmente), sollecitando la formazione di nuovi indirizzi, sotto la spinta ed alla luce delle indicazioni venute dalla disciplina positiva.

[33] De I diritti senza legge ha, di recente, discorso A. Morelli, in AA.VV., Crisi dello Stato nazionale, dialo-go intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, cit., 145 ss.; pure ivi, opportuni rilievi a riguardo della tipicità dei ruoli dei decisori politico-istituzionali e dei giudici in G. Moschella, Ruolo dei giudici e ruolo del legislatore a tutela dei diritti fondamentali, 125 ss., nonché, volendo, anche il mio Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, 1 ss., spec. 8 ss.

[34] … della quale, per le ragioni appena esposte, dovrebbe giovarsi, ancora prima del giudice (comune e costituzionale), lo stesso legislatore, traendone profitto nella sua opera di ricognizione e tutela dei nuovi diritti fondamentali ovvero di aggiornamento dei vecchi.

[35] Meramente occasionali, comunque insufficienti, a tutt’oggi i richiami che l’una giurisprudenza statale fa all’altra sul terreno della salvaguardia dei diritti fondamentali. Eppure, a tacer d’altro, è proprio questo il terreno sul quale può farsi luogo in modo adeguato alle necessarie verifiche riguardanti la elaborazione e l’utilizzo appropriato delle “tradizioni costituzionali comuni”, in merito alle quali utili riferimenti, di recente, in O. Pollicino, Corte di giustizia e giudici nazionali: il moto “ascendente”, ovverosia l’incidenza delle “tradizioni costituzionali comuni” nella tutela apprestata ai diritti dalla Corte dell’Unione, in Consulta OnLine, 1/2015, 20 aprile 2015, 242 ss., e, dello stesso, ora, Servono ancora le “tradizioni costituzionali comuni” dopo la Carta di Nizza-Strasburgo?, in AA.VV., La Carta dei diritti dell’Unione Europea e le altre Carte (ascendenze culturali e mutue implicazioni), cit., in paper, oltre che nella Introduzione ai lavori, cit., nonché G.M. Salerno, I diritti fondamentali tra le tradizioni costituzionali comuni e i controlimiti a tutela dell’identità costituzionale, cit., 103 ss.

[36] Per strano che possa per più versi sembrare, ancora oggi assai controverso – nel metodo come pure nei criteri, nelle forme e, soprattutto, nei limiti – è il modo con cui può farsi un uso vigilato e fecondo della comparazione.

[37] Ha opportunamente rammentato E. Calzolaio, intervenendo in chiusura dei lavori della prima sessione del nostro Seminario, che la conoscenza dell’altro è condizione della conoscenza di se stesso.

[38] Si pensi, al riguardo, solo al significato posseduto dalla istituzione della Supreme Court, su cui si è soffermato, nel corso dei nostri lavori, C. Martinelli, Il Regno Unito tra specificità britannica e dialogo con l’Europa, il quale nondimeno ha opportunamente invitato alla cautela per ciò che attiene alla sua eventuale evoluzione ed assimilazione ad una vera e propria Corte costituzionale (§ 3, con richiamo ad una indicazione di A. Torre e P. Martino).

[39] Ancora C. Martinelli, nello scritto sopra cit.