Comparare come tradurre: a proposito di un recente libro di François Ost

Nel suo ultimo libro Traduire. Défense et illustration du multilinguisme (Paris, Fayard, 2009), François Ost esplora i molti aspetti – linguistici, filosofici, etici e giuridici – del “paradigma” della traduzione. Insieme alla grande ricchezza di analisi, il libro ha il merito di invitare il giurista a riflettere su quanto del proprio bagaglio epistemologico dipenda, in ultima istanza, dal legame tra diritto e linguaggio.

Al riparo da qualsiasi riduzionismo, si potrebbe infatti sostenere che ogni controversia sul metodo implichi, prima di tutto, diversi modi di intendere la dimensione linguistica del diritto. Cos’è il positivismo se non la pretesa di fare del diritto una lingua esatta, oggetto di calcolo formale, e cosa il realismo, penso a quello classico americano, se non il tentativo di far combaciare il codice linguistico dei giudici con le prassi sociali?
Per il comparatista, la traduzione costituisce un paradigma rivelatore dei presupposti di metodo della propria riflessione.
La ricerca spasmodica di soluzioni generali, valevoli una volta per tutte, rende ad esempio il comparatista simile ad un traduttore che cerca di appianare, servendosi di un equivalente linguistico universale, le diversità esistenti tra i diversi linguaggi giuridici. Oppure, l’insistenza eccessiva sui vincoli contestuali delle culture giuridiche spinge a ritenere che il comparatista-traduttore possa operare solo per differenze specifiche, senza poter mai intravedere somiglianze di alcun tipo. Nel primo caso, tutto è traducibile, perché tutto, in fondo, è assimilabile ad un linguaggio che si pone come egemonico. Nel secondo caso, invece, nulla è veramente traducibile, perché i condizionamenti culturali sono così penetranti da soffocare qualsiasi possibilità di scambio e di comunicazione.
In entrambi i casi, ci dice Ost, la comparazione presuppone un’idea di traduzione – e, a monte, un linguaggio – coniati in termini di corrispondenza (predicata o negata) tra due entità date e reciprocamente indipendenti.
In realtà, la traduzione, soprattutto per il comparatista, è un procedimento ermeneutico ben più complesso che, a partire dalla selezione dei termini da esaminare, fa dell’oggetto da tradurre/comparare un elemento che non esiste senza la mediazione (linguistica, culturale, immaginativa) del traduttore/comparatista. In ciò sta una suggestione importante del volume di Ost: ogni comparazione consapevole della sua funzione traduttrice, a maggior ragione quando ha a che fare con diritti fondamentali, presuppone un’etica dell’alterità e dell’ospitalità e invita il comparatista a pensare, con Ricoeur, “sé stesso come un altro”.
Il problema, giunti a questo punto, è semmai quello di capire se l’enfasi posta sulla traduzione non porti con sé il rischio di una nuova formalizzazione, derivante dalla sostituzione degli strumenti tradizionali dell’indagine giuridica con strumenti e categorie tratti dalla linguistica.