La Corte di Giustizia e il giurista d’impresa: un’applicazione dei principi comuni agli Stati membri

Con la sentenza 14 settembre 2010 (C-550/07 P) la Corte di Giustizia, respingendo l’impugnazione di una sentenza del Tribunale (17 settembre 2007, cause riunite T-125/03 e T-253/03) che non aveva accolto la richiesta dei ricorrenti, ha confermato il proprio precedente orientamento in materia di tutela della riservatezza delle comunicazioni tra società e avvocati interni. La ricostruzione del fatto da cui ha avuto origine la controversia è la seguente. Durante un accertamento, imposto da una decisione della Commissione europea, svolto da alcuni funzionari della stessa Commissione presso le sedi dell’Akzo Nobel Chemicals Ltd e dell’Akcros Chemicals Ltd, due società con sede nel Regno Unito, è sorta controversia circa alcuni documenti che, ad avviso delle ricorrenti, potevano beneficiare della tutela della riservatezza della comunicazione tra avvocati e clienti.


Tali documenti consistevano in due messaggi di posta elettronica scambiati tra il direttore generale dell’Akzo e un dipendente del servizio giuridico della medesima società.
Il nucleo centrale della controversia concerne, dunque, la possibile qualificazione dei summenzionati documenti come riservati, in quanto si tratterebbe di comunicazioni intercorse tra un avvocato e un proprio cliente. La decisione in esame richiama espressamente la sentenza AM & S Europe c. Commissione (18 maggio 1982, C-155/79) che ammise, in presenza di determinati presupposti, la possibilità di riconoscere carattere riservato a certi documenti aziendali, pur nel silenzio della normativa comunitaria e, in particolare, del regolamento CEE n. 17/1962. «In effetti, il diritto comunitario», scriveva la Corte, «derivante da una compenetrazione non soltanto economica, ma anche giuridica, fra gli Stati membri, deve tenere conto dei principi e delle concezioni comuni ai diritti di questi Stati per quanto riguarda il rispetto della riservatezza relativamente, fra l’altro, a talune comunicazioni fra gli avvocati ed i loro clienti». Principio che, riconosceva la Corte, si riscontrava allora (e si riscontra ancora oggi) nella generalità degli Stati membri, sebbene «la portata ed i criteri per la sua applicazione» fossero variabili. Tuttavia, nonostante le differenze, secondo la Corte potevano essere enucleate due condizioni cumulative in presenza delle quali la corrispondenza tra avvocato e cliente trova tutela ed è quindi qualificata come riservata: si deve trattare di corrispondenza scambiata al fine e nell’interesse del diritto alla difesa del cliente e proveniente da avvocati indipendenti, cioè non legati al cliente da un rapporto d’impiego. Condizione, quest’ultima, imposta con particolare evidenza e consapevolezza dalla Corte, la quale sul punto si era nettamente discostata dall’orientamento manifestato, nell’ambito di quella causa, dall’Avvocato generale.
Proprio l’interpretazione di questa seconda condizione, relativa alla natura del rapporto che lega l’avvocato al proprio cliente, costituisce il principale argomento con cui le ricorrenti contestano la decisione del Tribunale. Un “giurista d’impresa”, sebbene legato alla società con un rapporto di lavoro subordinato, ad avviso delle ricorrenti non potrebbe a priori essere riconosciuto privo di indipendenza. La verifica di questo requisito, infatti, dovrebbe essere svolta in concreto, alla luce dello specifico contratto stipulato tra l’avvocato interno e la società e della normativa nazionale cui lo stesso avvocato è soggetto (nel caso in esame, quella olandese, essendo l’avvocato con cui la comunicazione è intercorsa iscritto all’Ordine forense olandese). Con riferimento al primo aspetto, infatti, il contratto prevedeva che la società dovesse rispettare l’esercizio indipendente delle funzioni di avvocato ed astenersi da ogni atto che potesse ledere tale indipendenza. Per quanto riguarda la normativa olandese, inoltre, le ricorrenti rimarcavano come quest’ultima fosse idonea a rafforzare la posizione dell’avvocato di impresa, iscritto all’Ordine forense e soggetto ad obblighi di disciplina e deontologia professionali, al pari di un avvocato esterno. Per la Corte, tuttavia, queste circostanze non sono decisive. Un avvocato interno, infatti, «non gode dello stesso grado di indipendenza dal suo datore di lavoro di cui gode, nei confronti dei suoi clienti, un avvocato che lavora in uno studio legale esterno», per cui per il primo è più difficile che per il secondo risolvere eventuali conflitti tra i suoi doveri professionali e gli obiettivi del suo cliente. Né questa conclusione comporta, a parere della Corte, una disparità di trattamento con gli avvocati esterni, trattandosi di situazioni sostanzialmente diverse che non possono essere considerate equivalenti sulla base del mero dato formale consistente nell’iscrizione ad un Ordine forense e nella soggezione ai conseguenti vincoli deontologici.
Con il secondo motivo, proposto in via subordinata, le ricorrenti chiedono alla Corte, qualora essa ritenga corretta l’interpretazione che il Tribunale ha dato della precedente pronuncia citata, di mutare la propria giurisprudenza. La soluzione accolta dalla pronuncia del 1982, infatti, si è fondata su dei presupposti (i principi comuni ai diritti degli Stati membri) che oggi sarebbero mutati. Alla luce di tale mutamento, pertanto, non sarebbe più possibile considerare condivisa dagli Stati membri la seconda condizione ritenuta dalla Corte, nel 1982, essenziale per riconoscere la riservatezza delle comunicazioni tra società e avvocati interni. La Corte, tuttavia, respinge decisamente questa ricostruzione, ritenendo che negli Stati membri dell’Unione non sia individuabile alcuna tendenza prevalente favorevole al riconoscimento di tale riservatezza né, d’altro canto, tale riconoscimento può derivare da una supposta evoluzione, in seguito all’entrata in vigore del regolamento 1/2003, delle norme procedurali comunitarie in materia di intese, norme che hanno notevolmente ampliato i poteri di accertamento della Commissione in materia, ma senza incidere in alcun modo sullo status del giurista d’impresa.
La motivazione, su questo punto, è senza dubbio piuttosto succinta, se si pone mente alla giurisprudenza della Corte in materia, che non si accontenta di riscontrare il mancato accoglimento, nella maggior parte degli Stati membri, di certi principi. Di più ampio respiro, invece, sono le conclusioni dell’Avvocato generale J. Kokott, il quale richiama la giurisprudenza della Corte in tema di principi generali fondati sugli ordinamenti giuridici degli Stati membri. In questi casi la Corte fa costante riferimento alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri o ai principi giuridici comuni agli stessi. La Corte, tuttavia, a partire dalla sentenza Internationale Handelsgesellschaft (17 dicembre 1970, C-11/70), ha sempre sostenuto che per affermare la sussistenza di un principio giuridico generale ricavabile dalla disciplina normativa e dai principi vigenti negli Stati membri non è necessario accertare che esista una tendenza uniforme o chiaramente maggioritaria negli ordinamenti giuridici degli stessi Stati, operando con una sorta di criterio matematico. È necessario, invece, procedere ad una valutazione comparativa degli ordinamenti giuridici, in cui si tenga conto «delle finalità e dei compiti dell’Unione europea, nonché della particolare natura dell’integrazione europea e del diritto dell’Unione». Pertanto, anche un principio riscontrabile solo in una minoranza degli Stati membri potrebbe, in linea di principio, divenire parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione. La tutela della riservatezza delle comunicazioni interne, tuttavia, non solo non costituisce una tendenza prevalente nelle scelte legislative degli Stati membri, ma non presenta nemmeno quelle ulteriori caratteristiche che consentirebbero di elevarla al rango di principio giuridico dell’Unione, in quanto tale qualificazione non è giustificata da qualche peculiarità nei compiti e nell’attività svolti dalla Commissione, quale autorità garante della concorrenza.
Con un’ulteriore argomentazione le ricorrenti prospettano, da un lato, la violazione del diritto di difesa, in quanto il ricorso alla consulenza di un avvocato interno non potrebbe garantire la massima efficacia se le comunicazioni con lo stesso non fossero coperte dalla tutela della riservatezza; dall’altro, la violazione del principio della certezza del diritto, in quanto la tutela delle comunicazioni con gli avvocati interni non potrebbe dipendere dalla natura del soggetto procedente, con differenze a seconda che quest’ultimo sia la Commissione o un’autorità nazionale garante della concorrenza. Ad avviso della Corte, tuttavia, anche ammettendo, nel primo caso, che l’assistenza di un avvocato interno rientri nell’ambito della garanzia del diritto di difesa, ciò non esclude l’applicazione «di determinate restrizioni e modalità relative all’esercizio
della professione, senza che ciò debba considerarsi un pregiudizio ai diritti della difesa»; per quanto riguarda la censura relativa alla violazione del principio della certezza del diritto, essa è dichiarata infondata dalla Corte, in virtù della considerazione per cui tale principio non impone di ricorrere, per i procedimenti condotti dalla Commissione e dalle autorità nazionali, a regole e criteri identici in materia di riservatezza delle comunicazioni tra avvocati e clienti.
Il terzo motivo, infine, è fondato sulla violazione del principio dell’autonomia nazionale in materia procedurale e del principio delle competenze di attribuzione. Tuttavia, sostiene la Corte, la normativa comunitaria in attuazione della quale è stata adottata la decisione della Commissione non prevede alcun rinvio al diritto nazionale; pertanto, è necessario interpretare ed applicare il principio della riservatezza delle comunicazioni in modo uniforme, affinché gli accertamenti della Commissione si svolgano allo stesso modo nei diversi Stati membri, senza determinare ingiustificate disparità di trattamento.
La Corte, dunque, respinge l’impugnazione delle società ricorrenti, confermando la propria giurisprudenza e dando una condivisibile interpretazione della figura del giurista d’impresa, la cui dipendenza economica dal datore di lavoro non può essere messa in discussione, sebbene possa essere limitata, sotto alcuni aspetti, dal contratto o dalla normativa nazionale applicabile. Anche in presenza di siffatte limitazioni, tuttavia, le caratteristiche dell’attività dell’avvocato interno differiscono nettamente da quelle che connotano l’attività del libero professionista, al punto di non consentire un’equiparazione, sul piano giuridico, delle due figure.
Prescindendo dalle caratteristiche peculiari che hanno dato luogo alla pronuncia in commento, essa merita di essere segnalata per il fatto di costituire un’interessante applicazione di quel meccanismo che consente di individuare un principio dell’ordinamento comunitario alla luce dei principi accolti dagli ordinamenti degli Stati membri. Meccanismo che, sebbene stretto negli argini predisposti dalla giurisprudenza della Corte per evitare una sua non rigorosa applicazione, consente un’interazione e un dialogo, tra i diversi ordinamenti, forieri di fecondi sviluppi, tali da delineare quello che, dai più attenti osservatori, è stato definito uno “spazio costituzionale comune”, dotato di un certo grado di stabilità e di grandi potenzialità espansive e tale da consentire una miglior definizione e, in alcuni casi, la costruzione dei fondamenti dell’ordinamento comunitario.