Crocifisso, ultimo atto

A distanza di poco più di un anno dalla decisione resa dalla Seconda Sezione della Corte di Strasburgo nell’ormai noto caso Lautsi et autres c. Italie – che aveva condannato l’Italia, lo scorso 3 novembre 2009, per violazione dell’art. 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (diritto all’istruzione), letto in combinato disposto con l’art. 9 della stessa (libertà di pensiero, di coscienza e di religione), stante la previsione dell’obbligo di esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche – è giunto pochi giorni fa il tanto atteso pronunciamento della Grande Chambre, cui il Governo italiano aveva presentato ricorso ai sensi dell’art. 43 della CEDU.

Con 15 voti a favore e due contrari, la Corte si è pronunciata in maniera definitiva (ex art. 44 della Convenzione) su di una questione che ha profondamente diviso dottrina ed opinione pubblica, sia italiana che europea (si vedano, tra i tanti, proprio su questo sito, gli autorevoli interventi di Marta Cartabia e Joseph Weiler), ponendosi, essa, all’interno del più ampio dibattito sulla presenza dei simboli religiosi nei luoghi pubblici, dietro il quale, nell’attuale frangente storico, finisce inevitabilmente per celarsi il problema centrale dell’identità, di cui i simboli stessi sono una delle manifestazioni più evidenti. Il caso in oggetto si presenta, infatti, quale espressione emblematica di quel complesso fenomeno di visibilità crescente delle appartenenze religiose nelle società contemporanee che, lasciate prive di solidi riferimenti spaziali e simbolici a fronte dei processi di frammentazione indotti dal nuovo ordine economico globalizzato, ritrovano proprio nella religione quel forte senso di identità e di orientamento nella vita, tale da trasformare la credenza nell’appartenenza. È su questo articolato terreno che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stata chiamata ad intervenire, nel sempre più difficile tentativo di costruzione di un ordine pubblico europeo in materia di libertà religiosa, costantemente mediando tra unità e diversità.

Tuttavia, ancora una volta, la sistematica deferenza del giudice europeo nei confronti del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati nell’applicazione della Convenzione – al fine di bilanciare l’adempimento degli obblighi pattizi con la tutela di altre esigenze statali – ha fatto sì che il sindacato sulle misure poste in essere dalle autorità nazionali sia stato modulato in considerazione del peculiare contesto socio-religioso di riferimento. Completamente rovesciando l’impostazione della Seconda Sezione della Corte, che aveva, invece, operato nel senso di un deciso overruling dei precedenti giurisprudenziali sul punto, la Grande Camera ha concluso, infatti, a favore della compatibilità delle norme che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle classi delle scuole pubbliche italiane con il diritto garantito dall’articolo 2 del Protocollo addizionale alla Convenzione. Facendo leva su quel tipico self-restraint che ha sempre visto gli organi di Strasburgo attenti a tenere nella dovuta considerazione l’identità di ciascun membro CEDU, allo scopo di conciliare, per il tramite del principio di proporzionalità, il rispetto del dettato convenzionale con la sovranità rimasta in capo agli Stati, specie nella disciplina di materie ritenute particolarmente sensibili, la Corte ha stabilito che la scelta circa il “perpétuer ou non une tradition” (§ 68) – quale, appunto, l’affissione del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane – rientra in quel più vasto marge de manoevre di cui lo Stato italiano gode, in quanto tale incapace di produrre una compressione del diritto, rivendicato dalla ricorrente, di assicurare ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle sue convinzioni.

Ora, indubbiamente la Corte, nel suo ragionamento, non poteva non tener conto del fatto che l’Europa è caratterizzata da una “grande diversité entre les Etats qui la composent, notamment sur le plan de l’évolution culturelle et historique” (§ 68), diversità che spiega l’assenza di un consensus europeo proprio in tema di esposizione di simboli religiosi nelle scuole pubbliche (§§ 26-28; § 70); ma non poteva, parimenti, non rilevare che il riconoscimento di questa sorta di “diritto alla differenza” non si sottrae ad un rigoroso giudizio di compatibilità con i parametri convenzionali (arrêt Leyla Sahin c. Turquie, 10 novembre 2005, n. 44774/98, § 110), lì dove le libere scelte degli Stati nel campo dell’istruzione e dell’insegnamento – e, dunque, in merito al ruolo che la religione vi occupa (arrêts Kjeldsen, Busk Madsen et Pedersen c. Danemark, 7 dicembre 1976, §§ 50-53, Folgerø et autres c. Norvège, 29 giugno 2007, § 84, e Zengin c. Turquie, 9 ottobre 2007, §§ 51-52) – siano suscettibili di tradursi in una possibile “forme d’endoctrinement”. Ciò nonostante, il giudice di Strasburgo non è arrivato a ritenere che la presenza del crocifisso sulle pareti delle aule delle scuole pubbliche italiane sia tale da integrare l’ipotesi di un’opera di indottrinamento da parte dello Stato convenuto e, dunque, di una violazione degli obblighi sanciti dall’art. 2 del Protocollo n. 1, appellandosi, a tal fine, a quel criterio statistico-numerico di antica memoria, in nome del quale aveva, ad esempio, già ritenuto ammissibili ai sensi della normativa convenzionale – senza, perciò stesso, evitare critiche molto aspre – le restrizioni apportate alla libertà di manifestazione del pensiero, in quanto dirette a perseguire lo “scopo legittimo” della tutela del diritto di libertà religiosa della confessione di maggioranza (arrêts Otto-Preminger-Institut c. l’Autriche, 20 settembre 1994, e Wingrove c. le Royaume-Uni, 25 novembre 1996). Nel caso di specie qui discusso la Corte, pur nella consapevolezza che l’esposizione del crocifisso finisca per fornire alla religione cattolica, maggioritaria in Italia, una “visibilité prépondérante” nell’ambiente scolastico – poiché quel simbolo, al di là dell’indubbia, più comprensiva valenza culturale che gli si voglia, a ragione, attribuire, rimanda, inconfutabilmente, “au christianisme” (§ 71) – non ha considerato gli effetti di tale visibilità come ostativi all’esercizio del diritto dei genitori a che l’educazione e l’insegnamento scolastici siano garantiti ai propri figli conformemente ai loro orientamenti religiosi ed ideologici, dovendo, anzi, questi ultimi sentirsi chiamati ad uno stringente onere della prova – a giudizio della Corte non prodotto in tale occasione – per dimostrare in quale modo la presenza del simbolo in oggetto possa tradursi in un fattore di perturbazione “sur de jeunes personnes, dont les convictions ne sont pas encore fixées” (§ 66). Ma è davvero l’individuo singolo a dover dimostrare la presunta violazione del proprio diritto? Il giudice europeo non aveva, in realtà, esitato, in precedenti ed altrettanto criticate pronunce (Dahlab c. Suisse, 15 febbraio 2001, n. 42393/98, Leyla Sahin c. Turquie, cit.), a riconnettere all’uso del velo islamico – da parte, nel primo caso, di un’insegnante di una scuola elementare pubblica, nel secondo, di una studentessa universitaria – conseguenze rilevanti dal punto di vista della potenziale reazione che questo fosse stato in grado di suscitare su coloro che non lo indossano, tanto da giustificare, nel quadro convenzionale, una limitazione della libertà di manifestazione del credo religioso, quando, appunto, essa si ponga in contrasto con “l’objectif visé de protection des droits et libertés d’autrui, de l’ordre et de la sécurité publique” (Leyla Sahin c. Turquie, cit., § 111). Difficile non chiedersi, allora, in tal caso – come rilevato anche da Sergio Bartole in un recente contributo sul tema – come l’esibizione di un simbolo religioso, quando riconducibile ad una disposizione dell’autorità pubblica, possa considerarsi meno lesiva della libertà religiosa di chi a quel simbolo si trovi esposto, rispetto all’ipotesi in cui essa sia la semplice espressione della fede religiosa di un soggetto privato.

Sembra, dunque, che la Corte di Strasburgo non riesca a sottrarsi al rischio di una valutazione di merito sulla natura e la portata evocativa dei simboli religiosi, poiché se il foulard islamico figura come “un signe extérieur fort” (Dahlab c. Suisse, cit., §§ 54-55), che ne legittima, perciò, il divieto di esposizione, diversamente il crocifisso è tale per cui la sua presenza sulle pareti delle aule scolastiche – pur risultato della decisione di un organo dello Stato – va riguardata come una presenza meramente “silencieuse et passive” (si veda l’opinione concordante del Giudice Bonello, § 3.2), la cui influenza sugli alunni non può intendersi nei termini di una partecipazione ad attività religiose, in quanto tale conciliabile con il principio di neutralità ed imparzialità dei pubblici poteri. Eppure, era già pacifico in sede convenzionale che è proprio nei contesti in cui la stragrande maggioranza della popolazione appartiene ad una religione determinata, che la manifestazione dei riti e dei simboli di quest’ultima senza restrizioni di luogo e di forma può tradursi in un elemento di pressione nei confronti di coloro i quali non vi appartengano (Karaduman c. Turquie, decisione della Commissione del 3 maggio 1993), venendo qui in rilievo quel profilo negativo del diritto di libertà religiosa, che merita una protezione particolare proprio nell’ipotesi in cui sia lo Stato ad esprimere una certa credenza e l’individuo si trovi in una condizione di particolare vulnerabilità, ciò che avviene, appunto, nel contesto scolastico. Contrariamente, nella pronuncia ivi affrontata, il giudice europeo finisce per avallare – dietro lo schermo protettivo del margine di apprezzamento – un imbarazzante ritorno del principio di maggioranza nella regolamentazione dei diritti fondamentali, quando in realtà, proprio per sua costante giurisprudenza, esso dovrebbe considerarsi precluso (solo per citare alcuni casi, si vedano in merito Young, James et Webster c. Royaume-Uni, 13 agosto 1981, e Valsamis c. Grèce, 18 dicembre 1996).

Allora, se è vero che uno dei maggiori contributi della menzionata giurisprudenza alla costruzione di una “Europe des droits de l’homme” risiede proprio nel ruolo determinante da essa svolto nell’armonizzare le differenti tradizioni storiche e culturali dei Paesi membri della Convenzione, senza con ciò rinnegare le singole specificità che proprio nella gestione del fenomeno religioso appaiono tra essi evidenti, ci si attendeva, forse, una maggiore cautela da parte del giudice di Strasburgo nell’esaltazione di tali specificità – specie quando sia in gioco la tutela della libera formazione della coscienza degli individui – e, parimenti, una più precisa definizione dei contorni del principio di laicità delle istituzioni pubbliche. Era forse questa l’occasione, per la Corte, per chiarire una volta per tutte – a fronte di quello che appare essere ormai, al di là dei pur citati particolarismi statali, un problema europeo – il nucleo forte di tale principio, da non farsi, certo, coincidere con quelle letture radicali che lo intendono come assenza di fede, come depuramento della sfera pubblica da ogni riferimento di carattere religioso, non dovendo certo gravare sull’individuo singolo l’onere della neutralità. Esso va inteso, piuttosto – come osservato da Silvio Ferrari – nel senso di una preclusione per i pubblici poteri ad identificarsi con alcuno dei sistemi di valori che emergono dalla multiforme realtà sociale, solo ad essi spettando mediare affinchè nessuno di questi – comunque libero di esprimersi nella stessa sfera pubblica istituzionale – finisca poi per impadronirsene, anche qualora in ciò confortato dalla legittimazione formale del principio di maggioranza.

Nella decisione della Grande Camera non c’è traccia di tutto questo. Ad emergere è unicamente l’esigenza della tutela delle singole realtà nazionali, nell’ottica della conservazione dello status quo e di una conseguente rinuncia sul fronte dell’espansione delle libertà convenzionali, come ebbe a rilevare in un saggio Nicola Colaianni. Ma è qui che è davvero in gioco la tenuta dell’identità europea, che va, certo, ben al di là dell’esposizione nei luoghi pubblici di un simbolo religioso come il crocifisso, pur indubbiamente ricognitivo dei valori di tolleranza e di rispetto dei diritti fondamentali della persona che da sempre la connotano. Tale identità – che l’esistenza di differenti vissuti nazionali non ha affatto impedito di far affiorare – ritrova piuttosto il suo fondamento nella consapevolezza che proprio di fronte a tali diritti debba arrestarsi l’applicazione del principio democratico-maggioritario, se è vero che l’istituzione di questi – a cui l’Europa storicamente ha contribuito – costituisce, nel senso chiarito da Ronald Dworkin, “la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate”. La pronuncia qui commentata dimostra, tuttavia, che a Strasburgo tale promessa non è stata mantenuta.

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