Disabilità e status civitatis. Nota a margine di Corte cost. n. 258/2017

Cosa accade se lo straniero ha maturato tutte le condizioni necessarie per acquisire la cittadinanza, ma non è in grado di soddisfare l’onere di prestare il giuramento che la legge impone perché incapace – per ragioni di salute –  di comprenderne il senso e/o di esprimersi ?
La risposta non è facile, né lineare, anzi la questio iuris sottoposta alla Corte costituzionale rappresenta un vero cubo di Rubik per i suoi profili sfaccettati che rendono quasi impossibile combinarne i colori.
Secondo l’opinione tradizionale per le dichiarazioni di volontà relative all’acquisto della cittadinanza occorre che la persona sia dotata della piena capacità legale di agire oltre, ovviamente, alla capacità naturale nel momento della dichiarazione stessa. È la particolare importanza e solennità dell’atto da compiere – col quale viene sancito l’ingresso allo status civitatis – a giustificare un più esigente grado di capacità e dunque l’indefettibilità della piena capacità legale di agire.
Se tale capacità è carente, allora si potrebbe ipotizzare che a surrogare le mancanze della persona possa intervenire il tutore o l’amministratore di sostegno, ma anche tale percorso si rivela come una strada a fondo chiuso, in quanto «la rappresentanza dell’interdetto per infermità di mente da parte del tutore […] non comprende i c.d. atti personalissimi, che coinvolgono interessi strettamente legati alla persona dell’interessato al quale solamente può essere rimessa la scelta in ordine alle determinazioni da adottare» (Cass. civ., n. 9582 del 2000).  Ecco dunque che la persona incapace non ha diritto ad avere diritti, ovvero ad accedere a quello status che consente di sentirsi ed essere parte del tessuto comunitario nel quale si vive, con pari dignità in termini di diritti e doveri.
A fronte di questa condizione inaccettabile e nel silenzio della legge n. 91 del 1992 riguardo al requisito di capacità, la giurisprudenza (a partire da Cons. St., sez. I, parere 13.3.1987, n. 261/85) ha risposto valorizzando lo strumento della rappresentanza attraverso un ragionamento sistematico. Si è infatti sostenuto che, per negare la legittimazione al rappresentante del soggetto bisognoso si deve rinvenire un’incapacità giuridica speciale in capo al rappresentato la quale, come tale, necessiterebbe di un espresso fondamento normativo che invece nel caso della disciplina sulla cittadinanza manca. Pertanto, negando la sussistenza di un’incapacità speciale dell’interdetto a chiedere la concessione della cittadinanza italiana, si è specularmente esclusa la carenza di legittimazione del rappresentante a surrogarsi al rappresentato al fine di tale istanza. Superato il primo scoglio, si è inventato un escamotage tale da ovviare alla non delegabilità del giuramento di fedeltà alla Repubblica, qualificato come atto personalissimo, sostenendo che l’interdizione costituisca un impedimento legittimo idoneo ad esonerarne il naturalizzando, in modo da consentire la trascrizione del decreto di cittadinanza anche in sua mancanza.
La ricostruzione sopra esposta non ha convinto il Tribunale di Modena che ha messo in luce la fragilità di un ragionamento fondato essenzialmente su una omissione normativa, laddove quando ci si trova di fronte ad un atto personalissimo la legittimazione del tutore non può rinvenirsi – come sostenuto dal Consiglio di Stato – nell’assenza di una norma specifica che, nell’ambito della disciplina relativa alla naturalizzazione italiana, privi il tutore del potere di chiedere la naturalizzazione del rappresentato. Semmai sarebbe più ragionevole l’operatività del principio opposto, in virtù del quale la naturalizzazione a favore dell’interdetto potrebbe essere richiesta in quanto apposita, e preesistente norma, lo consenta.
Non convince nemmeno il ragionamento analogico sviluppato, laddove, a mezzo dell’art. 411 c.c., si estendono all’amministrazione di sostegno unicamente istituti disciplinati espressamente dalla legge, e non certo da «atti amministrativi, quali sono i pareri espressi dal C[onsiglio] di S[tato]» (Trib. Modena, ord. 6.12.2016). Ciò ha portato il giudice a quo ad ipotizzare l’illegittimità costituzionale della normativa in materia di cittadinanza, nella parte in cui non prevede deroghe all’obbligo della prestazione del giuramento, in presenza di «condizioni personali di infermità mentale in cui versi il futuro cittadino, impeditive [de]l compimento dell’atto formale in discorso».
In particolare il giudice rimettente ha ipotizzato la violazione dei diritti inviolabili iscritti nell’art. 2 Cost., che integrano anche lo stutus civitatis, dell’art. 3, comma 2, Cost. nella misura in cui l’impossibilità di prestare giuramento si verrebbe a configurare come un «significativo “ostacolo”» tale da impedire la piena realizzazione della personalità del disabile affetto da malattia mentale, determinando una discriminazione fondata su una condizione personale ed infine dell’art. 18 della Convenzione delle Nazioni Unite per i diritti delle persone disabili, nonché agli artt. 21 e 26 della Dichiarazione O.N.U. dei diritti delle persone con disabilità del 1975.
La Corte costituzionale, nell’accogliere la questione ai sensi degli artt. 2 e 3 Cost., principia il suo ragionamento dall’art. 54 Cost., disposizione che, nell’imporre il dovere di fedeltà alla Repubblica e l’osservanza della Costituzione, trova espressione, per lo straniero, nella prestazione del giuramento, manifestazione solenne di adesione ai valori repubblicani. In questa prospettiva la cittadinanza si rappresenta come idea unificante, «un crocevia di suggestioni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del soggetto, le modalità della sua partecipazione politica, l’intero corredo dei suoi diritti e dei suoi doveri» (P. Costa, Cittadinanza, Bari, 2005, VII).
Essendo atto giuridico propriamente costituzionale, il giuramento richiesto dalla disposizione impugnata è naturalmente personale, anche in ragione dei valori incorporati nella sua prestazione, sicchè non può essere reso da un rappresentante legale in sostituzione dell’interessato.
Esclusa pertanto la percorribilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, la Corte declina il proprio discorso a partire dai principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. In questo senso l’affermazione del personalismo nell’art. 2 Cost., attraverso il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili da parte della Repubblica, propone (e impone) una visione dell’uomo concepito nei momenti essenziali della sua esperienza, nella concretezza della sua esistenza, per quello che è, che vive e opera, realizzando sé stesso nella società, nella sua multidimensionalità.
L’unicità dell’essere umano – una volta che sia connessa al libero sviluppo della personalità, inquadrata come condizione di struttura per l’identificazione dell’interesse comune e infine intesa come interesse a che ciascuno realizzi il proprio progetto di emancipazione personale – implica un’articolazione ed una complementare composizione. Composizione che si concreta nella garanzia offerta dal principio di eguaglianza volto ad interdire disparità di trattamento fondate su condizioni personali e sociali. Pertanto a questa visione dell’uomo si accompagna un progetto di società che si compendia nella pari dignità sociale, quale condizione per il superamento degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono la libertà e l’uguaglianza nonché il pieno sviluppo della persona (art. 3, comma 2, Cost).
L’eguaglianza è quindi un obiettivo che vive nella storia e «si alimenta di un processo continuo, non necessariamente lineare, di presa di consapevolezza collettiva dei problemi e delle soluzioni attraverso continui tentativi ed aggiustamenti» (G. Ferrara, Dell’eguaglianza, in M. Luciani (a cura di), La democrazia alla fine del secolo, Roma-Bari, 1994, 30). Tra le condizioni personali da eguagliare si colloca indubbiamente la disabilità che viene riconosciuta espressamente nell’art. 38 Cost., norma volta a garantire condizioni adeguate di vita a persone che soffrono per la loro maggior debolezza, al fine di affrancarli da quella «schiavitù del bisogno» che impedisce il pieno godimento dei diritti civili e politici.
Tale quadro di principi ha trovato diretta attuazione attraverso la legge 5 febbraio 1992, n. 104, che ha segnato un «radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati […] quali problemi non solo individuali, ma tali da dover essere assunti dall’intera collettività» (Corte cost. n. 167 del 1999). Un disciplina che, nel disegnare il fondamentale quadro normativo in materia di disabilità, ha visto confluire «un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale» (Corte cost. n. 275 del 2016; n. 215 del 1987 e n. 80 del 2010) con la finalità non solo di prestare assistenza ma anche di favorire l’integrazione sociale del disabile. Si tratta quindi di un impegno collettivo e delle Istituzioni volto a rimuovere quegli ostacoli che non consentono la «massima autonomia possibile» del disabile e l’esercizio pieno dei diritti fondamentali.
Come nota la Corte, l’obiettivo dell’inclusione del disabile (straniero) nel contesto della civitas è evidentemente impedito dall’imposizione normativa del giuramento alla persona che, in ragione di patologie psichiche di particolare gravità, sia incapace di prestarlo, il che potrebbe determinare una forma di emarginazione sociale irragionevole e dannosa per il disabile e la sua famiglia. Tale constatazione ha portato il giudice costituzionale, con una additiva di regola, a dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione della legge n. 91 del 1992, nella parte in cui non esonera dal giuramento il disabile incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di una grave e accertata condizione di disabilità.
La Corte precisa che l’esonero dal giuramento non sarà frutto di un automatismo, operante a prescindere dal “tipo” di incapacità giuridicamente rilevante, laddove «ciò che rileva è l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia, non la precipua condizione giuridica in cui versa il disabile». Non è quindi lungo il crinale, troppo nettamente stagliato, tra capacità/incapacità che si muove il ragionamento sviluppato, emergendo invece come rilevante, anche ai fini della prestazione del giuramento, il concreto accertamento della competence, un concetto dinamico e da valutare nelle diverse fasi della malattia e in relazione al tipo di decisione da assumere al fine precipuo di salvaguardare la dignità e identità della persona.
Questo dictum sembra rievocare quanto notava Letizia Gianformaggio secondo cui alcune condizioni umanamente non eliminabili, per le quali ci si pongono problemi di protezione attraverso il diritto, richiedono non necessariamente un trattamento giuridico differenziato, ma piuttosto «il mutamento del “tipo”, vale a dire del modello o paradigma di individuo sulla considerazione delle cui capacità ed esigenze sono conformate le norme e gli istituti giuridici» (L. Gianformaggio L’eguaglianza e le norme, in Id., Eguaglianza, donne e diritto, Bologna, 2005, 143).
La Corte in chiusura dichiara l’assorbimento delle censure prospettate in relazione agli evocati parametri internazionali e sovranazionali, in particolare i principi affermati nella Convenzione Onu sulla disabilità, il che sembra prefigurare un cambio di orientamento rispetto alle sentenze n. 285/2009 e n. 80/2010 in cui la Convenzione era stata reputata idonea a fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale ex art. 117, comma 1, Cost., essendole inoltre accordata, nelle materie di competenza dell’Unione europea, la peculiare forza giuridica propria delle norme di origine sovranazionale. Tale scelta può essere giustificata considerando che lo strumento pattizio si limita a porre degli “obblighi di risultato”, non potendo implicare né tantomeno esaurire le scelte sul quomodo riservate ai singoli Stati. Ne emerge una funzione “dinamica e promozionale” della Convenzione tesa a conformare gli ordinamenti interni degli Stati aderenti a una quanto più effettiva  applicazione del principio di non discriminazione, in primis attraverso «il pieno e integrale riconoscimento di diritti e di tutele che, in quanto fondamentali, non possono non essere adeguate alla dignità di qualsiasi persona in quanto tale, ma anche attraverso la predisposizione di misure idonee a compensare, per quanto possibile, e nelle forme più compatibili, la condizione di chi si trovi così particolarmente svantaggiato» (Corte cost. n. 2 del 2016).
Si tratta di principi che sono già parte del nostro patrimonio costituzionale, il che conduce ad affermare una superiorità assiologica della nostra Carta fondamentale che non necessita, specie sui diritti civili e sociali, di integrazioni “esterne”, «anche in forza del consolidarsi, in seno alla Corte, di quell’orientamento che, sulla base di una lettura “aperta” dell’art. 2 Cost., interpreta le norme costituzionali relative ai diritti fondamentali in coerenza con le Dichiarazioni dei Diritti dell’uomo, con i Trattati e gli Accordi internazionali nelle stesse materie» (A. Barbera, La Carta dei Diritti: per un dialogo fra la Corte costituzionale e la Corte di Giustizia, relazione all’incontro di studio fra i Tribunali e le Corti costituzionali di Spagna, Portogallo, Francia e Italia – Siviglia 26-28 ottobre 2017).
Sebbene la nostra Carta costituzionale abbia mostrato l’attitudine a dar vita ad un «diritto omeostatico», seguendo (e in alcuni casi anticipando) il costante mutamento sociale, è indubbio che la valorizzazione di alcuni strumenti sovra-nazionali, abbia consentito la progressiva trasformazione del ruolo dei giudici comuni da organi risolutori di controversie in garanti dei diritti. La maggiore valorizzazione, anche da parte del giudice costituzionale, delle direttive iscritte nella Convenzione Onu potrebbe quindi favorire lo sforzo ermeneutico dei giudici comuni verso una piena affermazione dei principi di autonomia e inclusione delle persone disabili, contribuendo a rendere più solide le loro argomentazioni e ad accelerare, così, determinati percorsi evolutivi, che risulta molto meno agevole (anche se non impossibile) imboccare sulla base dei soli artt. 2, 3 e 38 Cost.