Gli Stati signori dei propri bilanciamenti? A proposito di una recente sentenza della Corte di Strasburgo in tema di aborto

La conformità alla CEDU della normativa nazionale irlandese in tema di aborto torna all’attenzione della Corte di Strasburgo, diciotto anni dopo il caso Open Door, nella recente decisione della Grande Camera del 16.12.2010 nel caso A. B. and C. v. Ireland (ric. n. 25579/05).

La controversia, ora come allora, nasce dalla circostanza che l’art. 40.3.3 della Costituzione irlandese prevede un divieto di interruzione di gravidanza, i cui contorni – soprattutto in relazione ai limiti cui questo divieto va incontro quando viene in questione la salute o la vita stessa della madre – non sono stati fino ad oggi chiariti in nessuna norma di attuazione. Di conseguenza, essi sono rimasti affidati ad una giurisprudenza oscillante che, oltre a questa difficoltà, si è trovata a dover fare i conti una normativa penalistica risalente, particolarmente severa nei confronti di qualsiasi ipotesi di aborto volontario. Altrettanto incerta, poi, è stata la sorte dei due emendamenti al testo costituzionale approvati in seguito all’adozione della citata sentenza Open Door: per porre rimedio alla violazione dell’art. 10 CEDU, che come si ricorderà discendeva dal divieto di pubblicizzare l’attività di cliniche operanti in altri stati e che praticavano operazioni non disponibili in Irlanda, è stata riconosciuta la possibilità di espatrio alle donne incinte e la possibilità di ottenere in patria informazioni su dove e come abortire in un altro paese. Alla proclamazione nel testo costituzionale non ha fatto tuttavia seguito, anche in questo caso, una legislazione di attuazione e, soprattutto, è mancata una prassi amministrativa rivolta a conciliare in modo coerente la possibilità di andare all’estero per abortire, da un lato, con la fitta rete di controlli sanitari e discipline di polizia che gravano sulle donne che manifestano la volontà di abortire.

Il ricorso è sollevato davanti alla Corte di Strasburgo da tre donne che si sono rivolte a cliniche inglesi e che si dolevano delle conseguenze fisiche e psicologiche subite per essere state costrette ad operarsi all’estero, con una assistenza del tutto insufficiente in patria e che le ha esposte a subire, in alcuni casi, danni anche gravi alla propria salute al rientro in Irlanda.

Un primo aspetto di interesse della pronuncia nasce dal fatto che essa effettua un’ampia disamina del quadro legislativo e, soprattutto, delle prassi e delle regole amministrative che disciplinano sia la consulenza medica e psicologica alle donne che intendono abortire, sia le condizioni eccezionali al ricorrere delle quali l’aborto è ritenuto legittimo. Condizioni, queste ultime, specificate soprattutto da una serie di pronunce giurisprudenziali che, non avendo trovato accoglimento in una normativa uniforme, hanno determinato una grande varietà di orientamenti a livello clinico e ospedaliero. Incertezza aggravata da un contesto sociale, culturale e religioso che, in misura inferiore rispetto al passato ma pur sempre significativa, mostra una notevole disapprovazione nei confronti delle donne che chiedono di abortire.

La pretesa delle tre ricorrenti, di conseguenza, viene iscritta dalla Corte all’interno di un bilanciamento che vede coinvolti, da un lato, i loro diritti sub art. 8 CEDU a veder tutelate la libertà della loro scelta e la salvaguardia del loro equilibrio psico-fisico, e, dall’altro lato, i «profound moral values of the Irish people as to the nature of life and consequently as to the need to protect the life of the unborn».

Differenziando la posizione delle prime due ricorrenti, che non hanno corso nella vicenda un pericolo di vita, da quella della terza (su cui tornerò a breve), la Corte innanzi tutto ricorda come, in linea di principio, tanto più un diritto investe aspetti rilevanti della personalità, tanto più su di esso lo Stato non può vantare un margine di discrezionalità al fine di attenuarne o escluderne la garanzia; e, nell’individuare il rilievo di una pretesa, a maggior ragione se essa investe temi eticamente sensibili, si deve aver riguardo al grado di condivisione di essa e delle sue modalità di tutela tra i paesi membri della CEDU stessa.

Il consensus inquiry in tema di aborto dimostra con grande evidenza come la salvaguardia della salute della madre prevalga sulla vita del nascituro nella maggior parte dei paesi europei, riconoscendo solo altri tre stati, oltre all’Irlanda, un divieto pressoché assoluto di interrompere la gravidanza (Andorra, Malta e San Marino). L’esame meramente comparativo, tuttavia, non è idoneo per i giudici europei a dare una risposta sufficiente alla doglianza avanzata dalle ricorrenti, perché ad avviso della Corte fare affidamento solamente sul grado di condivisione della normativa che vieta l’aborto finisce per accreditare l’idea di un’alternativa, quasi una contrapposizione, tra due interessi – quello della donna a mantenere la propria salute e quello del bambino a venire alla luce – che invece sono «inextricably interconnected» (§ 237). Da questa interconnessione discende che, ad avviso dei giudici, non si possa isolare una delle due pretese e fondarne la “forza” sul maggiore grado di diffusione, considerato che, da questo aspetto, «the margin of appreciation accorded to a State’s protection of the unborn necessarily translates into a margin of appreciation for that State as to how it balances the conflicting rights of the mother» (ivi). Cosa la Corte intenda dire con questo avvertimento si comprende subito dopo: «It follows that, even if it appears from the national laws referred to that most Contracting Parties may in their legislation have resolved those conflicting rights and interests in favour of greater legal access to abortion, this consensus cannot be a decisive factor in the Court’s examination of whether the impugned prohibition on abortion in Ireland for health and well-being reasons struck a fair balance between the conflicting rights and interests, notwithstanding an evolutive interpretation of the Convention» (ivi).

L’obiettivo della maggioranza della Corte appare, a questo punto, più chiaro: il consensus standard, allorché misura il grado di condivisione di un certo equilibrio tra diritto individuale e interesse collettivo può avere un peso nell’interpretazione delle clausole della Convenzione, ma quando questo equilibrio investe beni posti su un piede di parità (come nel caso dell’aborto, dove anzi questi beni non possono essere scissi l’uno dall’altro), gli stati rimangono, per così dire, “padroni dei propri bilanciamenti”. Certo, la Corte si ritaglia un ruolo di supervisore a che un diritto non venga del tutto compresso ai danni dell’altro, anche se l’impressione è che un simile itinerario argomentativo sfoci nella riserva agli stati di sfere d’azione rispetto alle quali il controllo europeo abbia una scarsa, se non nulla, possibilità di intervento. E nel caso di specie questo timore si ravvisa nella constatazione che le ricorrenti irlandesi non hanno visto leso il loro diritto perché, nonostante tutto, sono rimaste libere di recarsi all’estero per abortire. Che sia questo il punto chiave della sentenza lo dimostra l’articolata opinione dei sei giudici di minoranza, che ribadiscono la necessità di isolare le pretese confliggenti, quella della madre e quella del bambino, valorizzandone il rispettivo rilievo sulla base delle varie soluzioni accolte nei paesi membri.

Nel caso della terza ricorrente, che aveva subito conseguenze più gravi per il fatto che le autorità nazionali non si erano date cura di approfondire adeguatamente la compatibilità della gravidanza con la terapia anticancro cui la donna era soggetta, la lesione del diritto matura invece dalla conseguente applicazione delle incerte scelte adottate dal legislatore nazionale. Senza mettere in discussione, per le ragioni anzidette, il bilanciamento operato dalla costituzione e dalle leggi nazionali, la Corte ritiene leso l’art. 8 CEDU in relazione alla terza ricorrente perché le autorità nazionali avrebbero comunque omesso di dare seguito a quegli obblighi positivi di tutela che pure la normativa nazionale contempla, anche se in modo contraddittorio e con molte lacune sul profilo dell’erogazione del servizio sanitario. Non consentendo alla donna di svolgere una valutazione approfondita sui rischi derivanti dalla prosecuzione della gravidanza nelle sue condizioni di salute, per l’assenza già richiamata di normative d’attuazione e di prassi mediche e assistenziali adeguate, l’Irlanda non ha osservato l’art. 8 CEDU, ma ancora prima non ha osservato quell’obbligo minimo di protezione che è iscritto nella propria normativa e che rappresenta un elemento indefettibile del bilanciamento effettuato dalla normativa interna.

Il quadro che emerge da questa lunga e complessa decisione pare, in definitiva, rimarcare la centralità che ha il margine d’apprezzamento non solo come tecnica rivolta a misurare il grado di pluralismo tollerabile con uno strumento unico di tutela dei diritti come la CEDU, ma anche – e con un peso che viene crescendo negli ultimi tempi – come tassello di una constitutional adjudication che prende le mosse da valutazioni comparative per selezionare dall’interno i significati dei diritti garantiti. Molto spesso la Corte ha mostrato di saper coniugare felicemente questa attitudine ad allargare comparativamente i quadri di riferimento della propria argomentazione con una lettura evolutiva dei diritti e delle garanzie. Altre volte, come in questo caso (ma penso anche a molta della giurisprudenza sulla morale religiosa ex art. 9 CEDU), il ricorso al margine d’apprezzamento rischia di esaltare il momento statico e conservativo che si nasconde dietro ogni ricerca del consenso a tutti i costi, a maggior ragione se questo coinvolge le profound moral values.