I mutevoli equilibri del rinvio pregiudiziale: il caso dei precari della scuola e l’assestamento dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia

Con una sentenza che ha attirato l’interesse della stampa e dell’opinione pubblica, la Corte di Giustizia UE si è pronunciata il 26 novembre scorso sul rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale in merito al trattamento riservato dalla legislazione italiana ai precari della scuola.

Come si ricorderà (ne avevamo scritto qui) la Corte costituzionale, con l’ord. n. 207 del 2013, aveva sollevato per la prima volta un rinvio pregiudiziale nel corso di un giudizio incidentale, vertente sull’interpretazione da dare ad un atto comunitario privo di effetto diretto (la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, allegato alla direttiva del Consiglio 1999/70/CE) e sulla compatibilità con esso della normativa nazionale che disciplina i rapporti di lavoro a tempo determinato del personale scolastico (docente e ATA). In particolare, a fronte di una normativa europea che impone agli stati membri di dotarsi di strumenti volti ad arginare il ricorso a contratti a tempo determinato (normativa attuata a livello interno con il d.lgs. n. 368 del 2001), la Corte costituzionale era chiamata a pronunciarsi sulla normativa speciale (art. 4, commi 1 e 11, della legge n. 124 del 1999) che, limitatamente al personale (docente e ATA) della scuola, non prevede né un limite massimo alla durata di tali contratti, né l’indicazione di un numero massimo di rinnovi, né, soprattutto, la conversione di tali rapporti in contratti a tempo indeterminato se non attraverso le procedure ordinarie di immissione in ruolo.

Alla base del ragionamento esposto nell’ordinanza n. 207 del 2013 vi era la constatazione che la normativa nazionale, pur se indubbiamente limitativa delle prerogative riconosciute dal diritto sovranazionale, potesse comunque ritenersi compatibile con quest’ultimo in virtù di un’esigenza oggettiva di pronto adeguamento del servizio scolastico al variare dei fattori (demografici e organizzativi) che ne determinano di anno in anno l’offerta. Un’esigenza, quest’ultima, che da un lato sarebbe imposta dagli artt. 33 e 34 Cost. i quali richiedono l’adempimento dell’obbligo educativo in termini di effettiva erogazione del servizio scolastico: secondo le parole dell’ordinanza di rinvio, l’impiego di “un numero significativo di docenti e di personale amministrativo scolastico assunti con contratti a tempo determinato” si giustificava proprio “per garantire la costante presenza degli stessi in numero sufficiente a coprire le necessità di tutte le scuole statali”. Ma che dall’altro lato sarebbe potuta rientrare in quelle “ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti e rapporti” previste espressamente dalla lett. a) della citata clausola 5 dell’accordo quadro.

La risposta della Corte di Giustizia ai quesiti sollevati dalla Corte costituzionale (causa C-418/13, Napolitano e altri), trattati congiuntamente a quelli promossi dal Tribunale di Napoli (di cui alle cause riunite C-22/13 e da C-61/13 a C-63/13, Mascolo e altri), si muove nel presupposto (già fatto proprio in passato, cause C-212/04, Adeneler e C-363/13, Fiamingo) che “il beneficio della stabilità dell’impiego è inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori, mentre soltanto in alcune circostanze i contratti di lavoro a tempo determinato sono atti a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro sia dei lavoratori”. Di conseguenza, agli Stati che nel proprio diritto interno introducono eccezioni a tale principio spetta l’onere di dimostrare che esse siano comunque compensate da ragioni obiettive che giustificano il rinnovo dei contratti in questione e individuazione di una durata massima degli stessi ovvero del numero dei rinnovi (secondo quanto previsto dalla citata clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro).

Soffermandosi proprio sul fattore posto al centro dell’ordinanza della Corte costituzionale, la Corte europea qualifica le “ragioni obiettive” come “circostanze precise e concrete che contraddistinguono una determinata attività”  (par. 87) che, in astratto, sarebbero soddisfatte quando le finalità perseguite dal legislatore nazionale fossero, ad esempio, la sostituzione temporanea di un altro dipendente al fine di soddisfare esigenze temporanee del datore di lavoro (par. 91) ovvero il perseguimento di obiettivi di politica sociale come la tutela della gravidanza e della maternità (par. 93) oppure, infine, la necessità per lo Stato di fronteggiare, come nel caso del servizio scolastico, una domanda flessibile col rischio che, in assenza di contratti a tempo determinato, esso si troverebbe esposto “al rischio di dover immettere in ruolo un numero di docenti significativamente superiore a quelle effettivamente necessario per adempiere i propri obblighi in materia” (par. 95).

Se dal piano delle finalità ammissibili in astratto, tuttavia, si passa a quello dell’applicazione concreta di esse ai casi di specie, la Corte europea ravvisa nel perdurare del modello italiano del “doppio canale” (cioè un sistema di reclutamento incentrato stabilmente sulla suddivisione dei posti disponibili tra docenti di ruolo e supplenti a tempo determinato), una modalità che contrasta con le finalità dell’accordo quadro, secondo le quali il lavoro a tempo indeterminato è la regola e quello a tempo determinato l’eccezione. Un’eccezione che, proprio perché tale, necessita di volta in volta di un’adeguata giustificazione rispetto alle caratteristiche specifiche dell’impiego o dell’attività (par. 100). Il punto centrale della pronuncia, anche nell’ottica dello svolgimento che la controversia avrà davanti alla Corte costituzionale, sta proprio nel fatto che la Corte europea chiede al giudice nazionale di verificare se, per le modalità in cui è avvenuto, il rinnovo dei contratti a tempo determinato sia realmente rivolto a soddisfare esigenze provvisorie ovvero se la normativa nazionale sul comparto scuola non finisca per avallare, nei fatti, un’esigenza organizzativa stabile e duratura che riguarda solamente la pubblica amministrazione come datore di lavoro.

Malgrado le apparenze, lo spazio di manovra che la Corte europea lascia al giudice nazionale, ed in particolare alla Corte costituzionale, è piuttosto esiguo, se si considera che la sentenza indica con grande chiarezza alcuni indici che portano a ritenere che la normativa nazionale non sia rispettosa delle indicazioni contenute nell’art. 5, punto 1, dell’accordo quadro CES, UNICE, CEEP, primo fra tutti il fatto che la asserita provvisorietà di questo modo di assegnazione degli incarichi (addotta a riprova dell’eccezionalità del “doppio canale” dal Governo italiano) è in evidente contrasto con il mancato svolgimento di concorsi pubblici per tutto il periodo 2000-2011.

Sulla base di tutte queste premesse, la Corte di giustizia stabilisce la contrarietà in linea di principio della normativa nazionale per il fatto che quest’ultima non solo non appare obiettivamente giustificata nei termini fatti propri dal citato accordo quadro, ma neanche garantisce l’effettività di strumenti volti a sanzionare il ricorso generalizzato a contratti a tempo determinato, come potrebbero essere l’immissione in ruolo (non ancorata a tempi certi) o l’accesso allo strumento risarcitorio, attualmente precluso.

 Giunti a questo punto, viene da chiedersi quali sviluppi possano venire da questa vicenda, al di là dei contorni specifici di essa, nel futuro dei rapporti tra le due Corti e, in particolare, nelle modalità mediante le quali la Corte costituzionale è chiamata a dare seguito ai precedenti europei.

Da un primo punto di vista, la pronuncia in esame dimostra la tenuta sempre più labile dei presupposti che fino ad ora hanno guidato la giurisprudenza interna in tema di doppia pregiudizialità. Seppure, nel caso di specie, a venire in questione erano norme dell’UE prive di effetto diretto, merita attenzione la circostanza che a sollevare contemporaneamente rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo siano state, come detto, la Corte costituzionale e un giudice ordinario, il Tribunale di Napoli. Questo sdoppiamento – per il quale alcuni giudici hanno deciso di sollevare questione di legittimità alla Corte costituzionale, altri di rivolgersi direttamente alla Corte di Lussemburgo – non pare tuttavia dipendere solamente dalle possibili divergenze di opinioni delle autorità rimettenti intorno all’efficacia da riconoscere a norme europee prive di effetto diretto e alla loro interpretazione. A ben vedere, infatti, esso si mostra legato ad un’esigenza propriamente sistemica, come già evidenziato in sede di commento all’ord. n. 207 del 2013, secondo la quale soprattutto per le norme prive di effetto diretto, i dubbi veicolati dai giudici ordinari e quelli avanzati dalla Corte costituzionale riflettono due differenti gradi dell’interlocuzione ricercata dall’ordinamento nazionale con la Corte di Giustizia. Il primo (quello portato avanti dal giudice del merito) maggiormente legato alle vicende concrete del caso di specie e connesso, per così dire, ad un primo livello dell’interpretazione, coincidente con la ricerca di una compatibilità interna al continuum diritto nazionale-diritto UE, il secondo (quello veicolato dalla Corte costituzionale) da ricondursi più alle variabili di sistema e connesso ad un secondo livello dell’interpretazione, coincidente questa volta con la giustificazione del diritto nazionale rispetto al diritto dell’UE alla luce delle coordinate di ordine costituzionale.

Seppure resta vero che, nel prisma delle sentenze della Corte di Giustizia, questi due piani dell’argomentazione finiscano spesso per sovrapporsi, resta significativo il fatto che nel caso di specie la divisione dei compiti tra giudice ordinario e Corte costituzionale va chiaramente nel senso di una riserva alla seconda degli argomenti che, in linea di principio, avrebbero dovuto giustificare il diritto nazionale tenendo conto della lettura offerta del diritto costituzionale all’istruzione e delle sue necessità organizzative, laddove il giudice ordinario resta ancorato ad una linea più sensibile alle esigenze di uniforme applicazione del diritto dell’UE, mirante più che altro a revocare in dubbio la corretta attuazione, da parte del legislatore nazionale, dei principi contenuti nel citato accordo quadro del 1999.

Da un secondo punto di vista, suscita interesse il modo assai particolare in cui la Corte di Giustizia riversa sulla Corte costituzionale l’onere di accertamento delle finalità effettivamente perseguite dalla normativa nazionale al fine di verificare se queste siano compatibili o meno con il diritto europeo. Se il frequente ricorso a deleghe di bilanciamento in concreto, infatti, è stato tradizionalmente uno degli strumenti principali dell’interlocuzione del giudice di Lussemburgo con i giudici nazionali, chiamati di volta in volta a misurare la portata del dictum europeo sulle caratteristiche del caso di specie, viene infatti da chiedersi quali possano essere i percorsi per trapiantare questa tecnica interpretativa in un giudizio a quo, quale quello di costituzionalità (e quello incidentale in particolare) che in linea di principio dovrebbe prescindere dai contorni del caso di specie per restare incardinato sulla dimensione di sistema del sindacato di legittimità e sulle ricadute erga omnes dei suoi esiti.
In un caso come quello appena discusso, infatti, il recepimento della sentenza Corte di Giustizia richiede un accertamento che, traducendosi in un onere di interpretazione delle finalità perseguite dal diritto nazionale, non può che restare riservato al giudice autore del rinvio. È però evidente che ove si tratti, come spesso accade, di accertamenti in punto di fatto (perché attinenti ad esempio alle vicende concrete del caso di specie), si porrebbero problemi difficilmente risolubili per la Corte costituzionale, che della dimensione concreta e di fatto delle controversie da cui traggono origine le questioni ad essa rimesse riesce ad “intercettare” solo alcuni aspetti, comunque il più delle volte nella prospettiva solo strumentale dell’incardinamento del giudizio dinnanzi ad essa (ad esempio nella prospettiva del sindacato sulla rilevanza).

A dispetto di ciò, la Corte di Giustizia sembra consapevole dei rischi che deriverebbero dall’addossare alla Corte costituzionale un simile compito di “giudice del fatto”, in tutto e per tutto simile a qualsiasi altro giudice nazionale, ed infatti nel momento in cui impone ai giudici autori del rinvio di verificare in concreto se il ricorso a contratti a tempo determinato nel settore della scuola rientri o meno in un ambito di fisiologica eccezionalità, non chiede a questi di appurare se vi sia stato un abuso nei casi di specie (ed in tutti gli altri potenzialmente coinvolti), bensì se la norma che si pone all’origine di questa prassi (l’art. 4, comma 1, della l. n. 124 del 1999) “non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di personale” (par. 101, cors. agg.). Il che sembrerebbe preludere, nel momento in cui il giudizio verrà riassunto davanti alla Corte costituzionale, ad un sindacato di quest’ultima che, proprio nel rispetto degli stretti limiti stabiliti dalla Corte di Giustizia, ricorra a strumenti di giudizio in grado di restringere la discrezionalità del legislatore nella materia in questione.