Il caso Pititto: un nuovo caso di superamento del giudicato in adempimento dell’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo

La recente pronuncia della Corte d’Appello di Milano nel caso Pititto ( Corte d’appello di Milano, IV sez. pen., depositata il 15 giugno 2010) ha segnato un nuovo capitolo nella questione dell’incidenza delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sul giudicato in Italia. La Corte d’Appello, infatti, di fronte all’accertamento da parte della Corte di Strasburgo della violazione dei diritti della difesa nell’ambito di un processo nazionale, ha rimesso nei termini il ricorrente per impugnare la sentenza che lo condannava a 21 anni di carcere e a 100 milioni di multa per traffico di stupefacenti, a seguito del processo iniquo, ed ha concluso per l’ annullamento di tale pronuncia ai sensi dell’art. 604, comma 4, c.p.p.
Come è noto è da tempo emersa nell’ordinamento italiano la tensione tra la necessità del rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea e degli altri obblighi internazionali e la tutela del giudicato nazionale.

La Corte di giustizia di Lussemburgo ha, infatti, affermato a più riprese che il giudicato nazionale è destinato a soccombere ove esso risulti in violazione del diritto dell’Unione europea, in virtù del principio del primato (in giurisprudenza cfr. i noti casi Lucchini, Fallimento Olimpiclub S.r.l. e le recentissime conclusioni in Elchinov. Per la prevalenza del diritto comunitario anche di fronte a decisioni amministrative nazionali definitive. Cfr. Kühne & Heitz e Kempter. In dottrina vedi F. SPITALERI (a cura di), L’incidenza del Diritto comunitario e della CEDU sugli atti nazionali definitivi, Milano, 2009). Il principio dell’intangibilità del giudicato, poi, è stato colpito anche in virtù della necessità di conformarsi alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo. Queste pongono, infatti, allo Stato un obbligo di risultato di adeguarsi a quanto stabilito dalla Corte e di provvedere, ove possibile, alla restitutio in integrum del ricorrente. La stessa Corte di Strasburgo ha indicato che in caso di violazione dei principi dell’equo processo la migliore la forma di riparazione consiste nella riapertura dei processi in cui tali violazioni sono state perpetrate. Per quanto riguarda l’adeguamento dell’ordinamento italiano a tale obbligo occorre fare una distinzione, a seconda che la violazione dell’equo processo derivi da una dichiarazione di contumacia effettuata in assenza di idonee garanzie per l’imputato oppure da un altro tipo di lesione dei diritti della difesa. Nel primo caso è stata apportata un’apposita modifica all’art. 175 c.p.p. per consentire la rimessione in termini per appellare la sentenza contumaciale a seguito dell’accertamento della violazione dei diritti dell’uomo da parte della Corte di Strasburgo. Tale modifica è stata introdotta sulla scorta dei famosi casi Cat Berro, Sejdovic, Somogyi affrontati dalla Corte di Strasburgo prima e dalla Corte di cassazione italiana poi. Per quanto riguarda le altre violazioni dell’equo processo, non esiste attualmente un idoneo strumento processuale che consenta la revisione della sentenza giudicata iniqua, come è stato rilevato nel celebre caso Dorigo. Per rimediare a tale lacuna, sono stati presentati diversi progetti di legge, l’ultimo dei quali è la proposta di legge Pecorella e Costa, presentata il 24 luglio 2008, “Modifiche al codice di procedura penale in materia di revisione a seguito di sentenze della CEDU” il quale introduce l’articolo 630 bis c.p.p. mediante il quale diventa possibile chiedere la revisione delle sentenze e dei decreti penali di condanna, quando una pronuncia definitiva abbia constatato l’iniquità di un processo nazionale per violazione dell’articolo 6, par. 3 CEDU.
Nel caso Pititto si trattava di una dichiarazione di contumacia dell’imputato in violazione dell’art. 6 CEDU, dunque di un caso che si colloca nel solco della giurisprudenza Somogyi sopra ricordata. A seguito della pronuncia da parte della Corte di Strasburgo che accertava la violazione dell’art. 6 CEDU, in quanto la dichiarazione di contumacia era stata emessa sulla base di presunzioni e senza un’adeguata indagine, il giudice italiano, dopo aver rimesso l’imputato nei termini per appellare secondo quanto disposto dall’art. 175 c.p.p., giunge fino all’annullamento della sentenza iniqua con rinvio al GUP del Tribunale di Milano. Ciò significa una totale rimozione della violazione dell’equo processo, riportando l’imputato nella situazione anteriore al tale lesione dei suoi diritti della difesa, consentendogli non solo di partecipare al processo, ma anche di optare per i riti abbreviati, scelta di cui era stato privato a causa dell’estromissione dal processo. Il giudice italiano sceglie dunque di travolgere integralmente il giudicato, azzerando una vicenda processuale durata diversi anni (la sentenza di primo grado era del 1998), per conformarsi alla pronuncia di Strasburgo e riparare alla violazione dei diritti fondamentali. In tal modo, egli, inoltre, si pone in linea con la recente giurisprudenza costituzionale in cui viene dato rilievo all’obbligo di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU. Nella sentenza della Corte d’appello viene infatti esplicitamente citata la sentenza 317/2009 e ricordato come l’armonia tra i vari livelli di tutela e la piena garanzia dei diritti fondamentali impone, quindi, lo sforzo di compiere un’interpretazione adeguatrice del diritto italiano alla CEDU. La scelta del giudice italiano, per quanto drastica, non può che essere condivisa, in quanto la considerazione della perdita in termini di economia processuale e l’allungamento dei tempi non può superare la necessità di assicurare un equo processo con tutte le garanzie del diritto della difesa. Una tale situazione, inoltre, si sarebbe potuta evitare se il giudice italiano si fosse adeguato fin dai primi gradi del giudizio alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di contumacia, effettuando un esame più approfondito e rifiutando qualsiasi tipo di presunzione in proposito