Il controllo giurisdizionale sulle misure europee di contrasto alla proliferazione nucleare in Iran (I)

Tanto la sentenza del Tribunale dell’Unione del 7 dicembre 2011, T‑562/10, HTTS Hanseatic Trade Trust & Shipping GmbH, quanto la sentenza della Corte di giustizia del 21 dicembre 2011, causa C‑72/11, Afrasiabi e a., si inseriscono in quell’ormai consolidato e nutrito “filone” di decisioni attraverso cui viene garantito il controllo giurisdizionale sulle misure restrittive adottate a livello europeo nell’ambito della politica estera e di sicurezza comune in attuazione di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
In questo contributo, fatta qualche necessaria premessa più generale, si illustrerà brevemente la sentenza del 7 dicembre. Nell’altro “parallelo” e omonimo contributo – “Il controllo giurisdizionale sulle misure europee di contrasto alla proliferazione nucleare in Iran (II)” – ci si soffermerà su quella del 21 dicembre.
Nella sentenza HTTS del 7 dicembre, come nel celebre “leading case” Kadi (v. subito oltre per qualche cenno di riepilogo), l’intervento degli organi giurisdizionali europei avviene ai fini del controllo di validità delle misure controverse (non così nella decisione Afrasiabi del 21 dicembre, non per questo meno interessante): in questo caso, si trattava di misure adottate allo scopo di esercitare pressioni sulla Repubblica islamica dell’Iran affinché quest’ultima ponga fine alle attività nucleari che presentino un rischio di proliferazione e alle attività di sviluppo di sistemi di lancio di armi nucleari.


Nella notissima vicenda Kadi, invece, i giudici comunitari avevano avuto modo di esprimersi sulla cruciale tematica che – nell’ambito della lotta contro il terrorismo internazionale legato a Osama bin Laden – potrebbe riassumersi sotto il titolo “misure antiterrorismo, diritti fondamentali e rapporti tra ordinamenti”, giungendo ad alcune importantissime statuizioni che rappresentano in buona parte il fondamento anche della sentenza ora in esame: nella sentenza Kadi del 3 settembre 2008, in particolare, la Corte di giustizia aveva chiaramente affermato – ribaltando la discutibilissima ricostruzione generale (e il conseguente approccio “astensionista”) del Tribunale – che «la Comunità è una comunità di diritto nel senso che né i suoi Stati membri né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale fondamentale costituita dal Trattato CE», aggiungendo che un accordo internazionale (quale, in specie, quello istitutivo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite) «non può pregiudicare il sistema delle competenze definito dai Trattati e, di conseguenza, l’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario di cui la Corte di giustizia assicura il rispetto in forza della competenza esclusiva di cui essa è investita» (competenza già in passato considerata come «facente parte dei fondamenti stessi della Comunità»).

Su questa basi, la Corte giungeva alla conclusione secondo cui «gli obblighi imposti da un accordo internazionale non possono avere l’effetto di compromettere i principi costituzionali del Trattato CE, tra i quali vi è il principio secondo cui tutti gli atti comunitari devono rispettare i diritti fondamentali, atteso che tale rispetto costituisce il presupposto della loro legittimità, che spetta alla Corte controllare nell’ambito del sistema completo di mezzi di ricorso istituito dal Trattato stesso».

Queste “storiche” statuizioni della Corte meritavano di essere richiamate in quanto la sentenza del Tribunale del 7 dicembre 2011 interviene in un contesto normativo per un verso differente – e di qui l’elemento di novità e interesse della decisione attuale – rispetto a quello delle sentenze poc’anzi richiamate (le quali, come si è anticipato, avevano ad oggetto misure di contrasto del terrorismo internazionale legato a Osama bin Laden) e tuttavia “strutturalmente” rispondente alle medesime logiche di fondo che erano alla base della vicenda Kadi.
Anche nel caso attuale, infatti, le misure restrittive prese a livello europeo avevano lo scopo di dare attuazione a risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza ai sensi dell’art. 41 del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite: inizialmente, la risoluzione 1737 (2006), cui si è dato seguito, a livello dell’Unione, con la posizione comune del Consiglio 27 febbraio 2007, 2007/140/PESC, e, in ambito propriamente comunitario, con il regolamento (CE) del Consiglio 19 aprile 2007, n. 423, il quale, all’art. 7, n. 2, prevedeva il congelamento dei capitali delle persone, entità o organismi riconosciuti dal Consiglio dell’Unione europea come partecipanti alla proliferazione nucleare ai sensi della posizione comune 2007/140 (l’elenco delle persone, entità e organismi interessati dal congelamento dei capitali era contenuto in un apposito allegato a tale regolamento).
Successivamente, anche sulla base delle nuove risoluzioni adottate nel frattempo dal Consiglio di sicurezza, la posizione comune 2007/140 è stata abrogata e sostituita dalla decisione del Consiglio 26 luglio 2010, 2010/413/PESC; e, di conseguenza, il regolamento n. 423/2007 è stato rimpiazzato dal regolamento (UE) del Consiglio 25 ottobre 2010, n. 961, ai sensi del cui art. 16, n. 2, «[s]ono congelati tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati dalle persone, [dalle] entità o [dagli] organismi di cui all’allegato VIII. Figurano nell’allegato VIII le persone, fisiche o giuridiche, le entità e gli organismi (…) che a norma (…) della decisione [2010/413], sono stati riconosciuti come: a) partecipanti, direttamente associati o fonte di sostegno [alla proliferazione], (…) o posseduti o controllati da tale persona, entità o organismo, anche con mezzi illeciti, o operanti per loro conto o sotto la loro direzione; (…) d) persone giuridiche, entità o organismi posseduti o controllati dall’[IRISL]». Ai sensi dell’art. 36 del medesimo regolamento, «[q]ualora il Consiglio decida di applicare a una persona fisica o giuridica, a un’entità o a un organismo le misure di cui all’articolo 16, paragrafo 2, esso modifica di conseguenza l’allegato VIII», trasmettendo «la sua decisione e i motivi dell’inserimento nell’elenco alla persona fisica o giuridica, all’entità o all’organismo [coinvolto] direttamente, se l’indirizzo è noto, o mediante la pubblicazione di un avviso, dando alla persona fisica o giuridica, all’entità o all’organismo la possibilità di presentare osservazioni». Qualora osservazioni siano presentate, o qualora siano addotte nuove prove sostanziali, «il Consiglio riesamina la decisione e ne informa conseguentemente la persona fisica o giuridica, l’entità o l’organismo».

Tutto ciò quanto agli elementi essenziali del contesto normativo.
Quanto alla vicenda specifica – che occorre ricostruire anche sotto il profilo fattuale per poter intendere la portata della decisione – il nome dell’entità ricorrente (la società tedesca HTTS Hanseatic Trade Trust & Shipping, operante come mediatore marittimo e gestore tecnico di navi) era stato inserito nell’elenco di cui all’allegato II della decisione del Consiglio 2010/413, in data 26 luglio 2010; e – per effetto del regolamento di esecuzione (UE) del Consiglio n. 668, della stessa data – era stato contestualmente iscritto nell’elenco allegato al regolamento n. 423/2007 (in quel momento ancora in vigore). Ne è derivato il congelamento dei capitali e delle risorse economiche della HTTS.
L’unica motivazione riportata era che la HTTS «agisce per conto di [Hafize Darya Shipping Lines (HDSL)] in Europa». Nulla si aggiungeva nella lettera del 28 luglio 2010 con cui il Consiglio informava la diretta interessata dell’inserimento del suo nome nell’elenco allegato al regolamento n. 423/2007.
Con lettere del 10 e 13 settembre 2010, la HTTS chiedeva al Consiglio di procedere ad un riesame della decisione di inserimento nell’elenco.
A decorrere dal 26 ottobre 2010 il regolamento n. 423/2007 è stato sostituito, come si è ricordato, dal regolamento n. 961/2010, ed il nome della ricorrente è stato nuovamente inserito dal Consiglio nell’allegato VIII di quest’ultimo regolamento, sicché i capitali e le risorse economiche della ricorrente sono rimasti congelati in forza dell’art. 16, n. 2, del regolamento n. 961: si noti che la motivazione addotta a sostegno dell’inserimento del nome della ricorrente nell’elenco è stata, in questo caso, che essa «è controllata e/o agisce per conto [dell’]IRISL [la Repubblica islamica dell’Iran]» (si tornerà più avanti su tale incongruenza).
Due giorni dopo il Consiglio rispondeva alle lettere della ricorrente comunicando che, a seguito di riesame, esso respingeva la richiesta di eliminazione del nome della ricorrente dall’elenco controverso, in quanto (e anche su tale circostanza occorre porre l’attenzione) il fascicolo non presentava elementi nuovi che giustificassero un mutamento della propria posizione, dovendo dunque la ricorrente restare soggetta alle misure restrittive previste dal regolamento.
La HTTS rispondeva a sua volta chiedendo al Consiglio di indicarle le prove su cui si basava l’inserimento del proprio nome nella “black list”; e, in assenza di riscontro, ricorreva innanzi al Tribunale, chiedendo l’annullamento (nella parte che la riguardava) del regolamento n. 961/2010.

Nel merito, la società ricorrente deduceva i seguenti sei motivi: 1) violazione dell’obbligo di motivazione; 2) violazione dei suoi diritti della difesa e, in particolare, del suo diritto al contraddittorio; 3) violazione del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva; 4) errore di valutazione connesso all’applicazione dell’art. 16, n. 2, del regolamento n. 961/2010; 5) violazione del diritto al rispetto della proprietà; 6) violazione del principio di proporzionalità.
Può notarsi come tali motivi riguardino gli stessi diritti e principi fondamentali riaffermati dalla Corte – dopo essere stati inizialmente privati di tutela dal Tribunale – nella vicenda Kadi.
Poiché peraltro il ricorso è stato accolto sulla base del primo motivo (quello cioè per cui la motivazione dell’inserimento nell’elenco sarebbe stata «insufficiente e contraddittoria»), mentre sugli altri motivi il Tribunale non si è espresso, è soltanto su questo primo aspetto che occorre qui soffermarsi.

In proposito, il Tribunale ricorda anzitutto come l’obbligo di motivare un atto pregiudizievole – obbligo previsto dall’art. 296, c. 2, del TFUE e, più in particolare, nel caso di specie, dall’art. 36, n. 3, del regolamento n. 961/2010 – costituisca «un principio fondamentale del diritto dell’Unione al quale si può derogare solo sulla base di ragioni imperative», avendo lo scopo, «da un lato, di fornire all’interessato indicazioni sufficienti per giudicare se l’atto sia fondato oppure se sia eventualmente inficiato da un vizio che consenta di contestarne la validità dinanzi al giudice dell’Unione e, dall’altro lato, di consentire a quest’ultimo di esercitare il suo sindacato di legittimità su tale atto»: sono dunque le stesse finalità dell’obbligo di motivazione a rendere chiaro perché questa, in linea di principio, debba essere comunicata all’interessato «contestualmente all’atto che gli arreca pregiudizio, in quanto la sua mancanza non può essere sanata dal fatto che l’interessato venga a conoscenza dei motivi dell’atto nel corso del procedimento dinanzi al giudice dell’Unione».
Ne discende che, «salvo che ragioni imperative riguardanti la sicurezza dell’Unione o dei suoi Stati membri o la condotta delle loro relazioni internazionali ostino alla comunicazione di determinati elementi» (e si richiama qui, per analogia, proprio la sentenza Kadi del 3 settembre 2008, punto 342), il Consiglio è tenuto a «portare a conoscenza dell’entità interessata da un provvedimento adottato in forza dell’art. 16, n. 2, di detto regolamento le ragioni specifiche e concrete per cui esso stima che tale disposizione risulti applicabile all’interessato»,  menzionando «gli elementi di fatto e di diritto da cui dipende la giustificazione giuridica della decisione e le considerazioni che l’hanno indotto ad adottarla» (sia pure in termini più o meno dettagliati a seconda della «natura dell’atto in questione» e del «contesto in cui esso è stato adottato», dovendosi ritenere in particolare che «un atto che arreca pregiudizio è sufficientemente motivato quando è stato emanato in un contesto noto all’interessato, che gli consenta di comprendere la portata del provvedimento adottato nei suoi confronti»: cfr. su questo la sentenza del Tribunale 12 dicembre 2006, causa T­-228/02, Organisation des Modjahedines du peuple d’Iran c. Consiglio, p.to 141, e la giurisprudenza ivi citata).
In tale quadro, e venendo al caso di specie, il Tribunale condivide anzitutto l’osservazione per cui gli elementi di motivazione forniti dal Consiglio, da un lato, nell’allegato al regolamento n. 961/2010 e, d’altro lato, nella lettera inviata alla ricorrente il 28 ottobre 2010, appaiono contraddittori. Difatti, «mentre detta lettera si riferisce ad un riesame della situazione della ricorrente e alla mancanza di nuovi elementi che giustifichino il mutamento di posizione del Consiglio, la motivazione fornita nell’allegato VIII di detto regolamento differisce da quella sostenuta precedentemente nei confronti della ricorrente nel regolamento di esecuzione n. 668/2010. Non risulta pertanto chiaro se l’iscrizione del nome della ricorrente nell’elenco controverso sia dovuta al mantenimento delle circostanze invocate nel regolamento di esecuzione n. 668/2010, ossia i legami tra la ricorrente e l’HDSL, o a nuove circostanze, ossia i legami diretti tra la ricorrente e l’IRISL».
Inoltre, quali che siano le circostanze effettivamente considerate dal Consiglio ai fini dell’iscrizione del nome della ricorrente nell’elenco controverso, in ogni caso «la motivazione fornita dallo stesso non è sufficiente alla luce delle norme menzionate» (cioè l’art. 296, c. 2, TFUE e l’art. 36, n. 3, del regolamento n. 961/2010): per un verso, infatti, «supponendo che il Consiglio si sia basato sui legami tra la ricorrente e l’HDSL, né l’allegato VIII del regolamento n. 961/2010, né la lettera del Consiglio del 28 ottobre 2010 permettono di valutare i motivi per i quali il Consiglio ha ritenuto che gli elementi addotti dalla ricorrente nelle sue lettere del 10 e 13 settembre 2010, riguardanti in particolare la natura delle sue attività e la sua autonomia rispetto all’HDSL e all’IRISL, non fossero idonei a modificare la sua posizione con riguardo al mantenimento delle misure restrittive nei suoi confronti»; per l’altro, «anche supponendo che il Consiglio si sia basato sui legami diretti tra la ricorrente e l’IRISL, né l’allegato VIII del regolamento n. 961/2010, né la lettera del Consiglio del 28 ottobre 2010 definiscono la natura del presunto controllo esercitato dall’IRISL sulla ricorrente o le attività che quest’ultima gestisce per conto dell’IRISL e che giustificano l’adozione di misure restrittive nei suoi confronti».
Tutto ciò considerato, il Tribunale accoglie il primo motivo di ricorso e annulla il regolamento nei limiti in cui esso riguarda la ricorrente, «senza che sia necessario esaminare gli altri motivi».

D’altra parte, come in altri casi analoghi (ma, per alcune soluzioni particolari, cfr. ad esempio la sentenza del Tribunale dell’11 giugno 2009, causa T-318/01, Omar Mohammed Othman c. Consiglio e Commissione), il Tribunale considera che, «dal momento che dalla presente sentenza consegue che il regolamento n. 961/2010 deve essere annullato, nei limiti in cui esso riguarda la ricorrente, sulla base di una violazione dell’obbligo di motivazione, non può escludersi che, nel merito, l’imposizione di misure restrittive alla ricorrente possa comunque risultare giustificata», sicché l’annullamento con effetto immediato del regolamento n. 961/2010, nei limiti in cui esso riguarda la società HTTS, potrebbe «arrecare un pregiudizio grave ed irreversibile all’efficacia delle misure restrittive che tale regolamento impone, dal momento che, nel lasso di tempo precedente alla sua eventuale sostituzione da parte di un nuovo atto, la ricorrente potrebbe adottare comportamenti miranti ad eludere l’effetto delle successive misure restrittive»: pertanto, «in forza dell’art. 264 TFUE e dell’art. 41 dello Statuto della Corte, occorre mantenere gli effetti del regolamento n. 961/2010, laddove esso inserisce il nome della ricorrente nell’elenco costituente l’allegato VIII dello stesso, per un periodo non superiore a due mesi a decorrere dalla data di pronuncia della presente sentenza».