Il diritto della scienza e i diritti della vita La Corte di Giustizia di nuovo sollecitata a definire il concetto di “embrione umano”

Il 17 luglio scorso sono state depositate le conclusioni dell’Avvocato Generale della Corte di Giustzia dell’Unione Europea, Cruz Villalòn, nella causa C-364/13, International Stem Cell Corporation c. Comptroller General of Patents.

A soli tre anni dalla decisione del caso Brüstle c. Greenpeace (C-34/10 del 18 ottobre 2011) la Corte di Giustizia è stata nuovamente sollecitata a pronunciarsi sull’interpretazione dell’ art. 6, par. 2, lett. c), della direttiva 98/44/CE del Parlamento e del Consiglio del 6 luglio 1998 sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche.

Si ripropone la questione se le invenzioni che coinvolgono l’uso di ovuli umani possano essere brevettate e se, in caso di risposta affermativa, lo possano essere anche qualora l’ovulo sia fecondato. Il tema presentato all’esame del giudice investe il campo della bioetica, tuttavia tale circostanza non lo esclude dalla sfera giuridica, e preliminarmente, si deve osservare come tutti i problemi bioetici emersi con forza soprattutto negli ultimi due decenni ruotino attorno ad un tema di fondo che è quello di stabilire l’essenza dell’umano: cioè cosa si debba intendere giuridicamente per persona e come si possano fondare e apprezzare il suo valore, la sua dignità ed i suoi diritti.

Il caso, per la densità, varietà e problematicità degli aspetti coinvolti, è intellettualmente molto stimolante e presenta profili di estrema complessità implicando l’analisi di questioni e tematismi che coinvolgono profondamente la sfera della coscienza individuale.

In una prospettiva speculativa generale, una prima rilevante difficoltà che l’interprete deve affrontare è quella di coniugare l’ineliminabile presenza di aspetti metagiuridici che ineriscono e condizionano ogni riflessione giuridica su temi bioetici. Così, ogni indagine che il biodiritto effettua in relazione ad essi si deve confrontare con il presupposto ineliminabile rappresentato dall’indagine sul contenuto sostanziale, prima che normativo, dei concetti di persona e dignità umana.

Come è noto, il dibattito inerente le relazioni che si instaurano fra vita, etica, scienza e diritto è relativamente recente e si arricchisce costantemente di nuovi spunti di riflessione soprattutto in conseguenza della costante implementazione delle nuove tecnologie e della biologia che consentono di «dominare» la vita e le sue fasi, incidendo sostanzialmente su quello che è l’assetto dello svolgersi degli eventi naturali. Nel caso in parola, le direttrici di sviluppo delle tecnologie di manipolazione genetica degli ovuli umani rappresentano uno degli elementi di maggior rilievo nelle argomentazioni dell’Avvocato generale e presumibilmente avranno un peso determinante anche nell’orientare la decisione della Corte.

Come anticipato, già nel caso Brüstle il Bundesgerichtshof aveva sollevato la questione della definizione di embrione umano: questione tanto fondamentale quanto delicata, seppur limitata al concetto rilevante ai sensi della direttiva 98/44/CE.

È opportuno ricostruire brevemente la vicenda al fine di comprendere l’orizzonte entro il quale si deve muovere la Corte di giustizia: il giudice tedesco aveva sollecitato l’intervento della Corte al fine di stabilire se «ovuli umani non fecondati, stimolati attraverso la partenogenesi a dividersi e svilupparsi siano ricompresi nella nozione [di embrione umano]», atteso che la documentazione relativa al brevetto citava tali ovuli come un modo alternativo di ottenere cellule staminali umane embrionali.

In quella sede, la Corte, pur rilevando come «la definizione dell’embrione umano costituisca un tema sociale particolarmente delicato in numerosi Stati membri, contrassegnato dalla diversità dei loro valori e delle loro tradizioni» e come essa non sia «chiamata (…) ad affrontare questioni di natura medica o etica», dovendosi limitare «ad un’interpretazione giuridica delle pertinenti disposizioni della direttiva», ha comunque adottato una posizione significativa stabilendo – ai sensi dei considerando 16 e 38, l’articolo 5, paragrafo 1 e l’articolo 6 della direttiva – che va esclusa qualsiasi possibilità di ottenere un brevetto quando il rispetto dovuto alla dignità umana possa esserne pregiudicato, dovendosi accogliere una nozione di «embrione umano» da intendersi «in senso ampio». Conseguentemente, si è stabilito che «costituisce un “embrione umano” qualunque ovulo umano fin dalla fecondazione, qualunque ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e qualunque ovulo umano non fecondato che, attraverso partenogenesi, sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi», spettando poi «al giudice nazionale stabilire, in considerazione degli sviluppi della scienza, se una cellula staminale ricavata da un embrione umano nello stadio di blastocisti costituisca un «embrione umano» ai sensi dell’art. 6, n. 2, lett. c), della direttiva 98/44/CE.

Sulla scorta di ciò, «considerando che il diritto dei brevetti dev’essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscono la dignità e l’integrità dell’uomo», la Corte ha ribadito il principio secondo cui «il corpo umano, in ogni stadio della sua costituzione e del suo sviluppo (…) non può costituire oggetto di brevetto». Tale statuizione si fonda sul fatto che, pur essendo vero che la normativa europea oggetto di interpretazione è finalizzata a incoraggiare gli investimenti nel settore della biotecnologia, comunque lo sfruttamento del materiale biologico di origine umana deve «essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscono la dignità e l’integrità dell’uomo».

Il caso oggi all’esame della Corte nasce da un ricorso ex art. 267 TFUE, proposto dalla High Court of Justice (Chancery Division) del Regno Unito, con cui si è chiesto alla Corte di Giustizia di stabilire «se gli ovuli umani non fecondati, stimolati a dividersi e svilupparsi attraverso la partenogenesi, e che, a differenza degli ovuli fecondati, contengono solo cellule pluripotenti e non sono in grado di svilupparsi in esseri umani, siano ricompresi nell’espressione “embrioni umani” di cui all’articolo 6, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 98/44/CE sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche».

Trovandosi a dover interpretare la direttiva citata alla luce della lettura già offertane dai Giudici di Lussemburgo, nelle proprie conclusioni l’Avvocato generale ha evidenziato i profili di errore in cui essi sarebbero incorsi. Profili di errore probabilmente ingenerati da una non piena consapevolezza di alcuni risvolti tecnico-scientifici.

Si è tentata, così, una lettura della normativa europea che conferma le determinazioni di principio di cui al caso Brüstle eliminando, al contempo, alcuni margini di ambiguità ivi presenti.

Per l’Avvocato generale l’aspetto più rilevante delle argomentazioni del caso Brüstle inerisce la perimetrazione del criterio in presenza del quale ritenere applicabili i limiti di cui all’articolo 6, par. 2, lettera c), della direttiva 98/44/CE, vale a dire se un organismo sia «tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano».

Dalle motivazioni del caso Brüstle emergeva chiaramente il collegamento fra la nozione di embrione umano e la capacità di un ovulo umano di «dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano» (enfasi aggiunta)», tuttavia la definizione di “embrione umano” fornita dalla Corte di Giustizia (cfr. supra) sarebbe stata eccessivamente ampia, non rispondente alle evidenze scientifiche e andrebbe, pertanto, ricalibrata. Infatti, al fine di comprendere la ratio sottesa alla decisione Brüstle e addivenire ad una soluzione coerente del caso International Stem Corporation c. Comprtoller General of Patents, è indispensabile focalizzare l’attenzione su cosa si debba intendere con l’espressione «tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano». L’Avvocato generale ritiene che il criterio decisivo di cui si dovrebbe tenere conto per stabilire se un ovulo non fecondato possa essere definito un embrione umano sia da individuarsi nella sua «capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano, ossia se esso costituisca davvero l’equivalente funzionale di un ovulo fecondato».

Nel caso di specie, alla luce delle argomentazioni esposte dal giudice del rinvio e dalla documentazione prodotta dalle parti, si conclude che i partenoti (ovuli umani nati in laboratorio da partenogenesi) non hanno, di per sé, la necessaria capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano e, quindi, in quanto tali, non possono costituire un «embrione umano». In ragione di ciò, si propone alla Corte di Giustizia di dichiarare che «gli ovuli umani non fecondati, la cui divisione, e il cui sviluppo ulteriore, siano stati stimolati attraverso la partenogenesi, non sono compresi nella nozione di «embrioni umani», di cui all’articolo 6, paragrafo 2, lettera c), della direttiva».

Tale affermazione va, tuttavia circostanziata alle sole ipotesi in cui i partenoti  umani non vengano manipolati geneticamente in modo da potersi sviluppare a termine e dunque in un essere umano: infatti, alla luce delle manipolazioni genetiche condotte con successo sui topi, l’Avvocato non esclude categoricamente che in futuro ciò non diventi possibile e, in tal caso, «[o]ve il partenote sia manipolato in modo tale da acquisire effettivamente la rispettiva capacità, esso non può più essere considerato un partenote e, di conseguenza, non può essere brevettato».

Resta ora da chiedersi quale potrebbe essere la portata di una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che aderisse alle conclusioni dell’Avvocato Generale. E può sin da ora sostenersi che il suo concreto impatto sui margini di brevettabilità delle scoperte scientifiche inerenti gli ovuli umani dipenderà, in certa misura, anche dall’approccio dei singoli Stati membri dell’Unione.

La Corte di giustizia e le istituzioni europee sono ben consapevoli della delicatezza etico-sociale della definizione del concetto di “embrione umano”, il suo coinvolgere la sfera della coscienza individuale e considerazioni di ordine etico e morale che nei diversi Stati dell’Unione Europea si declinano variamente, ed in termini non sempre agevolmente conciliabili. In ragione di ciò, le previsioni di cui all’art. 6, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 98/44/CE non hanno un carattere esauriente e perciò limiteranno l’effetto pratico della risposta alla questione sottoposta all’esame della Corte nel caso di specie.

Quand’anche, infatti, i giudici di Lussemburgo dovessero ritenere che i partenoti siano da escludere dalla nozione di embrione umano rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva (seppur con le riserve espresse dall’Avvocato Generale), ciò non osterebbe a che i singoli Stati membri comunque decidano di escludere la brevettabilità di invenzioni biotecnologiche quali quella oggetto del caso in commento.

Secondo quanto argomentato dall’Avvocato generale, e coerentemente con la giurisprudenza della Corte d Giustizia, l’art. 6, paragrafo 2, della direttiva va necessariamente letto in connessione con il paragrafo 1 della medesima disposizione, ai sensi della quale «sono escluse dalla brevettabilità le invenzioni il cui sfruttamento commerciale è contrario all’ordine pubblico o al buon costume».

Il paragrafo 2 del citato art. 6 si limita ad illustrare in modo indicativo (ed orientativo, per gli Stati membri) una serie di invenzioni non brevettabili (cfr. anche il considerando n. 38 della Direttiva): individua, cioè, una sorta di “nucleo minimo di tutela” non derogabile, ma non osterebbe a che uno Stato, alla luce di considerazioni di ordine pubblico o attinenti al buon costume, fornisse un’interpretazione maggiormente restrittiva (o, per alcuni, garantistica) rispetto a quella eventualmente  rappresentata dalla Corte di Giustizia.