Il mito della rivoluzione e gli studi costituzionali. A proposito del volume Rivoluzione fra mito e costituzione

Il libro Rivoluzione fra mito e costituzione. Diritto, società e istituzioni nella modernità europea (Sapienza University Press, 2017), curato da Giuseppe Allegri e Andrea Longo, è un’opera che non dovrebbe mancare tra le letture di chi si avvicini agli studi costituzionali. I curatori del volume – Andrea Longo, associato di diritto costituzionale alla Sapienza, e Giuseppe Allegri, saggista politico e ricercatore a piede libero – hanno raccolto un gruppo variegato di studiosi, appartenenti a diverse generazioni e diverse aree di ricerca (prevalentemente costituzionalisti e storici o storici del pensiero), proponendogli di ragionare su alcuni dei temi più affascinanti, e al contempo complessi, per la teoria della costituzione: rivoluzione, potere costituente, democrazia. Per questo obiettivo ambizioso, e per la qualità degli autori coinvolti, il libro si colloca al centro della tradizione degli studi costituzionali, cui contribuisce con il necessario apporto di saperi filosofici, giuridici, storici e politico-sociali.
I temi centrali dell’opera sono tutti affrontati nel saggio di Andrea Longo. Già nel volume Tempo, interpretazione, costituzione (2016) Longo aveva dedicato un’ampia riflessione al rapporto, paradossale e dunque fecondo, tra costituzionalismo e democrazia, seguendo la scia degli studi di Holmes. Qui, l’analisi è condotta ad un livello di astrazione ancora maggiore: la rivoluzione democratica legittima e costituisce l’ordine politico, di cui la costituzione è il più evidente risultato; al contempo, la costituzione esprime la pretesa di conservare, regolare e limitare lo stesso potere democratico che l’ha espressa. La costituzione vive dunque un rapporto contraddittorio con il tempo. Essa è contemporaneamente scintilla fondativa di un tempo nuovo (il calendario rivoluzionario è perciò forse il più radicale gesto costituente nella vicenda francese) e atto positivo destinato a vincolare il futuro. Paine in America e Condorcet in Francia sono gli autori che più degli altri compresero la grandezza di questo paradosso, basandovi alcuni grandi traguardi del costituzionalismo moderno (su Condorcet vale la pena vedere P. Persano, La catena del tempo, 2007).
Nella riflessione di Longo sembrano avere un ruolo determinante gli studi di Reinhard Koselleck. Se la lotta politica in America e in Francia può farsi rivoluzionaria, e può esprimere la pretesa di innovare l’ordinamento e la società, non limitandosi dunque ad essere rivolta, è perché sono frattanto mutati i canoni condivisi circa la percezione del tempo. Il tempo ciclico e indisponibile della socialità antica e medievale è sottoposto, con le rivoluzioni scientifiche della modernità, ad un ripensamento, che lo proietta verso il futuro.
Sono temi e problemi cruciali per gli studi costituzionali, che nel saggio di Francesco Rimoli vengono ripensati nella prospettiva della teoria luhmanniana dei sistemi. La rivoluzione – che nella storia moderna e contemporanea dell’occidente ha rappresentato un mito politico frutto di un processo di secolarizzazione di concetti religiosi – può infatti essere letta, nella prospettiva luhmanniana, come scossa di assestamento del sottosistema giuridico, solo apparentemente guidato da ideologie volontaristiche di radicale mutamento, in realtà diretto da esigenze profonde di assestamento del sottosistema.
Se per Longo e Rimoli la tensione tra rivoluzione e costituzione è anzitutto fonte di un paradosso che interroga il diritto sul piano della sua coerenza sistemica, per Allegri la tensione tra questi due poli è piuttosto creatrice di una prassi critica dei poteri e immaginativa dei diritti, che vivifica e riattualizza le istanze popolari nello svolgimento della vita costituzionale. Allegri, in questo modo, recupera le intuizioni negriane sul concetto di potere costituente come risorsa inesauribile, che persiste anche oltre il momento rivoluzionario, come potenza dispiegata e ostile, di vigilanza e pretesa. Queste coordinate di senso sono peraltro sviluppate con specifico riferimento ad un contesto, quello della rivoluzione del 1848 in Francia, particolarmente idoneo a descrivere il multiforme linguaggio del potere rivoluzionario del popolo e la mutazione degli stessi soggetti costituenti, rispetto all’ambiente, più noto, delle rivoluzioni di fine settecento. Perché nell’848 la questione sociale entra a pieno titolo nel nucleo dell’istanza rivoluzionaria, e perché le forme dei movimenti rivoluzionari assumono aspetti originali e creativi, investendo direttamente le arti. Al termine di un affascinante affresco di storia delle arti, Allegri può dunque concludere che «i tentativi di trasformazione del canone artistico-letterario si affiancano e procedono insieme con i movimenti che chiedono cambiamenti negli assetti istituzionali e riconoscimento di nuovi diritti» (123). È, quella di Allegri, un’apertura sul rapporto tra vita artistica e vita costituzionale, che mette a frutto e radicalizza la lezione häberliana sul rapporto tra cultura e diritto, e dischiude scenari suggestivi per gli studi costituzionali. Allegri proietta poi il medesimo metodo su altri esperimenti rivoluzionari: la Comune parigina, la repubblica romana, l’impresa dannunziana a Fiume, confermando la validità dell’intuizione metodologica.
In continuità con questo approccio, che valorizza la dimensione del diritto costituzionale quale scienza della cultura (Häberle), Antonio Cervati ricostruisce la tradizione italiana degli studi costituzionali, enfatizzando gli orientamenti più attenti alla contestualizzazione del diritto scritto nelle coordinate storiche e sociali in cui esso prende forma. Orientamenti marginalizzati a seguito della svolta formalistica orlandiana. L’invito a studiare il testo costituzionale nel contesto sociale e culturale in cui esso prende forma esibisce una forza critica degli assetti di potere consolidati e promotrice di mutamento costituzionale: «Quel che si deve respingere – spiega infatti Cervati – è l’idea che il diritto costituzionale sia pura espressione di chi detiene il potere politico al momento dell’esercizio del potere costituente, quando viene approvato, promulgato e pubblicato un testo costituzionale» (158). Come già nella prospettiva di Allegri, dunque, il mito del potere costituente rivoluzionario riduce il significato sociale e culturale del mutamento costituzionale, associandolo alle azioni e alle ideologie delle sole élites, mentre la costituzione – anche se cristallizzata in un testo – è anzitutto prodotto sociale. Nell’interpretazione costituzionale, il testo riceve linfa e pluralità di significati attraverso la consapevolezza di questo humus da cui il testo ha poi preso forma («l’interpretazione dei testi costituzionali è anch’essa un momento creativo al pari della scrittura e non può perciò ridursi a un’operazione di irrigidimento di alcune clausole testuali», 160). È da questo pluralismo di valori e progettualità costituzionali, e dal loro progressivo utilizzo ai fini della interpretazione della costituzione, che prende le mosse il mutamento costituzionale.
Franco Modugno partecipa al volume attraverso un’intervista condotta dagli stessi curatori, che invitano il giurista, oggi giudice costituzionale, a riflettere sui temi di fondo dell’opera. In pagine molto dense, Modugno ricostruisce la sua formazione e il significato che assume nella sua visione il tema del mutamento e dell’interpretazione della costituzione. Come per Cervati – con il quale Modugno condivide diverse influenze culturali e percorsi formativi – il mutamento del diritto avviene nella storia e all’esito di processi interpretativi, piuttosto che nella meccanica dei processi rigenerativi, rivoluzionari o di riforma. Tuttavia, mentre in Cervati la politica è elemento essenziale della società aperta degli interpreti, perché la cultura costituzionale è espressione di movimenti politici e trova nel processo politico “momenti di maturazione”, in Modugno la politica occupa una posizione più marginale; essa, perfino, distorce e impedisce la necessaria neutralità dell’interpretazione costituzionale. La società aperta degli interpreti di Modugno è dunque lontana, e perfino separata dalla politica e dalle istanze sociali; e dialoga piuttosto con concordanze ideali.
A questi contributi, che impostano il problema sotto il profilo della teoria della costituzione, si affiancano una serie di contributi scritti nella prospettiva della storia del costituzionalismo. Fabrizio Politi si confronta con il pensiero di Vincenzo Cuoco, a partire dalle valutazioni che l’intellettuale napoletano sviluppò attorno al progetto di costituzione della Repubblica napoletana, redatto da Mario Pagano; Augusto Cerri ricostruisce lo sviluppo storico del socialismo riformista, e la convergenza dei suoi ideali e obiettivi con la dimensione progettuale delle costituzioni del Novecento, e con la vicenda della costituzione italiana in particolare; Giuseppe Ugo Rescigno propone un percorso simile con riferimento al comunismo, al suo ruolo nella stagione del ’68 in Italia, e alla sua attualità nella società contemporanea.
La seconda parte del volume raccoglie i contributi di Andrea Marchili, Alessandro Guerra, Enrico Zanette, Catia Papa, Federica Castelli, Carolina Antonucci, Carlo Ricotti, ed è dedicata a studi di taglio storico e di storia del pensiero politico, anch’essi focalizzati su alcune potenti mitologie rivoluzione della modernità (il legislatore rousseauiano, il patriottismo), o su episodi rivoluzionari archetipici (la Comune di Parigi, Fiume e la carta del Carnaro, i fatti di Torino del 1917). In coerenza con l’approccio metodologico del volume, aperto e interdisciplinare, i saggi di taglio storico e quelli di taglio giuridico avrebbero potuto essere intervallati e raggruppati per temi o periodi, piuttosto che separati in due sezioni.

Nonostante la complessità dei temi trattati, il libro è scorrevole e di piacevole lettura. Il compito più difficile, per il recensore, è perciò risultato la sua collocazione negli scaffali della libreria. In questo caso, la collocazione è risultata molto complicata, per via della ricchezza dell’opera e del suo porsi all’intersezione tra diversi saperi e diversi problemi. Per ora, ha trovato posto tra Bronislaw Bazcko, Giobbe amico mio, e Antonio Cervati, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, dove mi pare si trovi molto a suo agio. Ma spero in realtà di poterlo presto suggerire e prestare a qualche amico, pur consapevole che i buoni libri raramente tornano indietro…
Una postilla: il volume è dedicato ad Elisabetta Canitano, ricercatrice alla Sapienza e comune amica dei curatori, di molti degli autori, e del recensore. La sua prematura scomparsa continua a interrogarci e intristirci; con lei se ne sono andati tempi avvincenti di scoperte e discussioni, nell’età della nostra formazione, che Betta ha vissuto con passione e potenza. Il libro di Allegri e Longo è giustamente dedicato a Betta, perché porta a compimento riflessioni nate in quello spazio condiviso di pensiero.