Il “Political speech” nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo: il caso Eon c. France

Con l’affaire Eon c. France (ric. n. 26118/2010) la V sez. della Corte Edu ha accertato la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso risulta di particolare interesse non solo per il richiamo a tecniche di giudizio e luoghi argomentativi tipici della giurisprudenza Edu sulla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche perché suscettibile di essere ascritto al genere dei “grandi classici” in tema di libertà di espressione: in questo caso, infatti, la ponderazione giudiziale coinvolge interessi naturalmente conflittuali, come il prestigio delle istituzioni (che conferisce un’aura di sacralità alla pubblica autorità), da un lato, e il diritto di critica del quisque de populo nei confronti del potere costituito, dall’altro.

La decisione prende le mosse dalla condanna, emessa dalle autorità giurisdizionali francesi, di un attivista politico socialista, colpevole di aver accolto l’allora Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy con un piccolo cartello che riportava le parole usate qualche tempo prima dallo stesso Presidente nei confronti di un contestatore: “Casse toi, pauvre con!”. Nel difendere la condanna emessa ai sensi dell’art. 26 della legge sulla stampa (loi 29 juillet 1889), che punisce l’offesa al Presidente della Repubblica, il Governo francese sottolinea la ratio della disposizione, che mirerebbe a tutelare non solo l’onore e la dignità della persona che riveste il munus, ma anche il corretto esercizio della funzione pubblica. In particolare, la condanna si giustificherebbe per la protezione accordata all’“ordine” e ai “rappresentanti delle istituzioni”. D’altro canto, a parere del Governo, lo Stato godrebbe di un ampio margine di apprezzamento qualora il discorso pubblico, come nel caso di specie, non verta su un tema di interesse pubblico o non abbia, comunque, un rilievo politico. In questo senso, le autorità francesi propongono una nozione restrittiva di “discorso pubblico” fondata sulla qualifica soggettiva del dichiarante, piuttosto che sulle oggettive circostanze del caso, o comunque, sulla pubblica funzione rivestita dall’offeso. Il ragionamento è chiaro, e pone, di fatto, una irragionevole differenziazione sociale a base di un diverso trattamento giuridico: poiché l’espressione è frutto di un’attività giornalistica, né il dichiarante è un “eletto” che ricopre un particolare ruolo pubblico, le sue opinioni possono collocarsi nell’ambio di uno “spazio convenzionalmente indifferente”, perché non contribuiscono in alcun modo al dibattito su questioni di rilievo pubblico.

Nel decidere la controversia, la Corte si serve dello schema triadico con cui, generalmente, risolve i casi che coinvolgono l’art. 10 della Convenzione: in base a questa tecnica di scrutinio, affinché le limitazioni statali superino il “vaglio di legittimità convenzionale” è necessario che 1) siano previste dalla legge; 2) perseguano un fine legittimo; 3) si pongano in un rapporto di necessaria strumentalità rispetto all’esistenza di una società democratica. Ed è proprio su quest’ultimo profilo che i giudici si concentrano, una volta riscontrata la sussistenza dei primi due requisiti. Come già rilevato in un dictum del leading case sull’art. 10 Cedu (Handyside v. United Kingdom, ricorso n. 549372/72, 1976) la Corte di Strasburgo riafferma la necessità di  verificare la proporzionalità dell’intervento alla luce di una valutazione complessiva delle circostanze concrete. Il carattere offensivo delle espressioni deve essere raffrontato, in particolare, con le qualifiche soggettive del destinatario della critica e del dichiarante in relazione al particolare contesto spazio-temporale del fatto. In questo senso, l’insulto indirizzato al Capo dello Stato ha una valenza chiaramente politica: in effetti, i limiti della critica devono essere valutati con minor rigore quando questa riguardi un uomo politico che, “(…) sottoposto ad un attento controllo dei suoi fatti e dei suoi gesti (…) dalla massa dei cittadini”, deve mostrare una tolleranza più ampia rispetto al comune cittadino. Inoltre, il tono chiaramente satirico delle espressioni utilizzate, che riprendevano, in un paradossale gioco delle parti, un insulto precedentemente riferito ad un contestatore dallo stesso Capo dello Stato, rafforza la posizione privilegiata della critica e, contestualmente, la necessità di assicurare il “libero dibattito sulle questione di interesse generali senza la quale non può esistere una società democratica”.

Accertata la violazione dell’art. 10 Cedu, tale pronuncia si colloca lungo quell’orientamento giurisprudenziale (inaugurato in Lingens vs Austria, ric. n. 9815/82, 1986, poi confermato più recentemente in Oberschlick vs. Austria, ric. n. 20834/92, 1997,) che riconosce una posizione privilegiata alla critica, potenzialmente offensiva nei toni, rivolta nei confronti  dell’uomo politico (per una panoramica v. G. E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico tra Corte europea dei diritti e Corte costituzionale, in N. Zanon (a cura di), Le corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, pp. 459 e ss.). Non sembra, tuttavia, che all’estensione del diritto di critica corrisponda una diffusa protezione convenzionale del discorso pubblico, che, al di là delle impegnative dichiarazioni di principio contenute in numerosi obiter dicta, trova nella giurisprudenza della Corte Edu numerosissime eccezioni. Non solo, infatti, l’ambito di estensione del diritto di critica viene riplasmato a seconda della qualifica rivestita del soggetto offeso (così, ad esempio, non sono ammesse opinioni che mettono in dubbio  l’integrità di chi esercita la funzione giurisdizionale, cfr. ad esempio Barfod. vs Denmar, ric. n. 11508/1985, 1989, Praeger and Obeschlick vs Austria, ric. n. 15974/90 1994, Schöpfer vs Switzerland, ric. no. 25405/94, 1998), ma si è consolidato, nella giurisprudenza convenzionale, un pervasivo controllo sul contenuto delle espressioni (un controllo content based, per dirla secondo una classica tecnica di giudizio della Corte Suprema USA).  Non solo, infatti, l’ hate speech negazionista o antisemita è escluso a priori dalla tutela convenzionale grazie all’effetto “ghigliottina” derivante dall’applicazione della clausola di abuso del diritto (art. 17 Cedu), perché contrario ai valori ispiratori della Convenzione (su cui, se si vuole, C. Caruso,  Ai confini dell’abuso del diritto: l’hate speech nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in L. Mezzetti, A. Morrone (a cura di), Lo strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo,  Torino 2011, pp. 329 e ss.); persino i vilipendi che non coinvolgono valutazioni critiche sull‘operato dei governanti, ma che offendono la “reputazione” dello stato, non sono considerati “convenzionalmente” protetti (v. ad esempio, recentemente, Rujak vs Croatia, ricorso 57942/10 (2012), su cui P. Tanzarella,  Il limite logico alla manifestazione del pensiero secondo la Corte europea dei diritti, su www.forumcostituzionale.it).

Alla luce di tali considerazioni, non può non apprezzarsi il rifiuto, espresso nella decisione in commento, di qualsiasi concezione “sacrale” della pubblica autorità, capace di giustificare la repressione del pensiero del quisque de populo. Eppure, tale pronuncia deve essere realisticamente valutata alla luce di “una giurisprudenza amplissima e in taluni casi contraddittoria”, (G. E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico cit., p. 467) che rende difficile l’individuazione “in maniera chiara e univoca”, di “(…) un dato che possa valere in (…) generale, indipendentemente dal caso concreto” (è questa la conclusione cui giunge, pur nell’ambito  di una valutazione complessiva della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, D. Tega nel suo recente lavoro monografico I diritti in crisi, Milano, 2012, p. 145).