Il referendum irlandese in materia di interruzione di gravidanza: quali prospettive per la futura regolamentazione?

1.Il referendum del 25 maggio 2018 che ha modificato parzialmente l’art. 40, co. 3, par. 3, della Costituzione irlandese si inserisce in un lungo percorso che, dall’espresso riconoscimento del diritto alla vita del nascituro, con corrispondente divieto di interrompere la gravidanza (corredato dalla sanzione dell’ergastolo dall’Offences against the Person Act 1861), giunge alla possibilità che siano regolamentati i casi e i modi che legittimano l’intervento interruttivo.
La modifica referendaria elimina il 36mo emendamento della Costituzione irlandese, inserito dopo il referendum del 7 ottobre 1983, con cui si riconosceva il diritto alla vita del nascituro, pur “con il dovuto riguardo per il pari diritto alla vita della madre”.
Nel 1992 tale assetto è stato parzialmente modificato grazie all’interpretazione della Corte suprema irlandese che nel caso Attorney General c. X riconobbe che l’interruzione di gravidanza fosse possibile a fronte di un pericolo per la vita (ma non per la salute) della donna (ivi compreso il rischio di suicidio) e alla luce di altri due emendamenti alla Costituzione, con cui si è riconosciuta la libertà di ottenere o rendere disponibili informazioni sui servizi interruttivi in altri paesi e di recarsi all’estero per ottenere tale tipo di prestazione. L’Irlanda è stata condannata, inoltre, in diverse occasioni dalla Corte EDU (Open Door and Dublin Well Women, 1992; A. B. e C., 2010) e, successivamente, è stato approvato il Protection of Life During Pregnancy Act 2013, che ha recepito l’interpretazione della Corte suprema e le indicazioni della Corte EDU.
L’esito del referendum non introduce in via immediata una disciplina dei casi e delle modalità con cui è possibile interrompere la gravidanza. Sarà necessario, infatti, l’intervento del Parlamento, che individui le condizioni di pericolo o danno per la vita e/o per la salute fisica o psichica della donna, oltre che i termini temporali entro cui effettuare l’intervento.
A tale proposito è già stato pubblicato un disegno di legge, la cui analisi si rivela particolarmente interessante anche tenendo conto della nostra disciplina dell’interruzione di gravidanza (legge n. 194 del 1978), che ha recepito le specifiche indicazioni della sentenza n. 27 del 1975 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 546 c.p., nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta a fronte di un danno o pericolo grave medicalmente accertato e non altrimenti evitabile per la salute della donna.

2.Il disegno di legge irlandese, innanzitutto, si segnala per una serie di definizioni molto specifiche contenute fin dall’art. 1.
In modo significativo per la ricostruzione dei termini del bilanciamento fra le posizioni della donna e del feto, si è chiarito che per interruzione di gravidanza si intende il trattamento medico che pone fine alla vita del feto. A questo proposito, si è definita anche la nozione di viabilità, che indica il momento nella gravidanza in cui, secondo l’opinione ragionevole di un medico, il feto è in grado di sopravvivere all’esterno dell’utero. Ancora, il disegno di legge specifica che per feto si intende un embrione o un feto durante il periodo di tempo che inizia dopo l’impianto in utero fino al parto. La nostra legge n. 194, come è noto, se pure all’art. 1 intende tutelare la vita umana dal suo inizio, senza introdurre alcuna specificazione circa la sua esatta individuazione, certamente non attribuisce il concetto di vita al feto (peraltro definito anche quale concepito o nascituro), mentre introduce la (sola) nozione di possibilità di vita autonoma del feto per limitare l’intervento interruttivo ai casi di grave pericolo per la vita della donna e per richiedere al medico di salvaguardare la vita del feto (art. 7).
Il disegno di legge irlandese, oltre a chiarire che per salute si intende sia quella fisica sia quella psichica, stabilisce in che modo si debbano calcolare le 12 settimane di gestazione entro cui l’intervento interruttivo è legittimo (art. 7). La legge n. 194 individua genericamente lo stesso termine di 90 giorni per differenziare le circostanze che legittimano l’interruzione prima e dopo tale limite. Non vengono invece indicati né le precise modalità di calcolo (demandato, quindi, alla pratica medica) né, soprattutto, il termine finale (quantomeno numerico) oltre il quale l’intervento non è più possibile. Da quest’ultimo punto di vista le previsioni del disegno di legge irlandese e della legge n. 194 sembrano potersi equiparare, laddove fanno esclusivo riferimento alla possibilità di vita autonoma del feto.
Il primo arco temporale entro cui sarà possibile interrompere la gravidanza, quindi, è individuato nelle prime 12 settimane di gestazione, imponendosi il rispetto di un termine di 3 giorni fra le necessarie certificazioni e l’intervento stesso (art. 7). La legge n. 194, invece, per il medesimo periodo pone specifiche (se pure ampiamente interpretabili) condizioni che legittimano il trattamento, ricondotte a un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, e un termine di ripensamento di 7 giorni (artt. 4 e 5).
L’interruzione di gravidanza sarà possibile, secondo il disegno di legge irlandese, anche quando due medici accertino un rischio per la vita o di un serio danno per la salute della donna e l’impossibilità di vita autonoma del feto (art. 4). Il riferimento alla vita autonoma del feto manca, invece, in caso di rischio imminente per la vita o di serio danno alla salute della donna accertato da un solo medico (art. 5).
L’intervento è possibile, inoltre, in caso di anomalie del feto che secondo il ragionevole apprezzamento di due medici possa determinare la morte del feto prima o poco dopo la nascita (art. 6), con ciò ancora una volta attribuendosi al feto anche prima della nascita i concetti di vita e di morte, al pari della preliminare definizione di trattamento interruttivo che pone fine alla sua vita. La legge n. 194 prevede la possibilità di interrompere la gravidanza oltre i primi 3 mesi alle condizioni, alternativamente poste, di grave pericolo per la vita della donna o di processi patologici (fra cui anche rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro) che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6) e, come si è già detto, richiama solo la nozione di possibilità di vita autonoma del feto. Laddove questa sia prospettabile l’interruzione è consentita solo in presenza di un rischio grave per la vita della donna e si impone al medico l’adozione di ogni misura per salvaguardare la vita del feto (art. 7).
Ulteriori profili di interesse, soprattutto se li si pongono ancora una volta a confronto con la legge italiana, riguardano la mancata differenziazione della procedura per le donne minorenni o incapaci (indicando il disegno di legge che con il termine donna si intende, in generale, una persona di sesso femminile di qualsiasi età) e la diretta responsabilità dei medici nella garanzia delle prestazioni.
Rispetto a tale ultimo aspetto da un lato si impone ai medici di adottare le misure necessarie per l’espletamento della prestazione il più presto possibile dopo la scadenza dei 3 giorni e prima che siano superate le 12 settimane (art. 7). Dall’altro lato, pur riconoscendo il diritto di obiezione di coscienza (particolarmente ampio, essendo esteso ai medici, agli ostetrici e agli infermieri; alle attività interruttive e anche a quelle di assistenza), si impone agli stessi medici di garantire, appena possibile, il trasferimento di cura che consenta alla donna di ottenere la prestazione (art. 15).
La legge n. 194 come è noto non pone specifici oneri organizzativi in capo ai singoli medici, bensì (solo) alle strutture sanitarie che in ogni caso devono garantire le prestazioni richieste, anche con il controllo delle Regioni che possono ricorrere alla mobilità del personale. Il diritto di obiezione di coscienza, inoltre, è limitato al solo compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione con esclusione di quelle di assistenza precedenti e successive e dell’intervento interruttivo necessario per salvare la vita della donna (art. 9).

3.Se, dunque, l’esito del referendum rappresenta una tappa necessaria e decisiva nella regolamentazione dell’accesso all’interruzione di gravidanza, sarà indispensabile verificare se e in quali termini il Parlamento irlandese intenderà aderire all’impostazione già tracciata dal disegno di legge.
La circostanza per la quale il progetto è stato pubblicato il 27 marzo 2018 e, dunque, in data precedente rispetto al referendum potrebbe far ritenere che a quell’impianto il legislatore potrebbe (o dovrebbe) sostanzialmente attenersi, considerando che il testo ben potrebbe aver influenzato il voto, anticipando i contenuti della futura regolamentazione e trasformando, quindi, la consultazione sulla (sola) modifica costituzionale nell’espressione di una specifica valutazione positiva su di essa.
Una volta approvata la disciplina, sarà la concreta prassi applicativa a mostrare l’idoneità delle previsioni a guidare l’attività dei medici, chiamati a interpretare nozioni particolarmente ampie (quali il rischio o il pericolo per la vita e la salute fisica e psichica della donna, oltre che la possibilità di vita autonoma del feto) e ad assicurare in ogni caso l’accesso al trattamento laddove esercitino il diritto di obiezione di coscienza.
Di non poco rilievo, da ultimo, risulta la circostanza che nel disegno di legge permangano riferimenti alla vita e alla morte del feto in una fase che precede la nascita. Tali riferimenti possono essere ragionevolmente (ma, forse, non meno problematicamente) inquadrati nel più generale contesto dell’ordinamento irlandese che, oltre alla sanzione penale dell’interruzione di gravidanza, espressamente riconosceva (fino al referendum del 25 maggio) il diritto alla vita del feto.
La relazione annuale del Ministero della Salute sui dati dei trattamenti interruttivi (art. 17), così come quella del Governo in merito alla procedura per l’eventuale revisione dei pareri dei medici (art. 13), potrebbe contribuire a un efficace monitoraggio sull’applicazione della legge, con particolare riguardo al diritto di obiezione di coscienza e alla garanzia delle prestazioni.