Il voto ai tempi dello smartphone. Una nuova pronuncia sulla libertà di espressione della Corte europea dei diritti dell’uomo: Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary

La Quarta Sezione della Corte Europea dei diritti dell’uomo, con la sent. 23 gennaio 2018, Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary (Application n. 201/17), ha stabilito all’unanimità che le autorità ungheresi hanno violato l’art. 10 della CEDU. Si riconosce tale violazione nell’imposizione di una multa ad un partito politico che aveva reso disponibile un’applicazione per smartphone finalizzata alla condivisione in forma anonima delle fotografie delle schede elettorali. Tale partito di opposizione si era distinto per la sua campagna contro il referendum che chiamava i cittadini ungheresi ad esprimersi sul quesito “Do you want the European Union to be entitled to order the mandatory settlement of non-Hungarian citizens in Hungary without Parliament’s consent?”, ed aveva promosso tale app per condividere e commentare le foto delle proprie schede di voto invalidate. La Commissione Nazionale per le elezioni ungherese (Nemzeti Választási Bizottság) aveva comminato una sanzione pecuniaria al partito ricorrente per violazione del principio della regolarità delle elezioni (rendeltetésszerű joggyakorlás), causata da una lesione al principio segretezza del voto e a quello del regolare esercizio del diritto. La Corte europea ha individuato un’evidente collisione tra la logica sottesa all’imposizione della sanzione e il diritto del partito politico alla libertà di espressione: l’applicazione era infatti progettata per essere un veicolo di comunicazione, essendo diretta alla circolazione delle opinioni degli elettori circa il referendum. Ecco perché è stata rigettata l’argomentazione del Governo secondo cui la multa avrebbe perseguito un “legitimate aim”: dato che la condivisione avveniva in forma anonima, l’applicazione non avrebbe potuto pregiudicare in alcun modo la segretezza o la regolarità delle procedure di votazione.
Durante la campagna referendaria sono stati diversi i partiti di opposizione che hanno invitato i cittadini a votare in modo tale da invalidare le schede in segno di protesta. Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt, in particolare, dal 29 settembre 2016 aveva messo a disposizione per il download un’applicazione mobile, chiamata “the cast – an – invalid – vote app”, attraverso la quale era possibile caricare le foto scattate alle schede, nonché aggiungere commenti. La caratteristica principale dell’applicazione era che, al contrario delle più diffuse reti sociali, tutti i contenuti venivano condivisi in forma anonima.
Il 29 settembre 2016 stesso, un soggetto privato ha depositato un ricorso contro il Magyar Kétfarkú Kutya Párt, alla Commissione Nazionale per le elezioni, che il 30 si pronunciava affermando che l’applicazione era contraria ai principi di regolarità delle elezioni, segretezza del voto e corretto esercizio del diritto, aggiungendo altresì che la sua utilizzazione era in grado di gettare il discredito sullo svolgimento delle operazioni elettorali. La Commissione ha ordinato al partito di astenersi da violazioni ulteriori della Sezione 2(1)(a) ed (e) della legge n. XXXVI del 2013 sulla procedura elettorale, nonché dell’articolo 2(1) della Legge Fondamentale. Basandosi su una decisione del 2014 in cui statuiva che i votanti non possono trattare le schede elettorali come loro proprietà, la Commissione arrivava a sostenere che l’atto stesso dello scattare foto alle schede avrebbe comportato frode elettorale.
Il partito ha allora esperito ricorso alla Kúria, la Corte Suprema ungherese, che il 10 ottobre 2016 ha affermato che il divieto di fotografare e pubblicare le schede non ha limitato la libertà di espressione dei votanti, dal momento che è loro riconosciuto il diritto di esprimere pubblicamente le loro opinioni circa l’invalidazione delle schede e confrontarsi con gli altri sulle le modalità e le intenzioni del voto. Non ha però ritenuto che un’eventuale condivisione in forma anonima delle schede configuri una violazione della segretezza del voto o un’azione diretta al discredito verso lo svolgimento delle operazioni elettorali.
Il 3 ottobre 2016 lo stesso soggetto privato che aveva proposto ricorso il 29 settembre, si è nuovamente rivolto alla Commissione, lamentando che il Magyar Kétfarkú Kutya Párt aveva attivato l’app il 2 ottobre, giorno del referendum. Il 7 ottobre 2016, la Commissione ha reiterato le sue precedenti statuizioni, aggiungendo che l’attivazione dell’applicazione ha istigato i cittadini a boicottare il referendum, generando quindi conseguenze sul piano dei risultati e costituendo quindi un mezzo che ha reso la campagna referendaria illegittima. Per tali ragioni, ha comminato al partito una sanzione pecuniaria di 832,500 fiorini ungheresi (circa 2.700 euro).
Il 18 ottobre 2016 la Kúria, adita dal partito a seguito di questa seconda decisione, ha confermato in parte quanto statuito dalla Commissione. Ha confermato che l’atto stesso di scattare foto alle schede configurava una violazione del principio del regolare esercizio dei diritti, pur riconoscendo che la campagna contro il referendum non aveva contribuito ad alterare gli esiti del voto. Infine, riduceva la multa ad una cifra corrispondente a circa 330 euro.
Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt si è allora rivolto alla Corte costituzionale per censurare entrambe le decisioni rese dalla Kúria, ravvisando la violazione del diritto alla libertà di espressione, che troviamo all’art. IX(1) della Legge Fondamentale. Il partito si è rivolto alla Corte Costituzionale in forza dell’art. 27 della Legge sulla Corte Costituzionale ungherese, in base al quale un’organizzazione direttamente destinataria di una decisione giurisdizionale che lede principi costituzionalmente protetti, può ricorrere alla Corte dopo aver esaurito tutti gli altri rimedi. Tuttavia i ricorsi vengono dichiarati inammissibili il 24 ottobre 2016, con la motivazione che le decisioni della Kúria non avevano leso la sua libertà di espressione del partito, che non aveva espresso un’opinione come soggetto individuato e non sarebbe quindi stato “personalmente interessato”, essendosi solo limitato a fornire ai votanti una “piazza”, seppur virtuale.
Il Magyar Kétfarkú Kutya Párt ha allora portato il caso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, sostenendo che l’imposizione di una multa per aver messo a disposizione dei votanti l’applicazione in oggetto costituisce violazione del diritto alla libertà di espressione come emerge dall’art. 10 della Convenzione. In particolare, nel ricorso si evidenziava che l’atto di predisporre i mezzi tecnici per permettere agli altri di manifestare opinioni rientri a pieno titolo sotto la volta della libertà di espressione. Il Governo sosteneva invece che non era stata commessa alcuna violazione di tale diritto, insistendo sul fatto che non era stato il partito ad esprimersi e aggiungendo che la multa era stata inflitta per mantenere l’ordinato svolgimento della procedura di voto e l’uso appropriato delle schede elettorali.
La Corte europea nella sua decisione ha esordito con la notazione che l’art. 10, par. 1 della Convenzione garantisce, da una parte, il diritto di comunicare informazioni e, dall’altra, il diritto a riceverle, aggiungendo che la libertà di espressione comprende la pubblicazione di foto e sottolineando che “Article 10 applies not only to the content of the information but also to the means of transmission or reception since any restriction imposed on the means necessarily interferes with the right to receive and impart information” (par. 36).
Nel caso in questione, la Corte condivide la ricostruzione del ricorrente, secondo cui l’app era progettata per permettere agli utenti di pubblicare foto e commenti attraverso mezzi informatici, conformemente alla Convenzione: “the mobile phone application in the present case, the Court is satisfied that what the applicant political party was reproached for was precisely the provision of the means of transmission for others to impart and receive information within the meaning of Article 10 of the Convention” (par. 37).
Sotto il paragrafo “Lawfulness” al punto 38 si legge: “The Court reiterates that, according to its settled case-law, the expression “in accordance with the law” not only requires that the impugned measure should have some basis in domestic law, but also refers to the quality of the law in question, requiring that it should be accessible to the person concerned and foreseeable as to its effects”. Non era necessario considerare se la multa fosse stata “prescribed by law” poiché non perseguiva comunque un “legitimate aim” (par. 40).  La Corte prima ha analizzato l’argomentazione del Governo secondo cui la multa era diretta ad assicurare l’ordinario svolgimento delle procedure di voto e  a garantire l’uso appropriato delle schede elettorali, poi si è allineata con la Kúria relativamente al fatto che la condotta del partito politico non rappresentava un pregiudizio alla segretezza e correttezza del voto. In particolare, la Corte afferma: “while it is true that the domestic authorities established that the use of the ballot papers for any other purpose than casting a vote infringed that provision, the Government have not convincingly established any link between this principle of domestic law and the aims exhaustively listed in paragraph 2 of Article 10” (par. 44). I giudici di Strasburgo  concludono che la sanzione imposta al ricorrente non rientra nella logica della previsione dell’art 10, par. 2 della Convenzione, ravvisando quindi la sussistenza in capo alle autorità ungheresi di una violazione del diritto alla libertà di espressione ex art. 10 della Convenzione.
La Corte ha in questa occasione avuto modo di parametrare una prescrizione nazionale all’art. 10, par. 2 della Convenzione, affermando che i “legitimate aims” in base ai quali sono ammesse limitazioni alla libertà di espressione vanno interpretati restrittivamente.
Tuttavia, una decisione del genere non manca di sollevare profili problematici, che qui si richiamano solo brevemente. La sempre maggiore diffusione di smartphone, se da una parte aumenta le potenzialità della libertà di espressione, dall’altra può anche diventare uno strumento di controllo. Il fatto che la Corte europea abbia ravvisato l’insussistenza della violazione al principio di segretezza del voto, in quanto le foto delle schede elettorali condivise venivano caricate in forma anonima, non lascia del tutto soddisfatti. È infatti noto che nel mondo digitale ogni passo lascia delle scie pressoché indelebili di dati che (per chi è in grado di leggerle) permettono un’identificazione più che probabile del soggetto dietro lo schermo, mettendo così a rischio tale segretezza. Ad esempio, una recente sentenza della nostra Cassazione Penale, sez.V (sent. 9400/2018, depositata il 1°marzo), ha confermato la decisione della Corte d’Appello, che aveva trasformato la pena detentiva in pecuniaria per la violazione della legge sulla segretezza del voto (art. 1, l. 96/2008), perpetrata da un soggetto che aveva fotografato la sua scheda elettorale durante le elezioni del 2013, “attuando il pericolo che il precetto penale intende scongiurare”. C’è da dire che in tale decisione il profilo della libertà di espressione non viene neanche richiamato, costituendo reato la sola condotta di introdurre il cellulare nella cabina elettorale, come ricordato anche prima delle elezioni del 4 marzo nelle “Istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione” diramate dal Ministero dell’Interno. Viste le differenti norme a cui è assoggettato il fenomeno nei diversi ordinamenti e visto il ruolo sempre maggiore dei social nel dibattito politico e quindi degli smartphone come strumenti per prendervi parte, sembra prevedibile che il caso Magyar Kétfarkú Kutya Párt v. Hungary non sarà certo l’ultimo in cui la Corte dovrà confrontare libertà di espressione e segretezza del voto.