“Illness” or “desease” ? La Corte di Strasburgo ritorna sulla legislazione svizzera in materia di “fine vita”

Con la sentenza in commento, la Corte di Strasburgo è tornata nuovamente a valutare la compatibilità della normativa svizzera in materia di “fine vita” alla luce dell’articolo 8 CEDU. In una sua precedente decisione, infatti, – si trattava del caso Haas contro Svizzera (ric. n. 31322/2007), del 20. 01. 2011, avente ad oggetto il diritto di un malato psichiatrico ad ottenere l’autorizzazione per l’acquisto di un farmaco mortale –, la Corte aveva avuto modo di affermare che l’articolo 8 della Convenzione obbliga gli Stati membri a garantire una procedura medica idonea ad assicurare che la decisione di porre fine alla propria vita, da parte di una persona malata, sia genuina e conforme alla libera volontà dell’interessato.

Nel caso de quo, invece, la signora Alda Gross – una donna nata nel 1931 e residente a Grefensee, nel cantone di Zurigo – pur non soffrendo di alcun tipo di patologia, desiderava porre termine alla sua vita al fine di evitare il proprio declino psico-fisico legato all’età: la donna, infatti, ormai giunta all’ottantesimo anno di vita, lamentava gravi difficoltà mnemoniche e affermava di non essere più in grado di fare lunghe passeggiate a piedi. Vistasi negare dalla direzione sanitaria del cantone di Zurigo la prescrizione medica per l’acquisto di una dose mortale di sodio pentobarbital  – in quanto, ad avviso dei medici interpellati, la donna non soffriva di alcun tipo di malattia degenerativa –, la ricorrente iniziava un lungo iter giudiziario che la conduceva innanzi alla Corte suprema federale svizzera.

Quest’ultima Corte, confermando le decisioni dei giudici precedentemente aditi, il 12 aprile 2010, rigettava il ricorso in quanto, a suo avviso, la signora Gross non soffriva di alcun tipo di malattia degenerativa in fase terminale e, pertanto, la sua condizione psico-fisica non rientrava tra quelle previste dalle linee-guida deontologiche, redatte dall’Accademia svizzera di medicina, linee-guida che stabilivano i criteri in base ai quali i medici elvetici possono prescrivere al proprio paziente una dose letale di sodio pentobarbital.

Ribaltando tutte le decisioni dei giudici nazionali, tuttavia, ad avviso della Corte di Strasburgo, nel caso della ricorrente si doveva rilevare una violazione del proprio diritto alla vita privata, così come garantito dall’articolo 8 della Convenzione. Partendo dal principio di diritto statuito nella precedente sentenza Haas, in ragione del quale – come già rilevato – deve essere garantita la soddisfazione della volontà del malato espressa in maniera autonoma e consapevole, i giudici di Strasburgo rilevano che il Codice penale svizzero non condanna l’istigazione o l’assistenza al suicidio, a meno che il reo abbia posto in essere una simile condotta per meri “motivi egoistici”. Pertanto, poiché nel caso de quo la ricorrente aveva manifestato una genuina ed autonoma volontà di volersi suicidare e poiché le linee-guida deontologiche non possono essere considerate come “legge” ai sensi della CEDU, in quanto emanate da un’organizzazione non statale, la Corte rileva una violazione della vita privata della ricorrente.

Del resto, sottolineano i giudici, il Governo elvetico non ha prodotto in giudizio alcuna prova concernente la vigenza, nell’ordinamento giuridico svizzero, di una norma in cui si indichi in quali circostanze un medico sia autorizzato a prescrivere una dose mortale di sodio pentobarbital, anche ad una persona che non versi in stato terminale di vita. Questa “lacuna” normativa – o forse sarebbe più corretto dire, questa mancata chiarezza della normativa elvetica sul punto – induce la Corte di Strasburgo ad affermare che “… the applicant must have found herself in a state of anguish and uncertainty regarding the extent of her right to end her life which would not have occurred if there had been clear, State-approved guidelines defining the circumstances under which medical practitioners are authorised to issue the requested prescription in cases where an individual has come to a serious decision, in the exercise of his or her free will, to end his or her life, but where death is not imminent as a result of a specific medical condition” (così il §. 66 della sentenza).

Pertanto, la Corte conclude affermando che la normativa svizzera, pur riconoscendo la possibilità di ottenere una dose letale di un farmaco – previa prescrizione medica – al fine di darsi autonomamente e volontariamente la morte, tuttavia, non stabilendo principi chiari sui requisiti necessari per poter accedere alla suddetta tipologia di farmaco, di fatto non delimita con la dovuta chiarezza la portata del diritto dei cittadini elvetici a darsi una “dolce morte”. Di conseguenza, la normativa in questione viola la vita privata di quei cittadini svizzeri che, pur volendo porre fine ai propri giorni e pur convinte di poter godere di un simile diritto, si vedono poi concretamente negato l’accesso alla dose mortale del sodio pentobarbital.

La decisione in commento è stata presa da un’esigua maggioranza di giudici: tre dei sette membri del collegio giudicante (ossia i giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş), infatti, hanno votato contro la dichiarazione di una lesione dell’articolo 8 della CEDU e hanno espresso le proprie perplessità con un’importante opinione dissenziente. Ad avviso dei giudici di minoranza, la sezione 24 (a) della legge elvetica sui farmaci stabilisce che il sodio pentobarbital è disponibile solo su prescrizione medica e che un simile principio di diritto non è suscettibile di deroga, come del resto più volte affermato dalla Corte suprema federale elvetica. Pertanto, si deve desumere, ad avviso dei giudici di minoranza, che la ricorrente non sia riuscita ad ottenere la prescrizione medica semplicemente perché non era affetta da alcuna malattia incurabile.

Di conseguenza, la fattispecie de quo risulta ben diversa da quella oggetto del caso Haas: in quest’ultimo caso, infatti, il ricorrente voleva porre fine alla propria vita perché era affetto da un disturbo psichiatrico grave ed aveva provato più volte a suicidarsi, mentre la signora Gross non risultava essere affetta da alcuna malattia grave, semplicemente non voleva più continuare a vivere, perché con l’avanzare dell’età vedeva le proprie capacità psico-fisiche fortemente compromesse.

Ad avviso dei giudici dissenzienti, quindi, la Corte avrebbe dovuto considerare quanto da essa stessa affermato al §. 58 della sentenza Haas, allorché si sottolineava come i rischi di un abuso giuridico, insiti in un sistema normativo che facilitasse l’accesso al suicidio assistito, non dovessero essere sottovalutati da quegli Stati che – come la Svizzera – garantivano un simile diritto ai propri cittadini. In quella occasione, inoltre, la Corte aveva affermato che il requisito della prescrizione medica, rilasciata sulla base di una valutazione psichiatrica completa del soggetto richiedente una dose mortale di sodio pentobarbital, fosse un mezzo legittimo e proporzionato rispetto ai beni giuridici che entravano in gioco in casi di questo tipo.

La sentenza in commento, ad avviso di chi scrive, è suscettibile di critica sotto due differenti profili: il primo, che concerne il concetto di “legge” utilizzato dai giudici di Strasburgo, al fine di dichiarare la violazione dell’articolo 8 della CEDU; il secondo, che riguarda il concetto di “malattia” impiegato dalla Corte nella propria giurisprudenza in materia di “fine vita”, un profilo questo che è stato evidenziato con estrema efficacia nell’opinione dissenziente dei giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş.

Per quanto riguarda il primo profilo di criticità della sentenza Gross, la Corte di Strasburgo afferma che la normativa svizzera viola l’articolo 8 della CEDU perché non risulterebbero chiari i presupposti legali per ottenere una dose letale di sodio pentobarbital, in ragione del fatto che le linee-guida deontologiche, a cui si sono riferiti i medici per motivare il loro diniego alla prescrizione del farmaco, non possono essere considerati come “legge” dello Stato, in quanto emanate da un’organizzazione non statale, l’Accademia svizzera di medicina. Ora, una simile affermazione non sembra trovare riscontro nella costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul punto, una giurisprudenza questa che da sempre ha accolto una concezione ampia del concetto di “legge”, anche al fine di neutralizzare una serie di problematiche legate agli ordinamenti di quegli Stati di common law che fanno parte del Consiglio d’Europa.

Pertanto, in passato la Corte aveva avuto modo di affermare più volte che il termine “legge”, utilizzato nel testo della Convenzione, non fa soltanto riferimento al diritto scritto, ma anche a quello non scritto (cfr. Sunday Times contro Regno Unito, 26. 04. 1979, §. 47), e che esso deve essere inteso in senso “materiale”, ossia come comprendente l’insieme del diritto vigente a livello legislativo, a livello amministrativo e a livello giurisprudenziale. In questa ottica, i giudici di Strasburgo sono addirittura giunti a riconoscere lo status di “legge” alle interpretazioni giurisprudenziali costanti di una determinata disposizione legislativa da parte delle Corti nazionali apicali (cfr. Coëme contro Belgio, 22. 06. 2000, §. 98), agli atti amministrativi (cfr. Andersson contro Svezia, 25. 02. 1992, §. 84) e persino alle circolari interne delle autorità militari (cfr. Vereinigung Democratischer Soldaten Osterreichs e Gubi contro Austria, 19. 12. 1994, §. 31).

Del resto, nel già citato caso Sunday Times, la Corte aveva chiarito che assumono il carattere di “legge”, ai sensi della CEDU, tutte quelle “disposizioni che hanno una valenza normativa” (sia consentito, in questa sede, impiegare questa locuzione, per rendere meglio in italiano il concetto di “loi matérielle”) che assumono cioè, in concreto, i caratteri di “accessibilité” e “prévisibilité”, con il primo termine intendendo la possibilità che “le citoyen doit pouvoir disposer de renseignements suffisants, dans les circostances de la cause, sur les normes juridiques applicables à un cas donné” (così Sunday Times, cit., §. 49), con il secondo, invece, l’idea che la regola di diritto da applicarsi al caso concreto presupponga “une norme énoncée avec assez de précision pour permettre au citoyen de régler sa conduite” (ivi).

Nel caso in commento, del resto, non soltanto la Corte riconosceva esplicitamente che le linee-guida deontologiche dell’Accademia svizzera di medicina rientrassero nella “Relevant domestic law and practice” (cfr. il punto D, della II sezione della sentenza, pp. 10-12), ma più volte nel corso della decisione, si riconosce che le suddette linee-guida sono pacificamente oggetto di valutazione da parte della giurisprudenza della Corte suprema federale elvetica e, quindi, sono a tutti gli effetti un parametro normativo rispetto al quale valutare la legalità delle procedure di prescrizione del sodio pentobarbital.

Per quanto riguarda il secondo profilo di criticità della sentenza in commento, come già evidenziato in precedenza, esso attiene al concetto di “malattia” utilizzato dalla Corte di Strasburgo nelle proprie motivazioni. Già nell’opinione dissenziente, i giudici Raimondi, Jočienė e Karakaş avevano avuto modo di evidenziare come la fattispecie de quo non fosse affatto riconducibile alla precedente decisione Haas, poiché  in quest’ultimo caso, il ricorrente voleva porre fine alla sua vita in quanto affetto da un grave disturbo psichiatrico, mentre la signora Gross non era affetta da alcun tipo di malattia, ma semplicemente voleva darsi la morte per evitare di patire i mali naturalmente legati alla vecchiaia.

Una prova evidente della validità degli argomenti utilizzata dai giudici dissenzienti, ad avviso di chi scrive, è forse desumibile anche dal linguaggio impiegato nelle motivazioni della sentenza: se si fa attenzione al termine adoperato dai giudici maggioritari per indicare la malattia di cui è afflitta la ricorrente, si noterà che il termine utilizzato è sempre “illness”, mentre non vengono mai utilizzati i termini “desease” e “sickness”. Al riguardo, è forse utile un breve approfondimento semantico: i tre sostantivi, infatti, nella lingua inglese sono considerati generalmente come sinonimi di “malattia”, sebbene il loro impiego, in senso tecnico, stia ad indicare tre diverse tipologie di status patologico.

Con “disease”, infatti, si intende la malattia in senso biomedico, ossia la lesione organica e/o l’aggressione di agenti esterni ad un organismo vivente, un evento questo oggettivabile mediante una serie di protocolli ed indici medico-scientifici empiricamente verificabili (ad esempio, l’aumento della temperatura del corpo, un’alterazione delle componenti sanguigne e così via). Con il termine “illness”, invece, si indica la mera esperienza soggettiva dello “stare male” vissuta dal soggetto, ossia la semplice percezione del proprio malessere che non trova però riscontri oggettivi nella scienza medica e che, pertanto, risulta sempre culturalmente (e ambientalmente) mediata. “Sickness”, infine, è il termine con cui si indica il riconoscimento sociale della malattia, la parola insomma che la società, in senso lato, utilizza per etichettare qualcuno come malato.

Per tornare al caso della signora Gross, la donna percepisce sé stessa come ormai anziana e, quindi, incapace di svolgere alcune elementari azioni della propria vita quotidiana (fare lunghi tragitti a piedi, ricordarsi di fare determinate cose e così via): ma la vecchiaia non è una malattia, bensì una naturale condizione umana legata all’allungamento della vita nelle società contemporanee. Una persona anziana, quindi, può sentirsi malata o addirittura limitata nei suoi comportamenti proprio perché incapace di svolgere le normali attività quotidiane, ciò non significa però che sia “malata”. È significativo che i giudici di Strasburgo abbiano sempre utilizzato, per indicare lo stato di salute in cui versava la ricorrente, il termine “illness” e mai il termine “desease”: la “malattia”, insomma, se c’è, in questo caso è tutta nella percezione dello scadimento delle proprie capacità psico-fisiche da parte della ricorrente, non certo in una “oggettiva” diagnosi da parte dei medici di un male degenerativo ed incurabile.

I medici del cantone di Zurigo, insomma, si erano trovati di fronte semplicemente ad una persona anziana come tante altre che soffriva, come tante persone anziane, del fatto di essere diventata fragile: la vecchiaia, per fortuna, non è né una “sickness” né una “desease”, anche se il caso della signora Gross dovrebbe spingerci a riflettere sui diritti e sul ruolo che gli anziani hanno nelle società occidentali – delle società, le nostre, che fanno del dinamismo, della sicurezza di sé e della propria prestanza fisica dei valori assoluti e spesso non suscettibili di critica –, piuttosto che delle questioni legate ai presupposti giuridici in base ai quali sia giusto morire con dignità.

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