Ireland’s Call: la vigilia di un duplice referendum costituzionale

Il prossimo 22 maggio gli irlandesi andranno a votare per decidere se approvare due emendamenti alla loro Costituzione (in irlandese, Bunreacht na hÉireann). Il primo quesito referendario riguarda una modifica all’art. 41 della Costituzione, cui verrebbe aggiunta una proposizione (“il matrimonio può essere contratto, in conformità con la legge, da due persone, senza alcune distinzione con riferimento al sesso”). Il secondo riguarda la riduzione dell’età minima per essere eletti Presidente della repubblica; in caso di approvazione, il limite, di cui all’art. 12.4.1 della Costituzione, passerebbe dai 35 ai 21 anni.

Prima di spendere qualche parola sul merito dei due quesiti referendari è necessario formulare alcune considerazioni preliminari. In primo luogo, va sottolineato che il ricorso allo strumento referendario nell’ambito del procedimento di revisione costituzionale, all’interno dell’ordinamento irlandese, è – a differenza di quanto previsto nell’ordinamento italiano – obbligatorio. L’art. 46 del Bunreacht na hÉireann prevede, al II comma, che la proposta di emendamento costituzionale debba essere approvata da entrambi i rami del parlamento (Oireachtas) e successivamente sottoposta all’approvazione popolare. Di seguito, l’art. 47 della Costituzione del 1937, al I comma, prevede che ogni emendamento al testo costituzionale si considera approvato se la maggioranza dei voti espressi è favorevole, senza alcun quorum. In secondo luogo, va osservato che la previsione del vaglio popolare quale passaggio obbligato per gli emendamenti costituzionali ha reso piuttosto significativa l’esperienza irlandese in ambito referendario, chiamando gli elettori a esprimersi, a partire dalla fine degli anni sessanta, su questioni quali il divorzio, la proibizione dell’aborto, la posizione costituzionale della Chiesa cattolica, il sistema elettorale, l’abolizione della pena di morte e la definizione della dimensione territoriale della Repubblica d’Irlanda. Ancora: le decisioni relative all’adesione alle Comunità Europee (nel 1972), alla ratifica del Trattato di Lisbona e del c.d. Fiscal Compact (rispettivamente nel 2009 e nel 2012) sono state prese facendo ricorso allo strumento referendario. E, nel 2013, un referendum ha bocciato la proposta d’abolire il Seanad, la camera alta dello Oireachtas. In terzo luogo, si può evidenziare come l’Irlanda abbia sperimentato, nel corso degli ultimi anni, un particolare strumento, quello della Convention on the Constitution. Secondo quanto previsto da una risoluzione adottata dalle due Camere dello Oireachtas nel luglio del 2012, si è provveduto alla convocazione di un forum, composto da 100 persone e presieduto da una figura indipendente, scelta dall’esecutivo. I 100 componenti della Convention on the Constitution ricomprendevano, oltre al presidente, 33 rappresentanti provenienti da entrambe le camere dello Oireachtas e dalla Northern Ireland Assembly. Ma la componente numericamente preponderante in seno alla Convention era costituita da un gruppo di 66 cittadini, scelti fra quelli con diritto di voto in caso di referendum, in maniera tale da essere largamente rappresentativi della società irlandese. Volendo mettere a confronto la Convention on the Constitution irlandese con altri esperimenti del genere, come ha fatto, ad esempio, Alan Remnick, a risaltare è proprio il carattere misto (politici appartenenti ad assemblee ‘tradizionali’ e cittadini) della sua composizione; in altre esperienze si è invece fatto ricorso a membri eletti direttamente dal corpo elettorale (ed è quanto avvenuto in Islanda nel 2011), a forum composti da rappresentanti della ‘civil society’ (come in Scozia fra il 1989 e il 1995), ovvero ad assemblee di comuni cittadini estratti a sorte (come nelle province canadesi dell’Ontario e della British Columbia per discutere della riforma elettorale, fra 2004 e 2007). Il compito della Convention on the Constitution era quello di discutere di alcune questioni di particolare rilevanza politico-costituzionale, producendo rapporti e raccomandazioni per il potere legislativo. Gli argomenti sottoposti alla discussione della Convention on the Constitution dalla risoluzione istitutiva erano la riduzione della durata del mandato presidenziale e il riallineamento dell’elezione del capo dello stato con le elezioni europee e locali, l’abbassamento dell’età per l’attribuzione del diritto di voto a 17 anni, la riforma del sistema elettorale della camera bassa (Dáil Éireann), la regolazione del voto degli irlandesi all’estero, la disciplina del matrimonio fra persone dello stesso sesso, la revisione della previsione costituzionale sul ruolo della donna nella società, la messa a punto di nuovi strumenti a favore di una maggiore presenza femminile nella vita politica e l’eliminazione del riferimento alla blasfemia dalla Costituzione. I lavori della Convention on the Constitution si sono conclusi nei primi mesi del 2014 e i due referendum, ormai imminenti, rappresentano il primo portato del suo operato.

Il quesito sul matrimonio fra persone dello stesso sesso è quello sul quale il confronto è più acceso. Secondo i sondaggi d’opinione effettuati nel corso delle scorse settimane, l’approvazione dell’emendamento è probabile, sebbene il consenso paia, da ultimo, essere in leggero calo; se il fronte del sì conta sul sostegno dei principali partiti politici e dello Irish Congress of Trade Unions, a favore del no si è invece schierata la Conferenza episcopale irlandese. Al di là delle posizioni pro o contro le unioni fra persone dello stesso sesso, si può registrare come l’evoluzione della legislazione irlandese in materia di diritti delle persone omosessuali sia stata relativamente rapida e come tale sviluppo rappresenti bene i numerosi cambiamenti che hanno segnato la società irlandese nell’ultimo trentennio.

Sino a poco più di vent’anni fa, in Irlanda l’omosessualità maschile era un reato: la definitiva abrogazione delle disposizioni che punivano tali condotte ha avuto luogo solo nel 1993, dopo una lunga azione di sensibilizzazione da parte delle associazioni di tutela dei diritti delle persone omosessuali e una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, relativa al caso Norris vs. Ireland ([1988] 13 C.E.D.U. 186), che appurava la contrarietà delle norme incriminatrici all’art. 8 della CEDU. In tempi più recenti, nel 2006, ha suscitato un notevole dibattito il caso Zappone and Gilligan vs. the Revenue Commissioners, discusso dinanzi alla High Court  irlandese, sul riconoscimento di un matrimonio fra persone dello stesso sesso contratto in paese estero: la decisione, nel caso di specie, aveva negato il riconoscimento delle nozze estere, sulla base della considerazione che la definizione tradizionale di matrimonio è quella fra persone di sesso diverso e che l’ombrello rappresentato dall’art. 41 della Costituzione del 1937 non protegge famiglie diverse da quelle tradizionali. L’approvazione della novella in questione risolverebbe il problema alla radice e comporterebbe una modifica delle norme di legge contrarie a quello che verrebbe a essere il nuovo testo costituzionale: dovrebbe essere abrogata, ad esempio, la disposizione, contenuta nel Civil Registration Act del 2004, che qualifica come impedimento al matrimonio il fatto che i nubendi siano dello stesso sesso. Va rimarcato che l’Irlanda, nel 2010, ha approvato una legge sulle unioni civili, il Civil Partnership and Certain Rights and Obligations of Cohabitants Act, che contempla anche le unioni fra persone dello stesso sesso. L’approvazione del 34° emendamento alla Costituzione confermerebbe una linea di tendenza, recentemente messa in luce anche da Gilda Ferrando sulle pagine di Politica del diritto, secondo cui il fatto che “alcuni degli Stati che inizialmente avevano optato per un riconoscimento non matrimoniale dell’unione siano poi approdati all’estensione a tutti del modello matrimoniale”, va a testimoniare “una maggiore sensibilità per l’esigenza di uguale rispetto della dignità delle persone […] pienamente soddisfatta non solo dal riconoscimento di diritti sostanzialmente eguali […], ma anche dalla medesima forma di riconoscimento, quella valida per tutti: il matrimonio, appunto”.

Il secondo emendamento su cui dovranno pronunciarsi gli elettori irlandesi è relativo – come abbiamo detto poc’anzi – all’abbassamento dell’età minima per ricoprire la carica presidenziale. A differenza di quanto emerso a proposito del matrimonio fra persone dello stesso sesso, i sondaggi su  tale secondo quesito vedono prevalere una risposta negativa. I sostenitori del sì evidenziano che la riduzione del limite d’età attualmente vigente sarebbe un segnale d’attenzione nei confronti dei giovani, allargando inoltre la possibilità di scelta degli elettori in vista di future tornate elettorali. Sempre secondo i fautori del sì, il rischio dell’elezione di un imbarazzante “political Justin Bieber” (così Dan Hayden e David Kenny sullo Irish Times dello scorso 11 maggio) è privo di qualsiasi fondamento razionale. Il meccanismo per la presentazione delle candidature dovrebbe offrire sufficienti garanzie in proposito, giacché per prendere parte alle elezioni per la scelta del capo dello stato, secondo quanto previsto dall’art. 12, 4, 2 è necessario, a meno che non si sia già stati inquilini della settecentesca residenza presidenziale di Áras an Uachtaráin, il sostegno di almeno 20 membri dello Oireachtas o dei Council di almeno 4 contee. Secondo i sostenitori del no, la partecipazione giovanile alla vita politica dipende da una pluralità di fattori e l’abbassamento dell’età per la candidatura alle elezioni presidenziali non è certo un aspetto decisivo per suscitare un rinnovato interesse per la cosa pubblica nelle nuove generazioni. A queste ultime, invece, premerebbe maggiormente godere di politiche economiche e sociali migliori; della questione si potrebbe dibattere diversamente se fosse in discussione non il limite d’età minima per l’elezione alla Presidenza, ma un più generale abbassamento dell’età per l’esercizio del diritto di voto, come effettivamente proposto in seno alla Convention on the Constitution e come avvenuto in altri contesti (si pensi, dall’altro lato del canale del Nord, alla decisione di attribuire il diritto di voto ai sedicenni in occasione del referendum sull’indipendenza scozzese). Inoltre, sempre secondo chi vorrebbe lasciare invariato il limite previsto dallo Bunreacht na hÉireann, una certa esperienza politica (pressoché impossibile da sviluppare senza aver percorso un certo cursus honorum) sarebbe assolutamente necessaria; al contrario, andrebbe sottolineata, a parer loro, la pericolosità dell’inesperienza. Essa potrebbe spingere un eventuale (giovane) Presidente a commettere errori sia in ambito internazionale, non potendo reggere il confronto con i pesi massimi della politica estera, sia in quello domestico, non essendo in grado di gestire con accortezza eventuali crisi costituzionali. Anzi, secondo i sostenitori del no, la stessa idea di un referendum costituzionale per l’abbassamento della “età presidenziale minima” denuncerebbe una certa – potenzialmente pericolosa – noncuranza nell’accostarsi al tema delle riforme costituzionali. In chiave comparata, possiamo incidentalmente ricordare come il limite di età minimo per l’elezione alla carica presidenziale sia di soli 18 anni in Francia, a seguito della riforma del 1972, ma salga a 35 anni negli Stati Uniti d’America, in Austria e Portogallo, a 40 anni in Germania e 50 anni in Italia (come disposto dall’art. 84, 1° comma Cost.).

Come già anticipato, una bocciatura del quesito in parola è probabile; oltre a una certa freddezza dei partiti di governo nell’appoggiare la proposta, sulle passate scelte degli elettori non pare aver influito l’età dei candidati alla presidenza: il capo dello stato in carica, Michael D. Higgins, è stato eletto presidente nel 2011, a 70 anni compiuti, surclassando un avversario di più di vent’anni più giovane.

In conclusione, l’impressione di chi guarda ai due referendum costituzionali del prossimo 22 maggio dall’Italia è un misto di sorpresa e di dejà-vu. Sorpresa per l’apparente facilità con cui si potrebbe pervenire all’approvazione di una legge sui matrimoni fra persone dello stesso sesso, giungendo addirittura ad un esplicito riconoscimento di questo tipo d’unioni in quella che è stata definita come “la più cattolica fra le Costituzioni”; e dejà-vu a proposito delle discussioni sul ruolo dei giovani in politica, dal momento che il dibattito sull’emendamento relativo all’età minima del Presidente della Repubblica, nei suoi riferimenti al necessario bilanciamento fra la freschezza della gioventù e la saggezza della canizie, sembra riecheggiare alcuni passaggi delle analisi politiche italiane dello scorso anno, immediatamente successive all’arrivo a Palazzo Chigi di Matteo Renzi, all’epoca trentanovenne.