La controversia sui campi di sterminio “polacchi” e la legge del primo febbraio 2018: fra costruzione della verità e protezione della reputazione della Repubblica di Polonia

Proprio in prossimità della ricorrenza del 27 gennaio il Parlamento polacco ha approvato il Nowelizacja ustawy o Instytucie Pamięci Narodowej, ossia una modifica alla legge sull’Istituto della memoria nazionale. L’istituto della memoria nazionale (Instytucie Pamięci Narodowej) è un centro di ricerca governativo creato nel 1998 (qui la legge istitutiva) per studiare e divulgare i fatti storici (rectius i crimini contro l’umanità, le repressioni etc.) avvenuti dall’inizio dell’occupazione nazista fino alla caduta del regime comunista (1939-1989) e per investigare sulle collusioni dei politici col passato regime comunista, in un’ottica di lustrismo (si rimanda per approfondimenti a A. Di Gregorio, Epurazioni e protezione della democrazia. Esperienze e modelli di “giustizia post-autoritaria”).
La legge in esame (qui il testo) è stata fortemente voluta dall’allora primo ministro Beata Szydło del Partito Diritto e giustizia (Prawo i Sprawiedliwość – PiS) fin dal 2016 (qui l’iter) e si inserisce nel complesso panorama polacco riguardante le c.d. memory Laws (per un approfondimento sul tema A. Gliszczynska-Grabias, Memory Laws or Memory Loss?).
Il testo è stato approvato il 26 gennaio dalla Camera bassa (Sejm) e l’1 febbraio dal Senato. Il 6 febbraio il Presidente Andrzej Duda, che aveva espresso una posizione abbastanza favorevole all’azione legislativa, ha firmato la legge rimandandola però alla Corte costituzionale, che sarà chiamata a verificarne la compatibilità con la Carta fondamentale polacca.
La legge sembra fortemente incentrata sulla volontà di tutelare il “buon nome” della Polonia in relazione ai crimini nazisti perpetuati in territorio polacco durante il periodo di occupazione tedesca. La legge è esemplificativa di un clima assolutorio presente in molti paesi mitteleuropei che nella complessità di fenomeni storici che li videro sia vittime (dato il numero di morti civili e militari) che complici (dato il collaborazionismo, spesso a livello di stati fantocci) del regime nazista tendono oggi a voler eliminare il secondo polo di questo binomio (si pensi, ad esempio, a quanto avvenuto in Ungheria con il monumento “a tutte le vittime dell’occupazione tedesca”).
Indicativo di questo proposito è la stessa introduzione di una modifica all’art. 2 della legge del 18 dicembre 1998 relativa all’Istituto della memoria nazionale: attraverso di essa si è espressa la necessità di “proteggere la reputazione della Repubblica di Polonia e della nazione polacca” (trad. mia), così l’art. 2a previsto dalla legge in esame.
In questa sede ci si concentra sulla parte destruens della legge, ossia quella che impatta sulla libertà di espressione e utilizza la clava del diritto penale per tutelare il “buon nome” della Polonia. Non sarà invece oggetto di analisi la parte costruens, ossia quella relativa alle sovvenzioni per la conservazione, lo studio, le ricerche in relazione ai monumenti, i cimiteri di guerra etc. e alla creazione di particolari riconoscimenti (come la medaglia “guardiano dei Luoghi della Memoria Nazionale” -trad. mia-). Infatti, malgrado il rischio di un’involuzione dello stato democratico di diritto (segnalato anche in ambito eurounitario) possa trasformare anche questa operazione meritoria di conservazione della memoria in un’arma propagandistica, è necessario sottolineare preliminarmente il carattere indubbiamente positivo di tale misura, che contempera e rafforza quelle esigenze di memoria storica oggi messe in crisi da recrudescenze negazioniste.
In relazione alla tutela della Repubblica di Polonia e della nazione polacca serve innanzitutto rilevare come la disposizione dell’art. 1 della legge in esame aggiunga alla precedente legge il Capitolo 6c, rubricato “Protezione della reputazione della Repubblica di Polonia e della nazione polacca” (trad. mia), che esplicita in maniera chiara il bene giuridico oggetto di tutela.
La legge si articola in una disposizione di carattere civilistico, di natura risarcitoria, e in una serie di disposizioni di carattere penalistico.
L’azione civilistica può essere promossa a tutela del “buon nome” della Repubblica Polacca da un’associazione (art. 53o) o dall’Istituto per la memoria nazionale (art. 53p) e comporta l’irrogazione eventuale di un risarcimento che verrà devoluto al Ministero del Tesoro.
L’azione penale è invece prevista, principalmente, dall’art. 55a che dispone al par. 1: “Chiunque, in pubblico e contro i fatti, attribuisca al popolo polacco o allo Stato polacco la responsabilità o la corresponsabilità dei crimini nazisti commessi dal Terzo Reich, come definiti nell’art. 6 dello statuto del Tribunale Militare Internazionale – allegato all’accordo concernente l’azione penale internazionale e la punizione dei gravi criminali di guerra perpetuati dalle potenze dell’Asse, firmato a Londra l’8 agosto 1945 (Dz. U. del 1947. Pos. 367)-, o di altri reati che costituiscono crimini contro la pace e l’umanità o crimini di guerra, o chiunque altrimenti sminuisca gravemente le responsabilità degli autori effettivi di questi crimini, sarà soggetto a una multa o alla reclusione fino a 3 anni. Il giudizio sarà reso pubblico” (trad. mia).
In questa disposizione penale sono presenti anche due specificazioni: una diminuzione della sanzione per chi compia tale operazione inconsapevolmente o, meglio, senza dolo (par. 2. “Se il soggetto che compie un atto come previsto dal primo paragrafo lo fa non intenzionalmente, egli sarà soggetto a una multa o all’obbligo di svolgere servizi alla comunità” trad. mia); e una scriminante per chi compia questo delitto nell’esercizio di una attività di studio/ricerca o all’interno di una manifestazione artistica (par. 3. “Non sussiste il delitto di cui al paragrafo 1 o 2 se l’atto è compiuto come parte di un’attività artistica o di ricerca” trad. mia).
La disposizione in esame si applica “a un cittadino polacco e a uno straniero in caso di commissione di reati di cui all’art. 55 e art. 55a”, così l’art. 55b della legge in esame (trad. mia).
Le norme di carattere penalistico sopra viste pongono due chiari ordini di criticità: il primo in relazione alla tutela della verità storica; il secondo in relazione al bene giuridico che appare protetto dalla norma in esame.
La tutela della verità (contrapposta al falso in ambito storico) è una tematica ormai molto in voga negli ordinamenti europei (per una panoramica si veda Belavusau & Gliszczynska-Grabias, Memory Laws), in ragione dell’aumento esponenziale di fenomeni negazionisti (si pensi, in relazione al nostro Paese, all’inserimento nella c.d. legge Reale-Mancino della disposizione punitiva dei discorsi negazionisti, in qualche modo equiparati ad una forma di hate speech razzista). Proprio in relazione alla “verità” storica, che la disposizione in esame sarebbe volta a garantire contro operazioni negazioniste , si è inserita la ben nota questione dei campi di sterminio c.d. polacchi, espressione erroneamente usata dai media e anche da importanti politici , come l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
La legge, come evidenziato dal comunicato del Ministro degli Esteri (reperibile qui) e come più volte rimarcato nel corso dell’iter legislativo, sarebbe idonea ad incriminare coloro che utilizzassero l’espressione ‘campi di sterminio polacchi’ invece che ‘nazisti’.
In generale, il testo della legge appare volto a garantire l’esclusione di una collusione dello stato polacco e del popolo polacco con il regime nazista nel genocidio degli ebrei. Ciò ha provocato forti reazioni in Israele, fra cui la critica dello Yad Vashem riguardo ai rischi che tale legislazione potrebbe originare in relazione allo studio ed all’interpretazione degli effettivi accadimenti storici (rispetto alle critiche, anche dell’ambasciatore israeliano in Polonia, è arrivata la risposta dello Instytucie Pamięci Narodowej). Anche al di fuori di Israele alcuni studiosi della storia della persecuzione degli ebrei hanno rilevato ampie problematiche in relazione a questa cristallizzazione monolitica della storia e della verità storica.
Ma, al di là di questa particolare concezione di verità riguardo i campi e nonostante la disposizione in sé non appaia così anomala nel panorama europeo, la misura appare oltremodo sproporzionata in relazione alla gravosa pena edittale prevista e alla “banalità” di un reato consistente nell’uso di un aggettivo sbagliato.
Per il resto si può rimandare alle problematicità già rilevate dalla dottrina in relazione all’utilizzo dello strumento penale, che è fortemente impattante sulla libertà di espressione, anche nel caso in cui le espressioni si risolvano in una forma di discorso odioso (per tutti si veda A.Pugiotto, Le parole sono pietre?).
Di interesse è poi la deminutio della pena per i reati compiuti “non intenzionalmente”, che solleva numerose perplessità sull’utilizzo dello strumento penale (anche se solo pecuniario o rieducativo) per “sanzionare” condotte poste in essere colposamente. Infine, una particolare attenzione merita la scriminante dello speaker o meglio della tipologia di discorso nel quale questo reato di opinione è posto in essere, ossia l’esclusione della punibilità per espressioni artistiche o scientifiche: essa appare volta a schermarsi dalle accuse più forti che potrebbe sorgere in ambito convenzionale ed eurounitario.
Le disposizioni in esame sembrano dunque essere tese alla repressione dell’uso politico dell’argomento dei campi “polacchi” e dell’uso “pubblico” che non rientri nelle fattispecie dell’arte o della ricerca (da cui la sanzione anche delle espressioni usate non con finalità denigratoria o diffamatoria).
Il secondo ordine di criticità riguarda invece il bene giuridico tutelato, che è la vera anomalia di questa norma: essa non è infatti tesa alla tutela della verità storica (che appare solo un “accessorio”) o della dignità umana dei gruppi oggetto di discriminazioni storiche, genocidi e massacri, ma è volta alla tutela dell’onorabilità dello Stato Polacco e della nazione polacca.
A tal riguardo basterà notare che questo bene giuridico riporta alla memoria concetti di Stato più legati a un modello nazionalista e sciovinista che ad un modello democratico (si pensi alla collocazione sistematica e al peso delle norme a tutela della “personalità dello Stato” nel Codice Rocco rispetto al codice penale spagnolo postfranchista).
In conclusione, questa legislazione mostra (poche) luci e (molte) ombre che, lette nel complesso dell’evoluzione (o involuzione?) della Repubblica di Polonia, fanno sorgere notevoli dubbi di compatibilità della disciplina in esame con la libertà di espressione: alla Corte costituzionale polacca (e in subordine, forse, alla Corte europea dei diritti dell’uomo in un prossimo futuro) la (non così) ardua sentenza.