La Corte aziona l’arma dei “controlimiti” e, facendo un uso alquanto singolare delle categorie processuali, sbarra le porte all’ingresso in ambito in-terno di norma internazionale consuetudinaria (a margine di Corte cost. n. 238 del 2014)*

* In Consulta OnLine, 17 novembre 2014.

Sommario: 1. La stranezza costituita da un sindacato di costituzionalità che si appunta su una norma (di adattamento) che… non c’è, la qual cosa avrebbe dovuto piuttosto portare a dichiarare inammissibile, e non già infondata, la questione, rimettendo la verifica della incompatibilità tra norma internazionale consuetudinaria e Costituzione al giudice comune. – 2.Il disinvolto abbandono del precedente del ’79, con cui si dava ad intendere che il sindacato di costituzionalità può aver luogo sulle sole consuetudini internazionali posteriori all’entrata in vigore della Costituzione. – 3. Il riconoscimento, operato dalla Corte, del carattere intangibile dei “controlimiti” e la tesi invece qui nuovamente patrocinata secondo cui norme esterne e norme interne, pur se espressive di principi fondamentali, possono partecipare ad operazioni di bilanciamento secondo valore, in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”. – 4. La conferma, venuta dalla odierna vicenda, della tendenza della giurisdizione a presentarsi, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, quale giurisdizione per risultati e il timore che, alla fin fine, i diritti costituzionali restino sguarniti di tutela, ineffettivi.

1. La stranezza costituita da un sindacato di costituzionalità che si appunta su una norma (di adattamento) che… non c’è, la qual cosa avrebbe dovuto piuttosto portare a dichiarare inammissibile, e non già infondata, la questione, rimettendo la verifica della incompatibilità tra norma internazionale consuetudinaria e Costituzione al giudice comune

Finalmente giustizia è fatta per le vittime dei crimini nazisti! Ma, è giustizia effettiva, che dà vero ristoro a coloro che hanno patito sofferenze indicibili durante la seconda grande guerra?

Se ne può dubitare, come si vedrà. La pronunzia cui si dirige questo breve commento presenta nondimeno straordinario interesse sotto più aspetti[1] e, in particolare, per le affermazioni di principio in essa contenute e i risvolti di ordine processuale ad esse conseguenti.

Diciamo le cose come stanno. La Corte ha voluto decidere, e decidere in un certo modo; ed ha quindi tirato diritto lungo la via in cui si è incamminata fino a pervenire alla meta prefissata, a qualunque costo. E, invero, i costi ci sono stati, in primo luogo – a me pare – al piano delle tecniche decisorie, per l’uso cioè fattosi di talune categorie processuali che sembravano esser ormai nitidamente definite, stabilmente acquisite al patrimonio degli strumenti di cui la Corte quotidianamente si avvale, e che invece sono qui rimesse in discussione, peraltro senza indugiare a spiegarne in modo adeguatamente argomentato le ragioni.
Si dava, infatti, uno scoglio preliminare a che il giudice delle leggi potesse pronunziarsi sulla questione di cui è stato investito dal tribunale di Firenze, con riguardo all’idoneità dell’oggetto della stessa. Per giurisprudenza consolidata, quest’ultimo può esser dato unicamente da leggi ed atti a queste equiparati: i soli a possedere “valore di legge”, nell’accezione processuale ormai invalsa; qui, invece, la Corte sposta l’obiettivo dagli atti alle norme, alla loro “primarietà”, aggiungendo all’elenco (tassativo…) contenuto nell’art. 134 cost. altresì norme non risultanti da leggi o altri atti, in ispecie la norma di adattamento dell’ordine interno ad una norma consuetudinaria della Comunità internazionale. Una soluzione obbligata, questa, per il giudice costituzionale, al fine di poter estendere la propria cognizione su norme di diritto non scritto[2].
Tra l’altro, ci dice la Corte allineandosi sul punto ad una nota ricostruzione di un’autorevole dottrina[3], la norma di adattamento in realtà non c’è; il giudizio, però, può aversi ugualmente, così come si è avuto nella odierna circostanza, ma appunto su una norma… inesistente[4]. Perché il vero è – dichiara la Corte – che, ogni qualvolta una norma di diritto internazionale non scritto[5] risulti incompatibile coi principi fondamentali dell’ordine costituzionale, la norma di adattamento non si produce e, non producendosi, non può essere dichiarata invalida, con la conseguenza che la norma internazionale di riferimento non può trovare, né ha mai trovato, ingresso in ambito interno[6].
Se, però, così stanno le cose, su cosa poggia il giudizio della Corte? La questione, insomma, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, non già – come invece è stato – infondata[7]. Tant’è che, in deroga alla regola usuale in fatto di efficacia delle decisioni della Corte, la norma internazionale è qui privata di effetti ex tunc, per la elementare ragione che non ha mai fatto ingresso nel nostro ordinamento[8].
È evidente la conseguenza cui avrebbe dato vita questo diverso modo di impostare la questione: rimettere in buona sostanza la verifica della costituzionalità delle norme internazionali in parola ai giudici comuni. E questo la Corte non lo voleva e non lo vuole; di contro, ribadisce con la massima fermezza la propria esclusiva competenza all’accertamento[9]. La qual cosa, tuttavia, come si diceva, implica che una norma interna pur sempre vi sia (e che risulti da atti, non da fatti, di produzione) sulla quale esercitare il sindacato di costituzionalità. Tant’è che, al fine di dar appagamento ai diritti sacrificati dalla norma internazionale, la Corte si trova costretta a spostare il tiro sulle norme interne di esecuzione dei trattati su cui si fonda il potere decisorio della Corte internazionale di giustizia, pervenendo quindi per tale via alla devitalizzazione degli effetti della pronunzia di quest’ultima “nella parte in cui…”.
La soluzione radicale di considerare inesistente la norma di adattamento è, dunque, apparsa agli occhi della Corte quale l’unica possibile allo scopo di non dar modo alla consuetudine internazionale di produrre alcun effetto incompatibile coi principi fondamentali di diritto interno. Una soluzione, tuttavia, non obbligata. E, d’altronde, quante volte leggi ed atti primari in genere danno vita a lesioni di principi fondamentali, persino per molti anni, prima di essere caducati dal giudice costituzionale? E non è (o, meglio, non può essere[10]) forse così anche per altre norme di origine esterna, quali quelle concordatarie e quelle dell’Unione europea? Perché allora non applicare anche a queste ultime la stessa “logica” fatta valere per le norme internazionali consuetudinarie, ragionando nel senso che la norma di “copertura”, di cui all’art. 11, non si produce laddove il diritto sovranazionale violi i “controlimiti”[11]? Non si trascuri, peraltro, che, secondo un’accreditata ricostruzione[12], l’invalidità (specie nelle sue traduzioni in illeciti costituzionali) può essere di due tipi, in senso forte ed in senso debole, l’una portando a qualificare come radicalmente nulle-inesistenti le norme che ne sono affette e l’altra invece come meramente annullabili[13].
Volendo, perciò, dotare il proprio giudizio di una base su cui potersi esercitare, la Corte avrebbe potuto (e dovuto) ragionare nel senso che la norma di adattamento si è, sì, prodotta ma che, a motivo dello scontro frontale registratosi tra la norma internazionale di riferimento e i principi fondamentali di diritto interno, essa era da considerare, nella specie, nulla-inesistente, col rischio tuttavia che, una volta spianata la via al riconoscimento della bipartizione suddetta, anche altri casi di illegittimità costituzionale potrebbero un domani essere considerati come riconducibili alla prima delle categorie suddette, quella della invalidità in senso forte; e col rischio, dunque, di autorizzare i giudici comuni a far luogo al riconoscimento di siffatta invalidità, senza investire perciò la Corte della cognizione in merito a norme… inesistenti[14].
Sta di fatto che insuperato è, ad ogni buon conto, rimasto nella circostanza odierna l’ostacolo costituito dal fatto che la norma di adattamento non risulta da leggi o atti equipollenti, i soli – come si è rammentato – sui quali il giudizio di costituzionalità può, ex art. 134 cost., esercitarsi.

2. Il disinvolto abbandono del precedente del ’79, con cui si dava ad intendere che il sindacato di costituzionalità può aver luogo sulle sole consuetudini internazionali posteriori all’entrata in vigore della Costituzione

Superato (in modo un po’ acrobatico…) l’ostacolo costituito dalla inesistenza della norma oggetto del giudizio di costituzionalità, la Corte se n’è trovata davanti un altro, costituito dal noto precedente di cui alla sent. n. 48 del 1979 che, a dire di molti, avrebbe circoscritto il sindacato alle sole consuetudini posteriori all’entrata in vigore della Carta costituzionale. La Corte oggi ne dà una diversa lettura[15], che per vero parrebbe forzare la lettera dell’espressione posta in coda a quell’ormai risalente pronunzia[16], asserendo non sussistere, “sul piano logico e sistematico, ragioni per le quali il controllo di legittimità costituzionale dovrebbe essere escluso per le consuetudini internazionali o limitato solo a quelle posteriori alla Costituzione”[17].
È questo pure un passaggio obbligato al fine di pervenire al riconoscimento del sindacato accentrato in funzione della salvaguardia della integrità dei principi fondamentali dell’ordinamento e di non sfociare dunque nell’esito, evidentemente giudicato infausto, di una rigidità costituzionale solo… a metà, fatta cioè salva unicamente in relazione al caso di precedenza temporale della Carta.
In realtà, anche su questo punto molto vi sarebbe da dire. Non si dimentichi che, secondo un’accreditata dottrina[18], le antinomie tra Costituzione e diritto internazionale non scritto si risolverebbero a beneficio della prima (e – si faccia caso – di ogni sua norma, non dei soli principi fondamentali), laddove le norme internazionali dovessero precedere l’entrata in vigore della Costituzione. Di contro, in caso di precedenza delle norme costituzionali, queste potrebbero soggiacere a deroga da parte delle norme di origine esterna, fatti nondimeno salvi i principi fondamentali[19]. Insomma, anche nel primo dei due casi ora descritti, la norma di adattamento non si produrrebbe, dal momento che – a stare alla dottrina ora riferita – il Costituente, consapevole della esistenza di norme internazionali incompatibili con le disposizioni della legge fondamentale della Repubblica che si accingeva a licenziare, evidentemente non ha inteso dar spazio per la loro applicazione in ambito interno. Verrebbe, perciò, a determinarsi – come suol dirsi – una rottura della Costituzione, per effetto della incompatibilità di una regola valevole specificamente per una fattispecie data rispetto ad un principio di ordine generale (qui, quello di cui all’art. 10, I c.)[20].
Ancora una volta, tuttavia, si ripropone l’interrogativo sopra posto: ma se la norma di adattamento non si produce, su cosa mai può svolgersi il sindacato della Corte? Non è forse compito dei giudici comuni accertare quali siano le norme esistenti e perciò astrattamente applicabili (e, solo una volta che siffatto riscontro si sia concluso con esito positivo, stabilire se sia, o no, il caso di rivolgersi al giudice delle leggi)?

3. Il riconoscimento, operato dalla Corte, del carattere intangibile dei “controlimiti” e la tesi invece qui nuovamente patrocinata secondo cui norme esterne e norme interne, pur se espressive di principi fondamentali, possono partecipare ad operazioni di bilanciamento secondo valore, in vista dell’affermazione della Costituzione come “sistema”

Ciò che, ad ogni buon conto, sta a cuore alla Corte è di preservare i principi di base dell’ordinamento da qualsivoglia attacco possa loro venire ab extra. La Corte, dunque, brandisce l’arma dei “controlimiti” e stavolta, a differenza di altre in cui si è limitata a minacciarne l’uso, li fa in concreto valere, erigendo un muro invalicabile dalla consuetudine internazionale che sancisce l’immunità dai giudizi civili degli Stati esteri.
Anche su ciò molto invero vi sarebbe da dire.
Avverto di non volermi addentrare nel merito della questione, per come è stata impostata e risolta dalla Corte. Per ciò che vale, condivido la conclusione raggiunta dal giudice costituzionale, pur non nascondendomi i limiti ai quali essa va incontro, sui quali m’intratterrò specificamente sul finire di queste brevi notazioni. È però al piano del metodo, prima ancora che a quello degli svolgimenti teorico-ricostruttivi, che tengo a marcare la distanza tra l’argomentare della Corte e quello che a mia opinione avrebbe invece dovuto essere.
La posizione della Corte in tema di “controlimiti” è nota e non occorre, dunque, qui farvi nuovamente richiamo. È tuttavia interessante osservare che ad essa sono oggi apportate alcune precisazioni di non secondario rilievo.
A giudizio della Corte, infatti, i “controlimiti” non si discutono: ci è stato detto e ridetto molte volte, in relazione a plurimi campi materiali di esperienza[21], sempre escludendosi categoricamente che possa esservi alcuna norma di origine esterna cui sia data in ambito nazionale applicazione, laddove incompatibile sia pure con un solo principio fondamentale, in particolare ove siano in gioco i diritti fondamentali. In tal modo, la Corte non prende tuttavia in considerazione l’ipotesi che norme siffatte, ancorché incompatibili con un principio fondamentale dato, possano dimostrarsi serventi nei riguardi di altri principi e, dunque, risultare da questi “coperte”. Nel qual caso, dovrebbe in realtà farsi luogo ad un bilanciamento secondo valore, aperto – come di consueto – a qualunque esito[22]. È invero singolare che la Corte, che specie di recente ha molto insistito sulla necessità di far valere la Costituzione come “sistema”[23], non si dichiari disposta a far luogo alle consuete operazioni di bilanciamento assiologico ogni qual volta siano in gioco norme di origine esterna, escludendo dunque in partenza, in modo assiomatico, l’evenienza che la “situazione normativa” – come a me piace chiamarla – conseguente al mantenimento di norma esterna pur astrattamente incompatibile con norma costituzionale sia da preferire rispetto alla “situazione normativa” invece risultante dalla caducazione di quella norma o, comunque, dalla sua non applicazione in ambito interno[24].
La stessa Corte – come si diceva – ammette che i diritti fondamentali possano (e debbano) soggiacere a bilanciamento con interessi di altro genere, essi pure costituzionalmente protetti (ad es., quello della sicurezza collettiva): appunto perché la Costituzione va sempre considerata nel suo fare “sistema”. Una linea metodico-teorica, questa, lungo la quale – come pure è noto – si sono da tempo avviate anche le Corti europee[25]. Eppure, l’affermazione della intangibilità dei “controlimiti” al piano dei rapporti interordinamentali è sempre stata perentoria, senza riserva alcuna.
Qui, però, si danno un paio di passaggi in cui l’affermazione stessa si presenta quodammodo temperata: si discorre infatti della evenienza che sia ridotto “al minimo il sacrificio” dei diritti fondamentali[26] ed ancora si rileva come sia da escludere che alcuni crimini contro l’umanità, esemplificativamente indicati, “possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini”[27]. Insomma, un qualche bilanciamento cui partecipino gli stessi diritti inviolabili – a quanto pare – può aversi[28]; il diritto di difesa però e, soprattutto, la dignità della persona umana non possono che uscirne, sempre, vincitori.
Sembra tuttavia male impostato il ragionamento fatto da coloro che, sulla scia della Corte, reputano in partenza precluso il bilanciamento tra norme strumentali, quale quella di cui all’art. 10, I c., e norme sostantive della Carta, quali quelle che danno il riconoscimento dei diritti fondamentali, a motivo della presunta e sistematica superiorità delle seconde. Si trascura, infatti, di considerare che le norme sulla normazione non sono mai fini a se stesse, autoreferenziali, ponendosi piuttosto al servizio di valori sostantivi, di cui anzi esse pure si fanno portatrici, a partire da quel valore della pace e della giustizia tra le Nazioni che dà senso e giustificazione al meccanismo dell’adattamento automatico (e, in genere, ai meccanismi che presiedono al governo dei rapporti tra diritto interno e norme di origine esterna[29]).
Pace e giustizia da un canto, diritti fondamentali dall’altro, non stanno dunque in un ordine gerarchico fisso ed immutabile, per sistema appunto. Di contro, sono i casi della vita che portano a composizioni di vario segno dei valori suddetti; non si trascuri, peraltro, che la pace e la giustizia possono costituire oggetto di diritti sia dei singoli che dell’intera collettività e, comunque, sono condizione per l’affermazione dei diritti stessi, così come circolarmente la salvaguardia di questi può, per la sua parte, concorrere alla salvaguardia di quelle.
Ulteriormente specificando, ove si convenga – come a me pare devesi – che libertà ed eguaglianza, nelle loro mutue ed inscindibili implicazioni[30], costituiscono la coppia assiologica fondamentale dell’ordinamento, al cui servizio si pongono i valori restanti, ebbene la pace e la giustizia tra le Nazioni non offrono loro un contributo di minor rilievo di quello che può ad esse venire da altri valori in vista del loro ottimale appagamento, alle condizioni oggettive di contesto.
La conclusione di questo ragionamento è che non può mai dirsi in partenza, in astratto o in vitro, che le norme internazionali (e, segnatamente, quelle generalmente riconosciute) debbano recedere davanti alle norme costituzionali (e, discendendo, a quelle da esse costituzionalmente “coperte”), persino laddove espressive di principi fondamentali. Si tratta, dunque,
ogni volta di stabilire (ed è accertamento estremamente scivoloso ed incerto) dove si situi il punto più alto di sintesi assiologica, quello cioè che porta la Costituzione ad affermarsi magis ut valeat, come “sistema” appunto.
Di una sola cosa mi sento al riguardo sicuro: che laddove sia in gioco la dignità, come nella vicenda che ha dato lo spunto a questo succinto commento, non può aversi esitazione alcuna in ordine alla scelta della norma preminente, per la elementare ragione che – come ha fatto notare la più avveduta dottrina – la dignità non soggiace, né può mai soggiacere, a bilanciamento alcuno, ponendosi piuttosto quale la “bilancia” sulla quale si effettuano le ponderazioni tra i beni della vita in gioco[31]. Quanto meno così dovrebbe sempre essere, secondo modello, per quanto non ci si possa nascondere che si siano avuti taluni casi in cui la stessa dignità sembra esser stata presso la Consulta sacrificata[32].
Nel caso di oggi, la Corte si dichiara ferma guardiana della dignità; sarà poi da vedere se questo punto di diritto potrà considerarsi stabilmente fissato ovvero se sarà rimesso in discussione in altre vicende processuali.
Sta di fatto che, per le ragioni sopra esposte, consiglierei di non cedere alla tentazione di far luogo ad indebite generalizzazioni delle affermazioni contenute nella decisione qui annotata. Contrariamente a ciò che la stessa Corte ha qui in modo secco dichiarato, non escluderei infatti che possano darsi casi diversi da questo in cui, malgrado il rilevato contrasto di norme internazionali con principi fondamentali, delle norme stesse possa farsi ugualmente applicazione, la “situazione normativa” costituita dalla loro vigenza risultando – come si diceva – idonea a servire meglio la Costituzione come “sistema” rispetto alla “situazione normativa” che veda invece precluso l’ingresso alle norme stesse nell’ordine interno.

4. La conferma, venuta dalla odierna vicenda, della tendenza della giurisdizione a presentarsi, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, quale giurisdizione per risultati e il timore che, alla fin fine, i diritti costituzionali restino sguarniti di tutela, ineffettivi

Un solo punto rimane da trattare, riprendendo una notazione fatta all’inizio di questo scritto, con riguardo alle concrete possibilità di giustizia date alle vittime dei crimini nazisti.
Pochi dubbi possono invero esservi a riguardo del fatto che la decisione in commento chiami i giudici comuni a disattendere il verdetto della Corte internazionale di giustizia che ha riconosciuto l’immunità dalla giurisdizione nazionale: li chiami, cioè, a considerare quel verdetto un mero “fatto” improduttivo di obblighi giuridici in ambito interno, per effetto della caducazione della norma che ne è a fondamento “nella parte in cui…”. Con il che risulta spianata la via a ricorsi ai giudici stessi volti ad ottenere il risarcimento dei danni patiti dalle vittime suddette[33]. È tuttavia convinzione diffusa che assai difficilmente i ricorsi stessi andranno a buon fine. Com’è stato da molti notato, è infatti da mettere in conto che la Germania farà appello alla Corte internazionale di giustizia, denunziando la violazione dell’obbligo di dare esecuzione alle sue pronunzie ad opera del giudice nazionale[34]. La qual cosa potrebbe dar vita ad una situazione di stallo insuperabile, a meno che la stessa Corte non dovesse correggere il tiro del proprio precedente verdetto rimettendo a fuoco (e, se del caso, ritagliando) l’area di operatività della norma internazionale[35].
In realtà, la violazione in parola risulterebbe dal tandem costituito dalla decisione della Corte costituzionale e da quella del giudice comune, per quanto la prima sia, dal punto di vista del nostro ordinamento, insuscettibile di alcuna impugnazione (art. 137, ult. c.)[36]. L’effetto giuridico della violazione, tuttavia, in buona sostanza, sarebbe dato dalla combinazione delle due decisioni suddette, la seconda rinvenendo giustificazione nella prima e da essa ricevendo la spinta per la propria adozione.
Si ha qui, insomma, un’ulteriore conferma di quel carattere seriale, “processuale”, della giurisdizione, di cui sono venuto più volte dicendo negli ultimi tempi, trattando sia dei rapporti tra pronunzie delle Corti europee e pronunzie dei giudici nazionali (costituzionali e non) che di queste ultime inter se (segnatamente, appunto, nel continuum cui esse danno vita e che risulta composto da decisioni del giudice delle leggi e decisioni di altri giudici).
Si assiste, dunque, ad una giurisdizione per risultati[37], che vede l’effetto giuridico a conti fatti prodotto da più atti che, succedendosi l’un l’altro, vanno a comporre una “catena” unitaria nella quale ciascun anello allo stesso tempo dà agli altri e da questi riceve senso.
Nella circostanza odierna, la Corte ha fatto luogo ad una importante affermazione di principio, nondimeno bisognosa di esser seguita dalle sue opportune specificazioni-attuazioni al fine di poter produrre i benefici effetti che da essa i portatori di diritti costituzionali lesi si attendono. Insomma, quella oggi posta in atto presso la Consulta è un’operazione di giustizia costituzionale in progress, strutturalmenteimperfetta, esattamente così come lo sono quelle che si hanno in presenza di additive di principio, che richiedono di perfezionarsi presso le sedi in cui si amministra la giustizia comune, laddove ai principi posti dalla Corte si succedono le regole adeguate alla loro implementazione nell’esperienza.
La differenza tra ciò che molte volte si ha in presenza di additive di principio e ciò che invece si ha nel caso nostro è che il giudice comune potrebbe, a sua volta, finire col dar vita ad affermazioni di mero principio, scritte sull’acqua, incapaci dunque di farsi – com’è doveroso – valere.
La conclusione è amara, sconfortante. La Corte internazionale ha, in buona sostanza, lasciato intendere che le vittime dei crimini nazisti hanno ragione ma che non possono rivolgersi ad un giudice per essere protetti nei loro diritti, nella loro dignità calpestata. La Corte costituzionale, dal suo canto, incoraggia le vittime stesse a rivolgersi ai giudici comuni e questi ultimi, verosimilmente, riconosceranno il torto da esse subito.
I diritti saranno così finalmente riconosciuti nelle sedi giuste ma – come si diceva – è quasi certo che resteranno privi di tutela[38]. Una conclusione beffarda, anche per il logoramento psichico ed il dispendio di energie e di denaro cui le vittime dovranno sottoporsi senza riuscire, alla fin fine, ad ottenere ristoro.


[1] … al punto da indurre chi l’ha prontamente annotata a prospettare l’ipotesi che essa possa considerarsi “storica” [P. Passaglia, Una sentenza (auspicabilmente) storica: la Corte limita l’immunità degli stati esteri dalla giurisdizione civile, in www.diritticomparati.it, 28 ottobre 2014. Cfr. al suo punto di vista quello manifestato, nella stessa sede, da F. Fontanelli, I know it’s wrong but I just can’t do right. First impressions on judgment no. 238 of 2014 of the Italian Constitutional Court].

[2] Forzato e, comunque, prematuro, tuttavia, da qui desumerne che anche in campi materiali di esperienza diversi da questo la Corte potrà (e vorrà) abbandonare l’usuale punto di riferimento degli atti per volgersi direttamente alle norme al fine di riconoscere ovvero escludere in capo a queste il “valore di legge”.

[3] V., part., G. Zagrebelsky, Il sistema costituzionale delle fonti del diritto, Utet, Torino 1984, 122, e B. Conforti, Diritto internazionale10, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, 348.

[4] Si sofferma sul punto anche M. Longobardo, “Il non-essere non è e non può essere”: brevi note a margine della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale rispetto all’adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale consuetudinario, in www.sidi-isil.org, 10 novembre 2014,ma da una prospettiva e con svolgimenti argomentativi diversi da quelli di qui.

[5] … la cui ricognizione – ammette il giudice costituzionale (punto 3.1 del cons. in dir. – è, ad ogni buon conto, riservata alle sedi istituzionali competenti (e, dunque, alla Corte internazionale di giustizia), in applicazione della “logica” rigorosa della separazione degli ordinamenti (sottolinea il rilievo del ruolo al riguardo giocato dalla Corte suddetta A. Guazzarotti, Il paradosso della ricognizione delle consuetudini internazionali. Note minime a Corte cost. n. 238 del 2014, in www.forumcostituzionale.it, 5 novembre 2014, paragonandolo a quello giocato dalla Corte dell’Unione in sede di rielaborazione delle “tradizioni costituzionali comuni”).

[6] Punto 3.4 del cons. in dir.

[7] Punto 3.5 del cons. in dir. (l’esito paventato nel testo è, con puntuali argomenti, rilevato anche da S. Leone, Sul dispositivo della sentenza n. 238 del 2014: una soluzione preordinata ad accentrare il sindacato sulle consuetudini internazionali presso Palazzo della Consulta, in corso di stampa in Quad. cost., e S. Lieto, Il diritto al giudice e l’immunità giurisdizionale degli Stati nella sentenza della Corte costituzionale n. 238 del 2014, in www.forumcostituzionale.it, 6 novembre 2014, § 2; v., inoltre, L. Gradoni, Corte Costituzionale italiana e Corte internazionale di giustizia in rotta di collisione sull’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile, in www.sidi-isil.org, 27 ottobre 2014, il quale nondimeno non si sofferma specificamente sulla questione processuale qui posta).

[8] Sovviene l’accostamento col trattamento riservato ai decreti-legge non convertiti, dalla Corte considerati – come si sa – come non mai esistiti (la qual cosa, peraltro, non è del tutto vera, sol che si ammetta, come devesi, che taluni effetti da essi prodotti appaiono essere irreversibili).

[9] “In un sistema accentrato di controllo di costituzionalità – sta scritto al punto 3.2 del cons. in dir. –, è pacifico che questa verifica di compatibilità spetta alla sola Corte costituzionale, con esclusione di qualsiasi altro giudice, anche in riferimento alle norme consuetudinarie internazionali” (mia, ovviamente, la sottolineatura).

[10] … quanto meno in via di principio; poi, è da vedere se si danno le condizioni di contesto perché il sindacato possa esercitarsi portando, se del caso, ad effetti caducatori. La qual cosa – come si sa – sembra ad oggi essere alquanto remota.

[11] In tal modo, non si renderebbe necessario l’annullamento della legge di esecuzione “nella parte in cui…”, essendo la norma di esecuzione in questione inesistente.

Forse, proprio questo è l’ordine di idee in cui sembra essersi disposta la giurisprudenza costituzionale (se non già ab initio, quanto meno) a partire dalle sentenze “gemelle”-bis nn. 311 e 317 del 2009, in relazione alla condizione della CEDU in ambito interno, con riguardo al caso di norma convenzionale incompatibile col parametro costituzionale. Nel qual caso, appunto, non sarebbe perciò necessaria la dichiarazione d’incostituzionalità delle legge di esecuzione “nella parte in cui…”, essendo allo scopo sufficiente l’accertamento della inidoneità della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale e ad essere pertanto posta a base della caducazione di norma legislativa con essa confliggente. Una soluzione tecnica, questa, che – confesso – ho io stesso prospettato (nel mio Corte costituzionale e Corti europee: il modello, le esperienze, le prospettive, in AA.VV., Corte costituzionale e sistema istituzionale, a cura di F. Dal Canto – E. Rossi, Giappichelli, Torino 2011, 149 ss., spec. 168 ss., e in altri scritti) al fine di evitare che l’annullamento di norma convenzionale fatalmente contagi e travolga anche la disposizione espressiva di quella norma, in ogni altro suo possibile significato. Ed è – tengo a precisare – una soluzione che ho avanzato per il fatto che, secondo prassi corrente (forse, dovremmo ormai dire: consuetudinariamente affermatasi), ogni qual volta si abbia la dichiarazione d’incostituzionalità di una norma di legge, cade quest’ultima e cade però anche il testo che fisicamente la sorregge ed esprime, in ogni sua norma astrattamente possibile, confondendosi ed appiattendosi in tal modo l’effetto di annullamento e quello di abrogazione nominata, il quale ultimo soltanto, a mio modo di vedere, è in grado di travolgere la disposizione, in ogni suo possibile significato. Ben diverso, invece, l’esito teorico-ricostruttivo qualora fosse invalsa una prassi diversa (a favore della quale mi sono dichiarato nel mio Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990), secondo cui l’annullamento della norma non si trasmette altresì, meccanicamente, alla disposizione che la contiene.

[12] R. Guastini, Dalle fonti alle norme2, Giappichelli, Torino 1992, 207 ss. Ho fatto utilizzo della bipartizione di cui al testo nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 25 ss., alle cui notazioni qui pure mi rifaccio con ulteriori svolgimenti.

[13] Corrisponde, in buona sostanza, a questa partizione la qualifica data da un sensibile studioso (A. Spadaro, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, ESI, Napoli 1990, 262 ss., e in altri luoghi) degli illeciti costituzionali per via normativa, distinguendosi dall’anticostituzionalità (l’invalidità in senso forte) la mera incostituzionalità (i. in senso debole). Di “anticostituzionalità”, nella circostanza odierna, ragiona anche M. Longobardo, “Il non-essere non è e non può essere”, cit., ma in un ordine teorico distante da quello di qui.

[14] Si è altresì affacciata l’ipotesi (tuttavia giudicata dalla sua stessa autrice “troppo fantasiosa”…) secondo cui “la consuetudine internazionale sull’immunità avrebbe varcato il confine grazie all’art. 10 Cost. – disposizione che comporta un adeguamento automatico, incapace di operare distinzioni –, per permanere solo il tempo necessario a rendere accertabile da parte della Corte la sua contrarietà a principi fondamentali, ed essere poi senza indugio espatriata prima ancora di potersi dichiarare illegittima la norma di adattamento”. Con il che si renderebbe appunto possibile “un sindacato svolto dalla Corte in entrata, ma non in uscita” (S. Leone, Sul dispositivo della sentenza n. 238 del 2014, cit.). Misteriosa nondimeno resterebbe la ragione di un “accertamento” non… dichiarato o dichiarabile.

Secondo un’altra tesi ancora (che invero lascia alquanto perplessi), la Corte non avrebbe qui svolto un sindacato sulle leggi, ex art. 134 cost., ma avrebbe esercitato una competenza nuova, di “quinto tipo” (L. Gradoni, Giudizi costituzionali del quinto tipo. Ancora sulla storica sentenza della Corte costituzionale italiana, in www.sidi-isil.org, 10 novembre 2014). Se così davvero fosse, avrebbe dato vita ad un atto mostruoso, nullo-inesistente, come tale non provvisto della “copertura” di cui all’art. 137, ult. c., cost.

[15] L’overruling è stato prontamente rilevato già dai primi commenti, tra i quali quello di P. Passaglia, dietro cit.

[16] Si diceva infatti nella decisione del ’79 che “occorre comunque affermare, più in generale, per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale…” (punto 3 cons. in dir.; mio, ovviamente, il corsivo).

[17] Punto 2.2 del cons. in dir. Non si capisce tuttavia come possa qui la Corte riconoscere l’assoggettabilità delle consuetudini a controllo di costituzionalità, una volta che, ristretto il parametro della loro validità ai soli principi fondamentali, la violazione di questi ultimi comporterebbe comunque l’inesistenza della norma di adattamento.

[18] Per tutti, T. Martines, Diritto Costituzionale13, a cura di G. Silvestri, Giuffrè, Milano 2013, 81.

[19] In questa evenienza, a stare alla dottrina ora richiamata, sarebbe fatto obbligo al legislatore di revisione costituzionale di adeguare la Carta alla sopravveniente (e preminente) norma internazionale. Una opinione che tuttavia – come si è tentato altrove di argomentare (nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori, cit., 210 ss., spec. 213 s.) – sembra far venire meno il carattere “automatico” dell’adattamento, subordinato ad un evento futuro ed incerto, qual è quello della modifica costituzionale, con grave pregiudizio dell’attitudine della norma stessa a produrre immediati effetti. La decisione qui annotata, ad ogni buon conto, mostra di non accogliere l’opinione suddetta.

[20] La rottura, d’altro canto, si ha pure nel caso opposto della deroga validamente prodotta da norma internazionale alla Costituzione, l’art. 10, I c., che l’autorizza ponendosi appunto in rottura rispetto al principio ed alla procedura, di cui all’art. 138 cost., che stabilisce qual è l’unico modo consentito per le innovazioni costituzionali (ancora op. ult. cit., 215).

[21] … da quello dei rapporti tra diritto interno e diritto (ieri comunitario ed oggi) eurounitario all’altro dei rapporti con le norme concordatarie e, appunto, con quelle internazionali.

[22] Ho ragionato a riguardo dei bilanciamenti assiologici nella loro proiezione al piano dei rapporti interordinamentali specificamente nel mio Rapporti tra Corte costituzionale e Corti europee, bilanciamenti interordinamentali e “controlimiti” mobili, a garanzia dei diritti fondamentali,inwww.rivistaaic.it, 1/2011.

[23] Un’idea, questa, che – come si sa – è stata ripetutamente enunciata, in particolar modo sul fronte dei rapporti tra la CEDU e il diritto interno.

[24] … per effetto della mancata produzione della norma di adattamento.

[25] Un solo esempio per tutti: la pronunzia della Corte EDU, Sez. II, 18 marzo 2014 (ricc. nn. 24069/03, 197/04, 6201/06 et 10464/07), Öcalan c. Turchia n. 2, laddove il diritto di un detenuto accusato di terrorismo e sottoposto a carcere duro ad intrattenere rapporti coi suoi familiari (e di questi con quello) è stato obbligato a recedere davanti all’interesse alla sicurezza.

[26] Punto 3.1 del cons. in dir. [invita a fermare su di esso l’attenzione P. Faraguna, Corte costituzionale e corte internazionale di giustizia: il diritto alla penultima parola (sulla sentenza 238 del 2014), in www.diritticomparati.it,  30 ottobre 2014, e Corte costituzionale contro Corte internazionale di giustizia: i controlimiti in azione, in www.forumcostituzionale.it, 2 novembre 2014].

[27] Punto 3.4 del cons. in dir. Superfluo rilevare la vaghezza concettuale di siffatte espressioni, la cui messa in atto rimanda ad apprezzamenti largamente discrezionali del giudice delle leggi e degli operatori in genere.

[28] Sul punto, anche S. Lieto, Il diritto al giudice e l’immunità giurisdizionale degli Stati, cit., § 2, seppur da una prospettiva e con svolgimenti argomentativi non coincidenti con quelli di qui.

[29] Non si dimentichi che proprio nell’art. 11 ha trovato appiglio il diritto delle Comunità (prima) e dell’Unione europea (poi) al fine di farsi valere in ambito interno.

[30] Su di che, sopra tutti, G. Silvestri, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2009.

[31] L’immagine della bilancia è – come si sa – di G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

[32] I casi stessi possono, volendo, vedersi illustrati nel mio Fatti “interposti” nei giudizi di costituzionalità, sacrifici insostenibili imposti ai diritti fondamentali in tempi di crisi economica, tecniche decisorie a salvaguardia dell’etica pubblica repubblicana, in Consulta OnLine, 6 novembre 2014, spec. ai §§ 3 e 4. Ha, dunque, ragione quella dottrina (per tutti, M. Luciani, Positività, metapositività e parapositività dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di L. Carlassare,a cura di G. Brunelli – A. Pugiotto – P. Veronesi, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, III, Dei diritti e del­l’egua­glianza,Jovene, Napoli 2009, 1060 ss.; precisazioni sul punto, ora, anche in P. Veronesi, La dignità umana tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quad. cost., 2/2014, 315 ss., e F. Ferraro, Lo spazio giuridico europeo tra sovranità e diritti fondamentali. Democrazia, valori e rule of law nell’Unione al tempo della crisi, Editoriale Scientifica, Napoli 2014, 113 ss.) che si è dichiarata favorevole a che la stessa dignità possa rendersi partecipe di operazioni di bilanciamento, ma solo a mia opinione nel senso del materiale riscontro di siffatta evenienza, non già della sua rispondenza al modello costituzionale.

[33] Ad opinione di M. Longobardo, “Il non-essere non è e non può essere”, cit., saranno ad ogni buon conto i giudici comuni a sciogliere il dubbio se, nella circostanza de qua, si è in presenza di una giurisdizione di cognizione ovvero di una di esecuzione, solo dalla seconda discendendo una soddisfazione pecuniaria per le vittime dei crimini nazisti.

[34] Tra gli altri, L. Gradoni, Corte costituzionale italiana e Corte internazionale di giustizia, cit., eP. De Sena, Spunti di riflessione sulla sentenza 238/2014 della Corte costituzionale, in www.sidi-isil.org, 30 ottobre 2014, § 4.

[35] Non saprei tuttavia dire quante speranze possano fondatamente nutrirsi a riguardo di quest’aspettativa.

[36] Faccio qui di passaggio notare che, in altri luoghi di riflessione scientifica, mi sono interrogato a riguardo della eventuale partecipazione ad operazioni di bilanciamento assiologico della stessa norma che stabilisce la giuridica insindacabilità delle pronunzie del giudice costituzionale, non escludendo, ancora una volta in partenza e per sistema, che ciò possa talora aversi.

[37] In questi termini se ne tratta, di recente, nel mio Sei tesi in tema di diritti fondamentali e della loro tutela attraverso il “dialogo” tra Corti europee e Corti nazionali, in www.federalismi.it, 18/2014, § 9.

[38] Né è da fare molto affidamento sulla via diplomatica, qualora dovesse essere percorsa con buona volontà da entrambe le parti. Il timore è infatti che essa non sortisca pratici effetti, tanto più nella presente congiuntura fortemente segnata da una crisi economica soffocante e gravemente penalizzante i diritti, specie quelli la cui salvaguardia passa attraverso un risarcimento monetario di sicuro cospicuo.