La Corte Suprema dà il via libera al Travel Ban versione 3.0

Il 26 giugno 2017 la Corte Suprema Federale degli Stati Uniti, pronunciandosi su ricorso dell’Amministrazione Trump, aveva dichiarato parzialmente applicabile il c.d. Travel Ban, l’executive order n. 13780, che prevedeva la temporanea sospensione del rilascio dei visti di ingresso negli Stati Uniti e delle pratiche di riconoscimento dello status di rifugiato nei confronti degli individui provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana. La decisione della Corte, che tra l’altro ribaltava le pronunce precedentemente emesse dai giudici federali del IV e del IX Circuito, ricavava la parziale applicabilità del provvedimento all’esito di un iter argomentativo alquanto tortuoso, finendo così quasi col riscrivere l’executive order enucleando dei criteri applicativi forieri di non poche incertezze quanto alle loro ricadute pratiche.
Ad ogni modo, la Supreme Court si era riservata la decisione definitiva riguardo al Muslim Ban, rimandandola al term autunnale, e quindi al mese di ottobre. Proprio in questo periodo, e precisamente il 24 settembre scorso, prima che la Corte potesse intervenire definitivamente sulla questione, e comunque nel momento in cui ormai si approssimava la scadenza delle misure temporanee previste dall’executive order n. 13780, l’Amministrazione presidenziale ha rimescolato per l’ennesima volta le carte emettendo un nuovo provvedimento (Presidential Proclamation enhancing vetting capabilities and processes for detecting attempted entry into the United States by terrorists or other public-safety threats), destinato ad avere un impatto ben più forte dei precedenti sulle pratiche relative all’immigrazione e alle procedure di ingresso negli Stati Uniti.
Infatti, il nuovo Ban si differenzia, rispetto alle sue due precedenti versioni, per il carattere definitivo o, per meglio dire, stabile, e non più temporaneo, delle restrizioni da esso previste; queste ultime, inoltre, colpiscono adesso i soggetti provenienti da otto diversi Paesi (cinque – Siria, Libia, Yemen, Iran e Somalia – già presenti nel secondo ban, che colpiva anche il Sudan, poi “riabilitato”, cui si aggiungono adesso il Ciad e le new entry non afferenti ai Paesi dell’area islamica, Venezuela e Corea del Nord). Le procedure di identificazione e riconoscimento delle persone vigenti nei Paesi suddetti sono, a vario titolo, ritenute non all’altezza degli standard statunitensi e quindi foriere di potenziali pericoli per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda l’eventuale ingresso in territorio americano di individui affiliati a reti o organizzazioni terroristiche.
Le misure restrittive si presentano poi come asimmetriche e diversificate, articolate in maniera differente e connotate, potremmo dire, da un grado più o meno intenso di afflittività a seconda del Paese cui si rivolgono; ad esempio, per quanto riguarda il Venezuela, il divieto di ingresso negli Stati Uniti è rivolto specificamente ad alcune categorie di funzionari governativi e statali e non si estende ai cittadini, mentre, nel caso di altri Paesi, il provvedimento esclude finanche il rilascio di visti turistici o per ragioni di studio.
Infine, il provvedimento presidenziale esclude dall’area di operatività del divieto i soggetti permanentemente residenti negli Stati Uniti, individua la disciplina transitoria applicabile e definisce i casi in cui le amministrazioni competenti possono, con valutazione da effettuare caso per caso, ammettere deroghe al divieto di ingresso negli Stati Uniti nei confronti di singole persone, in considerazione della loro particolare situazione.
La Corte Suprema era già intervenuta a dirimere l’imponente contenzioso suscitato dal secondo executive order, emettendo, nel mese di settembre, alcune pronunce interinali; queste ultime erano volte sia a fornire alle amministrazioni ulteriori indicazioni relativamente ai criteri dettati con la decisione del 26 giugno, in particolare il criterio della bona fide relationship, sia a disciplinare l’applicazione del secondo profilo del Ban (che peraltro non appare intaccato o modificato dalla terza ed ultima versione), vale a dire quello relativo al contingentamento dei rifugiati.
Ad ogni modo, la pronuncia definitiva della Corte sul Muslim Ban avrebbe dovuto essere emessa il 10 ottobre, mentre l’entrata in vigore delle nuove misure dettate dalla Presidential Proclamation era prevista a decorrere dal 18 ottobre. Dinanzi al nuovo provvedimento, il 10 ottobre, la Corte Suprema non ha potuto fare altro che rinviare i casi alle Corti federali del IV e IX Circuito, ordinando ai giudici federali di secondo grado di dismettere i rispettivi giudizi sulla base del loro carattere moot, vale a dire, sulla base della sopravvenuta, sostanziale irrilevanza della questione da essi sollevata.
Come già avvenuto per i primi due provvedimenti, il decreto presidenziale è stato oggetto di nuove contestazioni in sede giudiziaria e il contenzioso si è già spostato dalle Corti federali di distretto a quelle di appello, tornando nuovamente proprio davanti alle stesse Corti del IV e IX Circuito, già protagoniste del braccio di ferro con l’Amministrazione Trump sull’executive order n. 13780; le Corti federali di primo e secondo grado, fedeli al loro operato precedente, e sulla base del criterio della bona fide relationship dettato dalla stessa Corte Suprema con la decisione del 26 giugno, hanno quindi adottato provvedimenti (injunctions) fortemente limitativi e restrittivi dell’efficacia e della portata del nuovo Ban. Com’è ovvio, l’Amministrazione presidenziale non è rimasta a guardare e lo scorso 4 dicembre la questione è tornata dinanzi alla Supreme Court che, in maniera abbastanza imprevedibile, si è espressa, a larga maggioranza, a favore delle ragioni della Presidenza, privando di efficacia i provvedimenti inibitori interinali delle Corti federali inferiori e consentendo così il pieno enforcement del terzo Travel Ban nelle more dei diversi procedimenti di cui è oggetto, che sfoceranno, questo è certo, in un’ulteriore, e forse definitiva, pronuncia, della stessa Corte di Washington D.C..
Bisogna tenere conto che quest’ultima decisione della Corte Suprema, resa relativamente ai casi Trump v. Hawaii e Trump v. International Refugee Assistance Project, non consiste in una vera e propria sentenza, ma semplicemente in due unsigned orders che si limitano ad enunciare il dispositivo e a far trasparire il dissenso dei giudici Ginsburg e Sotomayor, che avrebbero tenuto in piedi i provvedimenti limitativi della portata del Ban emessi dalle Corti inferiori, mentre invece nulla ci è dato sapere sulla motivazione di maggioranza e sulle ragioni alla base di questi due dissent.
Alla luce di queste scarne informazioni, è possibile ipotizzare, come molti hanno fatto, che la connotazione (almeno in apparenza) meno spiccatamente antimusulmana di questo terzo provvedimento abbia spinto la maggior parte dei giudici di Washington a pronunciarsi in favore dell’Amministrazione, autrice, questa volta, di un provvedimento più articolato e più saldamente motivato sulle ragioni della tutela della sicurezza nazionale, ragioni che, in passato, la Corte Suprema non ha comunque disdegnato di tenere in considerazione.
Ad ogni modo, come evidenziato all’indomani della pronuncia, non vi è dubbio che, con questa decisione adottata con la larga maggioranza di sette giudici contro due, l’Amministrazione Trump sia riuscita ad iscrivere una pesante ipoteca sulla decisione finale della Supreme Court, sempre che, in questo coacervo di nuove restrizioni, di nuovi ricorsi giudiziari e di pronunce giurisdizionali rese a diversi livelli, sia possibile ipotizzare che la questione trovi un punto di equilibrio definitivo prima che il mandato dell’attuale Presidente giunga a scadenza e i risultati delle sue politiche migratorie siano rimessi al vaglio dell’elettorato.