L’altro volto della Sentenza Kercher: le (poche) garanzie riconosciute agli imputati. Un punto di vista costituzionale comparato

Per quanto si possa essere abituati ad analizzare le sentenze, in particolare quelle penali, esclusivamente dall’ottica della procedura penale interna all’ordinamento nazionale, esse hanno un duplice volto, atteso che lo stesso codice penale riposa su una struttura verticistica delle fonti del diritto, al cui vertice si pone la Costituzione. Tuttavia, tale affermazione è parzialmente veritiera, poiché la stessa Carta Fondamentale apre l’ordinamento interno a fonti sovranazionali e internazionali, determinando un sistema di cerchi concentrici o, come dice la migliore dottrina, un costituzionalismo multilivello. Partendo, dunque, dal dato costituzionale, e senza pretesa di esaustività, si cercherà di vedere la sentenza Kercher, e le vicende relative agli imputati, da un punto di vista costituzionale, in un’ottica, appunto, multilivello. Non è necessario “invadere” in alcun modo il territorio del diritto penale e la sua procedura, giacché, come si diceva, ogni sentenza può essere vista da un’altra ottica, quella del costituzionalista, che si chiede quanto sia attinente a Costituzione e, peraltro, agli strumenti giudici internazionali cui la Carta apre, una sentenza che pare carente della tutela dei diritti dell’imputato. Il rovescio della medaglia, probabilmente, ovvero un lato oscuro, sovente tralasciato in sede di giudizio, un lato, tuttavia, che va tenuto in debita considerazione. La sentenza Kercher si presta a siffatta analisi, atteso che coinvolge cittadini di diverse nazionalità e, in particolare nella fase (o nelle fasi) che la precedono, pare lesiva della libertà personale, della uguaglianza davanti alla legge e del diritto ad un giusto processo.


Prima di soffermarci sull’analisi giuridica, in prospettiva costituzionale comparata del giudicato in esame, pare necessario ripercorrere brevemente l’iter giudiziario, poiché è tale dato ad essere soggetto a critiche durissime allorquando lo si guarda sotto una luce diversa da quella della procedura penale. È noto che l’omicidio della studentessa Meredith Kercher, meglio conosciuto come omicidio di Perugia, si sia consumato nella notte dell’1 novembre del 2007 a Perugia, nell’abitazione della giovane studentessa inglese, giunta in Italia per il progetto Erasmus e trovata priva di vita nella camera da letto della casa che condivideva con altre studentesse a causa di una ferita inferta presumibilmente da un’arma da taglio alla gola. La vicenda giudiziaria si apre con una denuncia alla polizia di una donna, anch’essa residente in Via Della Pergola, che ritrova nella sua proprietà due cellulari. I telefoni indirizzano immediatamente gli inquirenti verso l’abitazione delle studentesse, ove si recano per un sopralluogo, imbattendosi, nei pressi dell’ingresso in Raffaele Sollecito e Amanda Marie Knox. Quest’ultima, coinquilina della vittima, riferisce immediatamente alla polizia di aver chiamato i carabinieri dopo aver notato un vetro infranto e supponendo potesse trattarsi di una rapina; il giovane studente avalla le dichiarazioni della fidanzata, aggiungendo che Amanda avesse passato la notte presso la sua abitazione. Viste le dichiarazioni rese dai giovani, la polizia decide di entrare nell’abitazione e di sfondare la porta della studentessa inglese, chiusa a chiave. Compiuto tale gesto, la polizia si trova dinanzi ad una scena agghiacciante, poiché Meredith giace senza vita all’interno della sua stanza. Nelle ore immediatamente successive al ritrovamento del cadavere, i due giovani vengono interrogati dalla polizia, rendendo confessioni discordanti, ma, al contempo, coerenti nel dire che non si trovavano sul luogo del delitto, bensì presso l’abitazione di Sollecito.

Tuttavia, anche durante tale fase preliminare, volta semplicemente a raccogliere le dichiarazioni dei giovani, vi è un elemento fondamentale, che costerà alla studentessa statunitense una condanna  per calunnia. Dai telefoni cellulari, appartenuti alla Knox, secondo perizie svolte dalla Polizia Postale, viene alla luce, in particolare, un sms inviato da Amanda a Patrick Lumumba, proprietario del pub in cui la ragazza lavorava prima di essere licenziata a causa di un comportamento troppo disinvolto con la clientela. Il messaggio recita testualmente “see you later”, tradotto, dapprima, come “ci vediamo più tardi”, dando la possibilità ad Amanda di accusare ingiustamente Lumumba dell’omicidio, lasciando presupporre un appuntamento proprio nell’orario dell’omicidio; tuttavia, la ragazza ammette di aver mentito allorquando quel “see you later” viene tradotto come un semplice saluto, sovente usato dagli statunitensi: “ci vediamo”. Il Sollecito rilascia, al contrario, dichiarazioni più chiare, ma viene trovato in possesso di un’arma da taglio, un coltellino, facente parte di una collezione privata. Sono, dunque, questi due elementi, un sms mal tradotto e un coltellino che, per dimensioni, non poteva essere l’arma del delitto, che indirizzano i sospetti sui due giovani studenti, la cui credibilità probabilmente viene messa in discussione anche a causa della loro stessa ammissione di aver fatto uso di sostanze stupefacenti ed alcolici la sera dell’omicidio e presso l’abitazione del Sollecito. “Innocente fino a prova contraria” recitano i moderni testi di procedura penale, ma qual è la prova contraria? Un sms, un coltellino detenuto illegalmente o, ancora, il comportamento sregolato dei due fidanzati, tenutosi, peraltro entro le mura domestiche dell’abitazione del giovane studente pugliese. Indizi scarsi, evidentemente, ma “supportati”, secondo gli inquirenti, dalla contraddittorietà delle dichiarazioni rese, dichiarazioni che, tuttavia, pur essendo confuse, dovrebbero tener conto non soltanto della giovane età dei ragazzi, quanto anche delle modalità utilizzate per ottenerle: Amanda, meglio del Sollecito, spiega il perché di quelle dichiarazioni, denunciando maltrattamenti presso la sede della Polizia di Perugia, maltrattamenti, evidentemente, volti ad estorcere dichiarazioni da parte di una ragazza, ventenne all’epoca dei fatti, che non padroneggiava la lingua italiana in maniera perfetta.

Lungi dal voler prendere posizioni relative ai fatti accaduti in Via Della Pergola quella notte di novembre, pare opportuno, tuttavia, rimarcare che i due giovani, innocenti o colpevoli, non siano stati tutelati nei loro diritti di sospettati prima, ed accusati poi. In particolare, alla luce di un elemento fondamentale, l’arresto ed il patteggiamento della pena, concesso esclusivamente a chi si dichiara colpevole, del cittadino ivoriano Rudy Guede, sicuramente presente nell’abitazione della Kercher la notte dell’omicidio, grazie a prove biologiche inconfutabili. Guede, a tutt’oggi detenuto per concorso in omicidio volontario e violenza sessuale, nulla di concreto riferisce quanto alla presenza della Knox e del Sollecito sulla scena del crimine, giacché pare una congettura sostenere che i tre giovani, Sollecito, Knox e Guede avessero un appuntamento per la sera del crimine, atteso che di ciò non vi è traccia alcuna e lo stesso Guede non si pronuncia in merito. Di conseguenza, la ricostruzione fatta dagli inquirenti appare lesiva dei diritti dei sospettati.

In effetti, ciò che appare inconfutabile è la presenza di Guede nell’abitazione, ma il fatto che la Knox e il Sollecito abbiano preso parte all’omicidio diviene immediatamente una congettura, su cui, tuttavia, si baseranno le successive pronunce giudiziarie. La sentenza di primo grado, dunque, condanna i tre imputati, ritenendo che l’arma del delitto possa essere un coltello da cucina, giacché quello in possesso del Sollecito non pare compatibile con le ferite che hanno determinato il decesso della vittima. Stando alle ricostruzioni, quindi, la Kercher sarebbe divenuta oggetto di un gioco erotico a cui si sarebbe sottratta, pagando con la morte, determinata dai fendenti di un coltello da cucina nelle mani della Knox. Tuttavia, l’arma in questione non riporta traccia alcuna di Raffaele e Amanda: la pronuncia di primo grado si conclude sulla base di supposizioni, che, però, paiono sufficienti per disporre la carcerazione degli imputati, in attesa del secondo grado di giudizio.

Eppure, prendendo le mosse dal dettato costituzionale, qualcosa non torna nell’analisi degli inquirenti: se “La libertà personale è inviolabile” e nessuna forma di “detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi atto di restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e solo nei casi e modi previsti per legge” secondo l’articolo 13 Cost., perché quel provvedimento “provvisorio ed urgente”, com’è definita la custodia cautelare, si protrae per quattro anni? Perché una cittadina americana viene detenuta, in attesa di processo, in un Paese straniero? Infine, perché un cittadino UE viene condannato preventivamente ad una pena che potrebbe non divenire mai tale, percorrendo tutti i gradi di giudizio? Per quale ragione il diritto ad un processo equo non viene garantito? Meglio, la detenzione preventiva pare realmente attinente a tale concetto? In particolare allorquando ci si trova di fronte a due indiziati poco più che ventenni all’epoca dei fatti. Interrogativi che un comparatista non solo può, ma deve porsi, giacché gli strumenti internazionali e sovranazionali cui la Costituzione apre, non soltanto ricalcano le volontà della Carta stessa, ma, addirittura forniscono indicazioni imprescindibili.

Peraltro, l’iter giudiziario seguito pare aprirsi a siffatte garanzie, si pensi che dopo la condanna della Corte D’Assise, nel 2011, la Corte D’Appello di Perugia assolve Sollecito e Knox “per non aver commesso il fatto”, è proprio durante tale fase che la spaccatura del percorso giudiziario viene a galla, una Corte che condanna e dispone la carcerazione preventiva, una Corte di grado superiore che assolve. Tralasciando per un attimo il ricorso dinanzi alla Cassazione, dicevamo, un’Autorità giudiziaria di secondo grado assolve gli imputati, spingendosi a sostenere che essi non hanno preso parte al fatto criminoso. Dunque, appare più che legittimo domandarsi a cosa possa essere servita la carcerazione preventiva. Senza voler sostenere che le misure cautelari siano inutili, se non altro perché esse prevengono la fuga e l’inquinamento delle prove, il dubbio risiede in un altro dato, ad onor del vero e tralasciando l’eventuale colpevolezza, si può privare della libertà due persone che attendono un giudizio, il quale, quantomeno in quella fase, si rivela essere di assoluzione? La risposta pare scontata, almeno quanto pare singolare il fatto che una Carta Costituzionale, redatta in seguito ad una Guerra che ha leso i diritti fondamentali ben oltre l’immaginazione umana, non abbia mai accolto il concetto di Habeas Corpus, risalente alla Magna Charta Libertatum, redatta nel 1500. Da questo punto di vista la Costituzione italiana appare piuttosto carente, atteso che il suo art. 13 non recepisce siffatto diritto in maniera inequivoca, consentendo una carcerazione che si protrae per quattro anni ed a danno di due giovani. Sia consentita, dunque, una digressione, meglio, una domanda, per quale ragione i termini di custodia cautelare sovente non sono i medesimi? Per quale motivo vi sono persone che liberamente attendono la conclusione del percorso giudiziario per scadenza dei termini della custodia cautelare, ancorché inquisiti per associazione a delinquere? Non pare leso, in tal senso, il concetto di eguaglianza dinanzi alla legge?

A tali interrogativi si cercherà di rispondere attraverso il metodo comparato, ma pare necessario, dapprima, ricordare che quella tanto dibattuta sentenza di assoluzione viene annullata dalla Corte di Cassazione, la quale rimanda ad altra Corte D’Appello l’onere di pronunciarsi sui fatti. Tale fase pare, se possibile, ancor più contorta delle precedenti, atteso che la Cassazione accoglie il ricorso ed annulla l’assoluzione, ma nelle sue 74 pagine si preoccupa di analizzare in maniera approfondita le ragioni della condanna, prima e della assoluzione, poi. La Suprema Corte mette in luce la sua tendenza a chiarire gli eventi relativi alla presenza dei due giovani nella casa dove il delitto si è consumato, soffermandosi, in particolare, sulle dichiarazioni rese da taluni testimoni, in particolare il proprietario di una attività commerciale, ubicata nei pressi della casa del Sollecito e dove Amanda si sarebbe recata prima delle 8 del mattino, smentendo, di fatto, quanto la ragazza dichiarava, cioè d’essere rimasta nell’abitazione di Sollecito fino alle 10 del mattino. Tuttavia, la Cassazione, passa ad esaminare la sentenza di assoluzione, non confutando affatto la volontà di quest’ultima di riaprire la fase d’indagine biologica, volta ad appurare la presenza dei giovani nella abitazione del delitto.

I risultati cui si perviene ribaltano la precedente condanna, poiché le prove non sono sufficienti ad accusare i due imputati di siffatto crimine. Le tracce biologiche stesse vengono confutate: si parla del DNA di Sollecito sul reggiseno della vittima, nella fase di assoluzione “ci si accorge” che si tratta di materiale genetico, ma non attribuibile in maniera inequivoca a nessuno dei tre imputati. La posizione della Corte di Cassazione pare del tutto singolare, atteso che sembra suggerire né l’una né l’altra sentenza, ovvero obietta tanto la sentenza di primo grado, quanto quella di secondo grado, rammentando che era indubbiamente necessario riaprire una indagine relativa alle tracce biologiche, ma che la Corte D’Appello di Perugia basa la sua assoluzione quasi esclusivamente su tale dato, trascurando le dichiarazioni dei testimoni che, al contrario, avevano trovato molto più spazio nella sentenza di primo grado. Ciò induce la Cassazione a disporre la riapertura del giudicato presso altra Corte D’Appello, considerando quella emanata in precedenza annullata a causa “molteplici profili evidenziati di manchevolezza, contraddittorietà ed illogicità manifesta”. Né l’una né l’altra dicevamo, atteso che la Cassazione rimprovera alla sentenza di primo grado di non aver tenuto conto delle prove biologiche inconfutabili e a quella di secondo grado di essere stata carente nell’analisi delle testimonianze rese. Tuttavia, la suprema Corte non suggerisce affatto una nuova condanna, cerca di percorrere la strada più giusta, quella di tener conto di tutti gli elementi del caso, metterli insieme e, sulla base di quelli, pronunciarsi. La Corte D’Appello di Firenze, però, sembra non cogliere tale monito, “limitandosi” a condannare nuovamente gli imputati.

È proprio in questa fase che si apre il dibattito costituzionale, giacché è impossibile non notare una marcata contraddizione, atteso che nella prima condanna gli imputati, in assenza di una sentenza passata in giudicato, si trovano a scontare quattro anni di carcerazione preventiva, ad oggi si apre uno scenario del tutto paradossale: Amanda e Raffaele sarebbero, dunque, colpevoli, ma non si rende necessario alcun provvedimento cautelare, se non il ritiro per il Sollecito dei documenti validi per l’espatrio. Anche in tale affermazione della Corte fiorentina vi è una carenza, poiché se la misura del ritiro del passaporto potrebbe apparire fondata, quello del ritiro della Carta di identità, valida solo in territorio UE, non ha ragion d’essere: che la Corte abbia dimenticato di agire in un panorama di tutela dei diritti multilivello in cui vige il mandato d’arresto europeo? Ancora, la crepa più evidente in questa sentenza risiede nel fatto che essa non fa giustizia in alcun modo, atteso che, ad oggi, a pagare la pena, in quanto a misure preventive, è solo Sollecito, giacché appare del tutto fantasiosa l’estradizione di una cittadina statunitense in Italia, un Paese visto come privo di garanzie per gli imputati. Non appare necessario difendere il sistema penale statunitense, poiché anch’esso ha delle rilevanti carenze, talvolta lampanti e lesive addirittura del diritto alla vita, come la pena di morte, ma è innegabile che senza prove nessuno potrebbe essere condannato negli Stati Uniti e, di conseguenza, tale caso, avrebbe avuto ben altro epilogo. Si tratta, tuttavia di una supposizione, ragione per cui pare maggiormente fruttuoso analizzare la sentenza nell’ottica degli strumenti europei, ripercorrendola per gradi, mettendo in luce la inconfutabile carenza del sistema penale italiano.

Pare utile, dunque, rammentare che la ratifica del Trattato di Lisbona da parte dell’Italia, oltre a quella della CEDU stessa hanno determinato che tali carte volte a tutelare i diritti siano divenute strumenti giuridici vincolanti per  l’ordinamento che firma e ratifica, meglio, strumenti dotati di un catalogo di diritti, che nulla lascia all’immaginazione. Si parlava di una libertà personale lesa, di un diritto all’equo processo e dell’uguaglianza dinanzi alla legge, principi che le sentenze italiane in merito al processo in esame hanno più volte leso. La CEDU, in effetti, pare ricalcare il dettato costituzionale italiano in merito al concetto di restrizione della libertà personale, sostenendo che, fra gli altri casi, la persona, secondo l’art. 5 CEDU, ne può essere privata “se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso”. Dicevamo, appunto, “pare” che il dettato costituzionale ricalchi siffatte motivazioni, atteso che nel caso dei due imputati sembrava difficile appellarsi alla necessità di una custodia preventiva per non commettere altro reato; senza dubbio, la carcerazione è giustificata dalla necessità che gli imputati fossero tradotti dinanzi ad una autorità giudiziaria, ma può veramente dirsi con certezza che quattro anni di reclusione possano rientrare in simile fattispecie? Gli articoli di qualsiasi carta non possono essere letti singolarmente, a pena di perdere l’obiettivo, il senso, della carta redatta: ecco, dunque, che bisogna far riferimento al combinato disposto dagli articoli 5 e 6 CEDU, poiché a “stemperare” le disposizioni dell’art. 5 interviene il diritto al giusto processo, di cui all’art. 6 della Carta.

Inutile ricordare quanto spesso l’Italia sia stata condannata dalla Corte EDU e dalla Corte di Giustizia UE per la lesione di tale diritto, in particolare per la lunghezza, in termini temporali, della giustizia. Il caso Kercher non fa eccezione, atteso che a sette anni di distanza dal crimine, i due imputati restano sospesi tra condanne e assoluzioni, in attesa dell’ultima parola della Cassazione. Secondo l’articolo 6 CEDU “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. [….] Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata”. Stando alla lettera, Sollecito e Knox non sono stati tutelati da un giusto processo, in primo luogo perché quel “termine ragionevole” pare già leso, in particolare se si tiene conto dell’età degli imputati; due giovani che hanno scontato una pena in attesa di processo, meglio, in attesa di un processo equo, che per sua natura, avrebbe dovuto additare come ingiusta una reclusione di quattro anni e, ad oggi, dovrebbe ritenere riprovevoli le dichiarazioni rilasciate dal Presidente della Corte D’Appello di Firenze prima del deposito della motivazione della sentenza. La libertà personale viene violata in maniera inequivoca, i giovani continuano a studiare entro le mura di una casa circondariale professandosi innocenti; sarebbe stato molto più logico applicare le pene preventive della sentenza emanata lo scorso 30 gennaio, piuttosto che privare due giovani di una libertà, restituita a caro prezzo da una sentenza di assoluzione. Certo, il pericolo di fuga poteva configurarsi, ma proprio in quel frangente dovevano intervenire le misure cautelari, giacché, ad oggi, paiono del tutto inutili, in primo luogo perché colpiscono esclusivamente il cittadino italiano Raffaele Sollecito e, ovviamente, ciò conduce alla precedente domanda: è realmente veritiera l’affermazione secondo cui gli individui sono tutti eguali dinanzi alla legge? Nel caso Kercher l’unica risposta ammissibile è quella di un marcato diniego, giacché la cittadina statunitense Knox molto difficilmente sarà estradata in Italia, anche in presenza di una sentenza passata in giudicato; Guede, ritenutosi colpevole e, in virtù del decreto “svuota carceri”, a breve potrà godere della semilibertà; Raffaele Sollecito, al contrario, non potrà lasciare l’Italia, non potrà liberamente disporre della propria esistenza e tutto ciò in assenza di una sentenza finale. È vero, certo, che il Sollecito potrebbe ben tentare la fuga, ma quel rovescio della medaglia di cui parlavamo ci dice che il solo a pagare è, ad oggi, un cittadino italiano.

È appena il caso di sottolineare come la condanna prima, l’assoluzione, poi e, infine, la riapertura del giudicato stridano già da un punto di vista meramente interno, se solo si vuole appellarsi ai concetti di certezza del diritto e delle pene, ma è forse più intollerabile l’abilità che l’ordinamento italiano, in materia di diritto penale, ha di lasciare nell’oblio strumenti a tutela dell’individuo e, nel caso di specie, dell’imputato. Resta fuori da ogni dubbio la necessità di fare giustizia, di dare un nome ai colpevoli del delitto, ma, così facendo, la vittima non è più solo la Kercher, ma anche coloro i quali restano imprigionati nelle maglie di una giustizia sempre meno certa. È pur vero che siffatte affermazioni potrebbero essere lette come la “difesa per Caino”, ma è ancor più semplice ricordare che la giustizia, finora, non ci ha consegnato nessun Caino e che un ordinamento democratico si riconosce anche dal modo in cui tratta gli imputati: in Italia essi paiono, sempre più spesso, presunti colpevoli, di cui lo Stato non si cura, addirittura si spinge ad ignorare che ha spezzato la gioventù di due persone, colpevoli o innocenti che siano, appellandosi a misure preventive che per nessuna ragione potevano protrarsi per quattro anni.

È bene ricordare, tuttavia, che tali affermazioni, lungi dall’essere personali, si basano su quell’aspirazione fatta propria dalla Carta di Nizza, vincolante per il nostro ordinamento dal 2009, ovvero quel sistema di cerchi concentrici che non solo possono, ma devono “impressionarsi” a vicenda, affinché possa valere la tutela più intensa dei diritti per la persona…. In effetti, anche gli imputati sono persone e se le “clausole orizzontali” o “di armonizzazione”, contenute negli artt. 52, 53 e 54 della Carta di Nizza non sono solo “verbo”, l’Italia è obbligata a far valere la tutela più intensa, invece di ripiegarsi sul mero diritto interno all’ordinamento nazionale. In altre parole, se il diritto dell’UE, per il tramite della Carta di Nizza, ci informa che il livello essenziale di tutela dei diritti è quello garantito dalla CEDU, al di sotto del quale lo Stato si sottopone “volontariamente” all’apertura di una procedura di infrazione, pare altrettanto veritiero che l’Italia, ancora una volta, non abbia scampo.

Il percorso seguito dalla giustizia italiana nel caso Kercher è indubbiamente lesivo degli strumenti sovranazionali ed internazionali cui l’Italia si era impegnata a rispettare, ma, volendosi spingere verso congetture (o auspici?), cosa succederebbe se l’ordinamento italiano fosse posto sotto la lente d’ingrandimento dell’Europa? Una procedura di infrazione sarebbe il male minore probabilmente, e per ciò che attiene al livello comunitario, giacché la sanzione maggiore potrebbe venire dal sistema internazionale, dunque dalla Corte EDU. È ben noto, in effetti che il “potenziale intrusivo” di tale strumento sia diventato, negli anni particolarmente consistente, anche per il nostro ordinamento, se solo si accenna al caso Dorigo, con il quale l’Italia ha accettato la riapertura del giudicato definitivo, ipotesi che potrebbe configurarsi anche nel caso Sollecito/Knox, atteso che quell’appellativo, con cui sovente si definisce la Corte EDU, “il quarto grado di giudizio” diviene particolarmente riuscito in casi penali del genere. In un certo senso, dove non arriva la giustizia italiana subentra quella CEDU, ma non è un onore per il nostro ordinamento, poiché il sol fatto che una Corte internazionale, per quanto peculiare, debba supplire alle mancate garanzie interne lascia presumere che l’Italia abbia un sistema di giustizia penale fin troppo obsoleto.

Certo, spingersi verso l’auspicio della revisione dei Codici sarebbe troppo, ma, ci domandiamo, non sarebbe meno che sentire la pressione di una spada di Damocle sempre pronta a condannare il nostro modo di risolvere i casi giudiziari? Ovvero, non sarebbe meno che un cittadino italiano si ritrovi a sperare nei sistemi sovranazionali e internazionali di tutela dei diritti, invece che nel proprio ordinamento?

Ebbene, quei cerchi concentrici non si impressionano a sufficienza ed è l’Italia a pagarne le conseguenze, giacché si tratta di un ordinamento che riposa su una Costituzione orientata alla tutela dell’individuo, che, tuttavia, stride ancora se comparata ai codici di procedura penale e civile. Sarebbe, dunque, il caso che quell’aspirazione della Carta di Nizza venisse fatta propria dal nostro ordinamento, tanto per imparare, oltre che dai propri errori, anche dagli altrui successi ed errori, non fosse altro che per non ricevere un ulteriore monito, come quello “consumatosi” con il caso Dorigo, che ha messo in luce tutta la debolezza del sistema penale italiano, inducendo una Corte internazionale a fare le veci di una Corte interna, al fine di tutelare i diritti dell’individuo, che sia esso innocente o colpevole.