Le possibili implicazioni istituzionali delle proposte di Jair Bolsonaro. Una cronaca costituzionale delle elezioni in Brasile

Il primo turno delle elezioni in Brasile si è tenuto il 7 ottobre 2018. L’elettorato brasiliano ha scelto i membri delle camere legislative regionali, i governatori, i deputati federali, due senatori (ad ogni stato federato sono attribuiti tre seggi senatoriali, che vengono rinnovati parzialmente ogni quattro anni). Nella concomitante elezione presidenziale, tuttavia, nessun candidato ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti, cosicché Jair Bolsonaro, del Partido Social Liberal ­(PSL – Partito Sociale Liberale), e Fernando Haddad, del Partido dos Trabalhadores (PT – Partito dei Lavoratori, lo stesso degli ex-presidenti Lula e Dilma Rousseff), sono passati al secondo turno, che si è tenuto il 28 ottobre. Jair Bolsonaro ha vinto l’elezione con una percentuale del 55% dei voti ed eserciterà le sue funzioni dal 1º gennaio 2019.
Finora, molta dell’attenzione mediatica e degli osservatori si è soffermata sulle durissime prese di posizione di Bolsonaro nei confronti delle minoranze, delle donne e dei suoi avversari politici, in occasione delle quali questi non ha mancato di auspicare il ritorno alla pena di morte o di rimpiangere apertamente il periodo della dittatura.
A seguito della vittoria elettorale, vi è quindi il timore che Bolsonaro possa presto tradurre in pratica le sue proposte, il che solleva l’interrogativo intorno alle ricadute istituzionali e costituzionali di un così radicale cambio di prospettiva, che sembra in apparenza disconoscere i progressi compiuti dal Brasile negli ultimi decenni sul terreno del consolidamento democratico. I discorsi di Bolsonaro chiamano in causa la capacità delle istituzioni brasiliane di frenare gli impulsi più gravemente contrari alla democrazia che ne potrebbero seguire. La costituzione brasiliana concede al Presidente ampi poteri di iniziativa legislativa, di regolamentazione amministrativa degli affari economici e di definizione delle politiche pubbliche, i quali non sono, tuttavia, sufficienti per mettere in atto cambiamenti istituzionali drastici nell’ipotesi in cui non ci sia una rottura profonda dell’ordine costituzionale. Nel contesto attuale, in cui lo Stato si caratterizza per una grande complessità e la democrazia costituisce un valore condiviso dalla comunità internazionale, l’emergere di un regime dittatoriale analogo a quello che ci fu tra il 1964 ed il 1984 in Brasile è improbabile. Appare invece verosimile la possibilità di una degenerazione graduale verso una democrazia illiberale, analogamente a quanto ad esempio si osserva in Stati come il Venezuela, la Turchia o l’Ungheria.
Nel quadro istituzionale odierno la possibilità di riforme costituzionali o legislative che possano portare a un tale esito dipende dal Parlamento (Senato e Camera dei Deputati), poiché la modifica della costituzione richiede una maggioranza qualificata di tre quinti dei membri di entrambe le camere legislative, mentre l’approvazione di leggi ordinarie esige la maggioranza semplice. Tenendo in conto il risultato delle elezioni, la composizione del Parlamento sarà frammentata: dall’inizio dell’anno prossimo, trenta partiti politici saranno rappresentati alla Camera dei Deputati. Il partito di Bolsonaro (PSL) è riuscito ad eleggere 52 deputati (il 10,1% dei seggi), diventando il secondo partito alla camera bassa dopo il PT (con 56 deputati eletti).
Ciò nonostante, non si può dare per scontata l’opposizione della maggioranza parlamentare al futuro governo Bolsonaro. Dall’elezione del 1994 in poi, le maggioranze sono state sempre  costruite dopo il voto, in particolare attraverso la distribuzione di incarichi nei ministeri, nella pubblica amministrazione o nelle imprese pubbliche – un modello governativo noto come presidencialismo de coalizão (presidenzialismo di coalizione). Inoltre, l’Emenda Constitucional n.º 97 del 2017, che limita l’accesso ai fondi pubblici di finanziamento e alla pubblicità gratuita su radio e TV a seconda della percentuale dei voti ottenuti dal partito, ha creato un nuovo incentivo per la migrazione dei deputati verso i partiti più grandi. Non si può dunque ritenere che il Parlamento funzioni necessariamente come contrappeso alle tendenze più distruttive della democrazia, soprattutto a fronte di possibili benefici politici o elettorali a senatori e deputati.
Il documento che contiene il programma di governo di Bolsonaro espone, tuttavia, una posizione contraria al cosiddetto “toma lá, dá cá”, ovvero alla logica di funzionamento del presidenzialismo brasiliano secondo la quale il voto dei parlamentari contro o a favore dei  progetti di legge di interesse del governo è determinato dallo scambio di favori. Da un lato, non aderendo a quel modello, Bolsonaro potrebbe diventare un presidente debole, incapace di far approvare le misure che ritenga necessarie al governo. Dall’altro, un ritorno alle usanze dei suoi predecessori probabilmente porterebbe alla disapprovazione popolare, giacché il Presidente eletto rappresenta per i suoi seguaci ed elettori una rottura con i partiti tradizionali e con l’élite politica che l’ha preceduto, ritenuta corrotta. Tale stallo potrebbe incentivare Bolsonaro a cercare la mobilitazione popolare diretta allo scopo di rafforzare il suo potere o la sua legittimazione, per esempio attraverso gli strumenti previsti dallo stesso testo costituzionale (plebisciti e referendum). Nell’ordinamento giuridico brasiliano, la convocazione di plebisciti o referendum dipende dall’emanazione di un decreto legislativo, che deve essere approvato dalla maggioranza semplice dei membri del Parlamento presenti alla votazione.
Il rapporto tra il governo Bolsonaro e il Potere Giudiziario potrà essere ugualmente problematico. In luglio, durante la campagna elettorale, Bolsonaro ha dichiarato la sua intenzione di ampliare la composizione del Supremo Tribunal Federal – STF (la corte più alta nella gerarchia del Potere Giudiziario brasiliano, che svolge anche il ruolo di corte costituzionale) da undici a ventuno giudici, cosicché lui stesso possa nominare dieci nuovi membri e, in particolare, i sostituti di Celso de Mello e Marco Aurelio Mello, i quali raggiungeranno l’età del pensionamento obbligatorio (75 anni) nel corso del suo mandato. L’idea rispecchia l’Ato Institucional n.º 2, del 27 ottobre 1965, attraverso il quale il governo militare aveva aumentato il numero di giudici del Supremo Tribunal Federal da undici ad un totale di sedici membri. Il figlio di Jair Bolsonaro, Eduardo, eletto nello stato di São Paulo e risultato il deputato federale più votato, aveva già dichiarato, quattro mesi prima delle elezioni, che per chiudere il STF sarebbero sufficienti “un soldato e un caporale”, insinuando che, se un giudice del STF fosse arrestato, non ci sarebbero massicce manifestazioni popolari in suo favore.
Una settimana fa, il 31 ottobre 2018, il Supremo Tribunal Federal ha indicato che potrà svolgere un ruolo di resistenza nei confronti delle spinte autoritarie. Nel giudizio sul provvedimento d’urgenza nell’Arguição de Descumprimento de Preceito Fundamental – ADPF n.º 548, i giudici hanno riconosciuto, all’unanimità, l’esistenza di una minaccia al diritto di libera manifestazione delle idee nelle università pubbliche, revocando le ordinanze dei giudici elettorali che avevano imposto, ad esempio, la rimozione di bandiere contro il fascismo o il sequestro di pamphlet in favore della democrazia.
Nel corso degli ultimi anni l’esposizione mediatica dei giudici, le controversie intorno all’indagine sulla corruzione denominata Operação Lava Jato (che ha portato all’arresto dell’ex-presidente Lula, di dirigenti della compagnia petrolifera pubblica – Petrobras e di imprenditori privati che avevano rapporti commerciali con la stessa, ma, ad oggi, non degli avversari politici del PT) e le dispute interne al STF (aggravate dalla trasmissione televisiva dal vivo delle sessioni deliberative della corte) hanno creato la percezione diffusa secondo la quale i giudici svolgono un ruolo più politico che tecnico-giuridico. Un esempio di questa situazione sono le ordinanze del vice-presidente e, poi, dello stesso presidente del STF con le quali sono state vietate le interviste dell’ex-presidente Lula, contrariamente alla giurisprudenza secondo la quale i partiti politici non hanno legittimità attiva per avviare quel tipo specifico di ricorso (nel caso di specie, promosso dal partito Novo). Sérgio Moro, il giudice di primo grado che ha condannato Lula e ordinato il suo arresto, ha appena accettato l’invito di Bolsonaro ad assumere l’incarico di Ministro della Giustizia nel suo governo, contribuendo all’impressione di mancata imparzialità nella direzione dei processi penali derivati dalla Lava Jato.
Il rischio per la democrazia si pone non soltanto nei confronti degli altri poteri o organi dello Stato, ma anche della stampa, la cui libertà è funzionale alla possibilità di responsabilizzazione degli attori politici per le decisioni che essi prendono nell’esercizio del potere. In Brasile, il Presidente eletto ha adottato un atteggiamento bellicoso verso la stampa tradizionale, ad esempio minacciando il quotidiano Folha de São Paulo, accusato di posizioni ostili nei confronti del governo, di revocare i finanziamenti. Pochi giorni fa, la partecipazione di giornalisti di alcuni quotidiani e agenzie internazionali ad un’intervista collettiva è stata impedita dallo staff di Bolsonaro ed un video operatore della TV Globo che lo accompagnava è stato obbligato da un agente di Polizia Federale a cancellare alcune immagini che aveva registrato. Invece delle agenzie di stampa tradizionali, Bolsonaro dimostra una predilezione per le reti sociali. Infatti, la sua campagna elettorale ha utilizzato efficacemente le piattaforme di comunicazione sul web, in particolare WhatsApp, permettendo l’osservazione di una nuova economia di produzione della verità, in cui i fatti vengono determinati dal numero di condivisioni dei contenuti all’interno delle comunità virtuali con le quali il soggetto interagisce.
L’ultimo confine di resistenza contro eventuali scelte governative che possano mettere a rischio la democrazia e l’ordine costituzionale brasiliano è quello della società civile: associazioni, sindacati, organizzazioni non governative, movimenti sociali che si occupano della lotta contro ciò che viene percepito come ingiustizia. Il programma di governo di Bolsonaro, tuttavia, propone di qualificare come reato di terrorismo l’occupazione di proprietà rurali o urbane, una proposta che mira principalmente a colpire il Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra – MST (Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra, in italiano) ed il Movimento dos Trabalhadores Sem Teto – MTST (Movimento dei Lavoratori Senza Tetto), sebbene l’ordinamento giuridico già preveda rimedi procedurali contro le occupazioni illecite o abusive. L’idea di ampliare l’elenco di atti rientranti nella categoria giuridico-penale di terrorismo può raggiungere anche altri movimenti sociali e manifestazioni popolari, poiché il progetto di legge a tale riguardo adotta termini imprecisi che ricomprendono le diverse forme di intimidazione di persone, di gruppi o della popolazione nel suo insieme.
In conclusione, non sono ancora chiare le implicazioni istituzionali dell’elezione di Jair Bolsonaro alla Presidenza della Repubblica. In questo momento un’analisi costituzionale deve limitarsi ad evidenziare le incertezze legate a tale elezione, anche se le convinzioni autoritarie di un presidente rappresentano esse stesse delle sfide per le istituzioni di uno Stato. Ciò nonostante, il discorso di Bolsonaro e la sua accettazione da parte della maggioranza dell’elettorato brasiliano contribuiscono a conferire una patina di legittimità al ricorso alla violenza, un problema con il quale la società brasiliana dovrà fare i conti nei prossimi anni.